Roma, Matteo Renzi alla presentazione dei candidati alle europee del Pd nel maggio 2019(foto LaPresse)

Manifesto per un governo vivo

Claudio Cerasa

Combattere il giustizialismo, opporsi a nuove tasse, respingere l’ambientalismo della decrescita, eliminare Quota 100, portare il sorteggio al Csm, non farsi inghiottire dal modello Casaleggio. Chiacchierata con Matteo Renzi sugli anni che verranno

Il futuro del governo e i paletti di un movimento. Il perimetro degli amici e il profilo dei nemici. Il senso di una mossa e le contraddizioni di una svolta. La consapevolezza della sconfitta e le sfide alla maggioranza. E poi le confessioni sul domani, le idee sulla manovra, il progetto sul deficit, il sorteggio al Csm, gli elogi a Di Maio, le stoccate a D’Alema, il guanto lanciato a Salvini, il sogno della doppia cifra e una storia non ancora raccontata su quella domenica del 2018 che ci può dire qualcosa sulla scadenza del governo e sul destino della legislatura. Abbiamo passato un’ora con Matteo Renzi, per provare a capire qualcosa di più rispetto alla sua scissione, alla sua nuova strada, alla sua Italia Viva, e in un’ora di chiacchiere l’ex presidente del Consiglio, ed ex segretario del Pd, ha parlato di tutto e ha cercato di spiegare la ragione per cui la separazione dal Pd ha più a che fare con i nemici del Pd che con gli amici rimasti nel Pd. La chiave è tutta lì, nella vera divisione del mondo, nella frattura tra apertura e chiusura, nella capacità, in mezzo a mille contraddizioni e a mille difficoltà, di presidiare uno dei due terreni da gioco provando a far di tutto non per distinguersi con chiarezza dai vecchi amici ma per distinguersi con chiarezza dai nuovi nemici. Difficile dire dove potrà arrivare Renzi. Ma per provare a capire dove potrà arrivare il governo ascoltare l’ex presidente del Consiglio è utile.

   

Senatore Renzi, ma che differenza c’è tra Italia Viva e il Pd?

“Siamo un’altra cosa rispetto al Pd, abbiamo un altro entusiasmo. Ma il nostro avversario è Salvini, non Zingaretti”

“C’è una differenza di linguaggio, di stile, di liturgie interne. E di entusiasmo. Noi siamo felici di essere una squadra, non passiamo il tempo a cercare di attaccare il compagno di partito. Non viviamo di correnti e di fuoco amico. Poi, certo, abbiamo anche dei temi di contenuto: Zingaretti valorizza la classe dirigente che era contro il Jobs Act. Mette nella sua segreteria uno che era contro la riforma del lavoro, mette alle riforme istituzionali uno che era contro il nostro referendum. Quindi ci sono delle differenze programmatiche, di contenuto. Del resto la parola d’ordine della nuova segreteria era ‘Dobbiamo chiedere scusa’ per gli anni dei nostri governi. Io non chiedo scusa delle cose buone che abbiamo fatto, io non mi vergogno della stagione riformista di questo paese, io sono fiero di aver preso un paese che stava con Letta al meno 2 per cento e che abbiamo lasciato a Conte a +1.7 per cento. Ma più che sul passato, la differenza è sul futuro. Noi abbiamo creato un partito in cui la diarchia uomo donna è regola costitutiva mentre nella cultura dominante di questo paese quando valorizzi una donna c’è sempre chi si chiede: ‘Chissà cosa c’è sotto’. E quando una storia bellissima come quella di Teresa Bellanova arriva al Quirinale, la attaccano sul vestito: meschini! Abbiamo un partito in cui i coordinatori provinciali saranno spesso millennial, ragazzine e ragazzini. Se un ventenne entra in una sezione del Pd gli chiedono ‘Con chi stai?’, noi dobbiamo chiedergli ‘Che cosa pensi? Che idee hai? Che cosa proponi?’. Non me ne frega niente di farti iscrivere alla mia corrente, mi interessa sapere come vuoi cambiare il mondo. Ecco, con una battuta possiamo dire che noi non stacchiamo la spina al governo: noi stacchiamo le correnti, non la corrente. Naturalmente dico queste cose con una punta di amarezza perché avrei voluto cambiare il Pd e non ci sono riuscito. Paradossalmente la nostra azione di governo ha cambiato l’economia italiana più di quanto la nostra segreteria abbia cambiato il Pd. Ma forse le correnti del Pd sono ineliminabili se è vero che costituiscono il cruccio per tutti i segretari autenticamente riformisti. Detto questo, caro direttore, il mio avversario non è il Pd: il mio avversario è Salvini. Siamo un’altra cosa rispetto al Pd, abbiamo un altro stile, abbiamo un altro entusiasmo. Ma il nostro avversario è Capitan Fracassa Salvini, non Zingaretti. E forse anche il Pd senza più Renzi dentro vivrà meglio e senza alibi, mettiamola così”.

 

Non si può non ricordare però, senatore, che quello che lei ha fatto è in contraddizione con molte idee che lei ha rivendicato negli ultimi anni. Ricorda? “Dobbiamo dire no ai partitini”, “dobbiamo coltivare a tutti i costi la vocazione maggioritaria”, “dobbiamo ricordare che quando si perde si resta dentro, si lotta e si va avanti e non si scappa via con il pallone”. Come spiega anche a se stesso l’avere cambiato idea su tutti questi punti?

“Le critiche sono oggettive, certe. Abbiamo semplicemente dovuto cambiare idea, prendendo atto della realtà. Fare politica senza fare i conti con la realtà è la negazione della democrazia e della serietà: tu sei davanti a un mondo che cambia, non puoi interpretarlo sulla base dei tuoi desideri ma di ciò che hai davanti. Il principio di realtà è il fondamento della serietà. Io contesto chi vive di ideologia e non si arrende davanti alla realtà. Tutto cambia il 4 dicembre 2016. La mia sconfitta, certo. Ma dopo aver personalizzato la campagna elettorale, non personalizziamo anche l’analisi del voto. Io perdo, certo. E vado a casa, certo. Ma chi perde è innanzitutto l’idea che l’Italia possa diventare un luogo di stabilità politica. Tra il 2016 e il 2017 arriva uno tsunami sulla politica mondiale. E oggi paesi che erano strutturalmente stabili non lo sono più: il Regno Unito e la Spagna erano modelli di alternanza, oggi sono modelli di caos. 

 


È viva l’Italia che si apre. “Lasciamo i muri a chi scimmiotta Orbán, e non si rende conto di fare un danno al paese”. “Non vogliamo far piangere i ricchi, vogliamo far star bene i poveri”


  

Quanto l’Italia, forse persino più dell’Italia. Negli ultimi quattro anni l’Italia ha votato una volta, la Spagna quattro volte. Chi lo avrebbe mai detto solo dieci anni fa? La Germania è potenzialmente il prossimo paese a rischio anche se a Berlino la cultura della grande coalizione e del compromesso costituiscono una base solida per evitare tensioni istituzionali. Rimangono solo Stati Uniti e Francia, che hanno un sistema in cui chi vince governa davvero. Io volevo questo, con quel referendum: far governare il vincitore. E dargli poteri veri, in un sistema di pesi e contrappesi costituzionalmente forte. Abbiamo tentato di scrivere una pagina nuova che partisse dalla riforma istituzionale. Se noi avessimo approvato una legge elettorale con il ballottaggio e un sistema senza il bicameralismo paritario avremmo avuto le condizioni per garantire la stabilità per cinque anni e avremmo indirizzato le forme della politica sul modello che io sogno, ovvero il modello francese o americano dove chi vince governa per cinque o quattro anni. Macron può fare Macron anche perché se arriva al 9 per cento di consenso con i gilet gialli nessuno gli toglie la fiducia fino al 2022: sembra banale ma è un punto decisivo.

 

“Vogliamo essere più forti rispetto alle previsioni… Questa nostra casa avrà a breve più di cinquanta parlamentari, centinaia di sindaci, una cinquantina di consiglieri regionali, migliaia di amministratori e soprattutto un sacco di comitati e semplici iscritti. Sarà una rivoluzione”

Quella del 4 dicembre è stata una sconfitta pazzesca perché non ha solamente segnato la fine dell’ultimo governo che aveva fatto leggi di bilancio espansive, è anche stata la sconfitta di un modello politico. Non c’è dubbio: aver detto di no il 4 dicembre ha segnato la mia sconfitta tre anni fa ma – contrappasso dantesco – paradossalmente i principali sconfitti di oggi sono il centrodestra e i Cinque stelle perché non possono immaginare di governare l’Italia sulla base dell’attuale sistema e devono per forza inventarsi qualche accordo. Loro che dicevano “Mai col Pd” ora stanno col Pd per colpa o grazie al loro No al referendum. Quelli che prima erano inciuci oggi si chiamano contratti di governo: cambia il nome, non la sostanza. Io ho tentato di scrivere una pagina nuova che partisse dalla riforma istituzionale. Adesso il principio di realtà ci dice che dobbiamo girare pagina. Fatta questa lunga premessa, posso rispondere. Certo, ho cambiato idea sul restare dentro il Pd. Ma il Pd che festeggia la notte del 4 dicembre o che mette alla guida delle riforme chi ha votato No il 4 dicembre non può più essere casa mia. Quanto al fatto di aver fondato un partitino, ho un unico modo per smentire questa idea. Farlo diventare un partitone: ci proveremo. E io dico che ci riusciremo. Se guardate le immagini delle prime riunioni di questi giorni, penso a quella di Milano ma non solo, vedrete che quel partito non è un partito del 5 per cento. E a bassa voce nei palazzi della politica lo ammettono tutti: chi con entusiasmo, chi con terrore. Questa nostra casa avrà a breve più di cinquanta parlamentari, centinaia di sindaci, una cinquantina di consiglieri regionali, migliaia di amministratori e soprattutto un sacco di comitati e semplici iscritti. Sarà una rivoluzione, mi creda”.

   

Lei, in modo forse ottimistico, ha detto che il suo partito ha le potenzialità di arrivare fino al 10 per cento. In vista del futuro, qual è il sistema elettorale che meglio si può adattare al profilo del vostro movimento?

“Non faremo alcuna battaglia politica sul sistema elettorale perché ci sentiamo vincolati dall’impegno che il presidente del Consiglio porterà in Aula. Siccome il premier ha parlato della riforma istituzionale in un pacchetto noi valuteremo ciò che egli offrirà. Non saremo noi a dire come farla. Io preferisco il maggioritario ma siccome non posso più decidere da solo mi va bene il proporzionale, il misto, il sorteggio, quello che vogliono. Quello che devono capire è che se qualcuno immagina di poter condizionare Italia Viva, dicendo che vuole fare una legge elettorale contro di noi, commette un duplice errore. Innanzitutto fare una legge elettorale contro qualcuno di solito porta sfiga. Poi l’attuale legge elettorale rafforzerebbe Salvini: quindi per fare un dispetto a Renzi farebbero un favore a Salvini. Ci hanno già provato quest’estate e non è andata benissimo. Il secondo punto è che Italia Viva non ambisce a essere un partitino, noi vogliamo essere oltre la doppia cifra. Siamo certi che essere stimati attorno al 5 per cento di partenza dai sondaggisti che non conoscono il logo e il brand è già un risultato sorprendente. Ma noi vogliamo essere più forti rispetto alle previsioni”.

  

 

Sul nostro giornale, Luigi Marattin ha scritto che il vostro progetto nasce dalla volontà di presidiare con forza il terreno di gioco dell’apertura. Si è mai chiesto perché il mondo della chiusura ha un suo eroe, ovvero Trump, mentre il mondo che si ispira all’apertura fatica a trovare un suo leader, che ha tutta l’aria di essere un politico come Macron?

“Gigi Marattin è molto bravo. E sarà una colonna di Italia Viva, insieme a tanti altri parlamentari e no che non hanno trovato purtroppo molto spazio in questi ultimi mesi nel dibattito politico ma che saranno una sorpresa per tanti. Ha ragione Marattin quando dice che noi siamo per l’apertura. L’Italia aperta vince, l’Italia chiusa muore. Non lo dicono i futurologi, lo dice la storia. L’Italia è diventata grande quando ha colto le occasioni di una società capace di aprirsi e contaminarsi, dall’Impero Romano al Rinascimento. L’Italia è terra di emigrazione e immigrazione da sempre e un piccolo paese di 60 milioni di persone oggi può essere luce in tutto il mondo, con la propria cultura, il proprio export, la propria bellezza. Noi siamo per l’apertura e lasciamo i muri a chi scimmiotta Orbán non rendendosi conto di fare un danno esistenziale al nostro paese.

  

“Ritengo Quota 100 un furto alle nuove generazioni. E un autogol per il bilancio del paese”. “Eliminare il reddito di cittadinanza sarebbe un’inutile provocazione ai Cinque stelle, cercare di trasformarlo sempre di più in un lavoro di cittadinanza può avere una logica positiva anche per le aziende”

Veniamo a Trump e Macron, domanda tosta questa. Trump oggi è il mito dei nuovi protezionisti. Ma la sua narrazione è decisamente zoppicante per vari motivi. Intanto perché laddove un leader populista ha sfidato e sfida le istituzioni non è detto che vinca. Magari fa il pieno di like sui social, ma non è detto che vinca. Negli ultimi due mesi i due leader populisti che hanno sfidato i propri parlamenti, Matteo Salvini in Italia e Boris Johnson nel Regno Unito, hanno raccattato sonore sconfitte. Con buona pace di chi profetizza la fine delle democrazie liberali, i presidi istituzionali parlamentari sono ancora garanzia e argine della democrazia. Cito questo fatto perché la vicenda del rapporto Ucraina-Trump contro il figlio di Biden rischia di essere decisiva per la Casa Bianca, molto più delle precedenti storie delle interferenze russe o di qualche pornostar. Lo ha scritto, acutamente come sempre, Giuliano Ferrara sul Foglio di sabato. E lo ha detto in modo rigoroso e austero la speaker Nancy Pelosi qualche giorno fa. Nelle prossime settimane in America si gioca la terza partita ‘Istituzioni versus Populismo’. E non è detto che Trump vinca: farà la vittima certo, i dem probabilmente non hanno i numeri. Ma attenzione: questa vicenda potrebbe anche rafforzare Joe Biden. E Joe non solo è un grande amico dell’Italia (spassosi i suoi ricordi dei pizzaioli del Delaware emigrati dal Mezzogiorno che lo votano da anni e lo ritengono uno di loro) ma è anche e soprattutto l’unico in grado di battere il presidente. Il sistema americano dipende da cinque-sei piccoli stati decisivi, gli swing states. E Biden in quegli stati può fare la differenza, mentre ragionevolmente la Warren no. Insomma: è vero che Trump che ha aperto la sua presidenza col discorso dell’inaugurazione tutto concentrato sul protezionismo è il campione del mondo chiuso. Ma è anche vero che la partita negli Stati Uniti è più aperta di quanto si racconti.

   

Macron è invece nel suo momento decisivo. Ha vinto, entusiasmato, poi ha ricevuto una gigantesca campagna ostile con i gilet gialli, ha saputo recuperare con il Grand Debat. Adesso che fa? Adesso deve implementare le riforme, deve dare concretezza al suo progetto. E può farlo, secondo me. Anche perché la nuova Europa di Ursula von der Leyen e Charles Michel è figlia della sua leadership come molti di noi avevano previsto proprio un anno fa, quando sembrava assurdo dirlo e quando il genio di Salvini arrivava al punto di andare a Mosca a tifare contro la Francia persino ai Mondiali. Fino a poco fa quattro paesi erano alla guida dell’Europa: Regno Unito, Francia, Germania e Italia. Il Regno Unito è fuori, l’Italia è stata fuori per oltre un anno. Una delle ragioni per cui mi sono convinto – nonostante i risentimenti personali – a fare l’accordo con i grillini è anche perché serviva ritornare, hic et nunc, a giocare un ruolo in Europa evitando che la storica e necessaria relazione franco-tedesca cancellasse tutti gli altri. Rispetto a questo scenario, la partita europea, la partita americana e i rapporti con la nuova Via della seta in Cina aprono degli scenari meravigliosi. Se l’Italia prova a gestire una partita e se Macron prova a essere leader europeo c’è da divertirsi per tutti. Ma sono due punti interrogativi. Macron deve implementare le sue riforme e l’Italia deve tornare al tavolo da protagonista, non da comprimaria”.

    


La prima manovra economica, “cacciare Salvini e bloccare l’aumento dell’Iva”. “Abbiamo fatto un partito No Tax. Quello che potremo fare per evitare l’aumento delle tasse lo faremo”. La necessità di sbloccare gli investimenti e di combattere il giustizialismo. Sì al sorteggio per il Csm: “Sono più d’accordo con Bonafede che con Orlando”


    

“La nuova maggioranza ha una forte componente giustizialista nei Cinque stelle. Ma le sensibilità personali sono spesso meno dure della linea ufficiale del partito. Molti di loro ammettono candidamente che il giustizialismo è un errore. Mi preoccupa paradossalmente di più la potenziale svolta giustizialista del Pd”

Abbiamo parlato a lungo negli ultimi mesi di spread, inteso come differenziale tra Btp e Bund, ma ci sono altri spread più importanti che andrebbero considerati, per studiare bene i deficit del paese. Pensiamo alla giustizia. Pensiamo alla competitività. Pensiamo alla crescita. Tempo fa, per provare a stimolare la crescita, lei propose l’idea di arrivare a un deficit al 2,9 per cento. Non potrebbe essere questo il momento per provarci? E non potrebbe essere questo il momento per provare a superare il fiscal compact in Europa?

“Se la mette così facciamo venire un colpo al mio amico Roberto Gualtieri. Che è forse il più ferrato di tutti noi nel calcolo del deficit giusto sulla base delle regole europee. Facciamo un passo indietro. Il primo punto fondamentale è che se noi non avessimo compiuto il capolavoro tattico di mandare a casa Salvini ad agosto oggi avremo un sistema economico in crisi profonda. Quella che hanno ironicamente chiamato ‘la zampata’ oppure ‘Operazione Machiavelli’ comporta il fatto che l’Italia ha comprato tempo in Europa. Abbiamo di fronte a noi un anno di relativa tranquillità ma tale è stato il sollievo di aver allontanato dal governo chi usava l’Europa come mezzo per regolare qualche conto interno che è come se ci fossimo comprati un anno di tempo. Se non si fosse fatto il governo avremmo avuto lo spread a 300, un leghista alla Commissione europea anziché Gentiloni, i mercati in tensione e il paese impegnato in una gara a colpi di slogan. La prima manovra economica è stata cacciare Salvini e bloccare l’aumento dell’Iva. L’aumento selettivo sarebbe una presa per il naso selettiva. La sfida è conformare la nostra politica di sviluppo a un piano quinquennale, che corrisponde al programma di governo di Ursula von der Leyen, che prevede l’economia verde, la sostenibilità, gli investimenti nelle periferie.

  

In questa fase il governo non ha intenzione di portare il deficit al 2,9 per cento e noi rispettiamo questa scelta. Si poteva fare nel 2017 se avessimo vinto il referendum e soprattutto questa è una cosa che fai se hai nel carniere delle riforme fatte, un premier che ci crede, una maggioranza solida, un paese in forma. Oggi aprire questo tema farebbe solo un danno a Gualtieri e Gualtieri va sostenuto e aiutato, punto”.

  

Per ottenere qualcosa di più in termini di flessibilità bisognerebbe evitare di utilizzare quei soldi in più per portare avanti politiche non espansive e forse persino recessive. Secondo lei Quota 100 e reddito di cittadinanza sono riforme da abolire?

“Ritengo Quota 100 un furto alle nuove generazioni. E un autogol per il bilancio del paese. Vedremo che cosa ci porteranno in Aula da votare e discuteremo ma Quota 100 è l’ennesima dimostrazione di come il populismo faccia danni a lungo termine. Il reddito di cittadinanza è una misura che io non amo, notoriamente. Alla Leopolda ho chiesto di intervenire al sindaco di Gabicce, Domenico Pascuzzi, che a inizio estate fece scalpore sottolineando come molti giovani rifiutassero di fare la stagione per colpa del reddito di cittadinanza. Ma è una legge che c’è, è un pilastro dei Cinque stelle e noi l’accordo l’abbiamo fatto coi Cinque stelle. Hanno già cambiato idea sulla Tav, sulla Tap, su Ilva, sulle Olimpiadi: non è che puoi imporre tutto tu. Giusto dunque che si lavori insieme sul reddito, partendo dal presupposto che questa misura non si può eliminare. Magari si può cercare di valorizzare i controlli della Guardia di Finanza visto che il 60 per cento dei controlli a campione che sono stati fatti hanno mostrato qualche problema. E si può aiutare la parte positiva del ‘lavoro di cittadinanza’ che deve essere implementata. Che non ci sia soltanto un sussidio ma che venga valorizzata anche la parte che riguarda la ricerca del lavoro. Eliminare il reddito di cittadinanza sarebbe un’inutile provocazione ai Cinque stelle, cercare di trasformarlo sempre di più in un lavoro di cittadinanza può avere una logica anche per le aziende. Abbiamo qualche nostra parlamentare bravissima su questi temi, sarà un piacere provare a migliorare le cose tutti insieme. Sul tema delle tasse rivendico ciò che abbiamo fatto: l’Irap costo del lavoro, l’Imu prima casa, l’Ires, il canone Rai, gli 80 euro. Oggi l’abbassamento delle tasse è più complicato perché i numeri sono stretti. Abbasserei tutte le tasse perché credo che la pressione fiscale sia eccessiva, però intanto pensiamo a non fare aumentare l’Iva.

   

Dopo di che spero che il ministro dell’Istruzione si preoccupi di rimettere in piedi l’Unità di missione sull’edilizia scolastica, non di attaccare la Ferrero dicendo che l’uomo più ricco d’Italia fa le merendine. Perché se vuoi aprire un dibattito sull’educazione alimentare, discutiamo e ragioniamo. Se vuoi mettere le tasse sulle merendine in nome dell’invidia sociale stiamo scendendo ai livelli bassi bassi di chi diceva ‘Anche i ricchi piangano’. Il mio obiettivo non è la punizione sociale per chi sta bene ma aiutare chi sta peggio. Noi non vogliamo far piangere i ricchi, vogliamo far star bene i poveri. Spero che il ministro dell’Istruzione si occupi di scuola, non di invidia sociale”.

   

È una promessa la sua? Ovvero: il suo partito dà la garanzia che nelle manovre di questa legislatura non ci sarà alcun aumento delle tasse?

“Il nostro obiettivo è questo, noi abbiamo fatto un partito No Tax. Qualcuno ha fatto il partito No Tav, qualcuno No Tap, noi facciamo il No Tax. Nella mia esperienza di capo di una giunta o di un governo non ho mai alzato una tassa. Oggi non sono più solo, non comando più io. Ma quello che potremo fare per evitare l’aumento delle tasse lo faremo. Ricordo che con il governo gialloverde la pressione fiscale è aumentata… Bisognerebbe fare un monumento al professor Marco Fortis, che costantemente sul vostro giornale fa la fatica di leggere i dati Istat e di spiegarli. Forse è per questo che i talk-show non lo chiamano mai. Preferiscono commentatori che spiegano dati che spesso neanche hanno capito. La narrazione di un’Italia debole e senza manifattura va avanti da 20 anni. Ma è falsa. E dire che nel nostro triennio le tasse sono diminuite”.

   

In Italia si parla da tempo della necessità di avere un partito del pil. Lei crede che quel partito possa corrispondere al profilo del suo movimento?

“Il partito del Pil significa nella mia testa il partito di chi non si rassegna. Mi hanno molto preso in giro per il nome Italia Viva. Vi devo confessare che appena ho proposto il nome nella prima riunione dei gruppi parlamentari mi hanno preso in giro quasi tutti. Qualcuno lo ha definito un tonno, altro che lo yogurt di Prodi. Ma questo dà il senso di una cosa importante: fuori dal Pd, siamo tornati a scherzare, a sorridere, a prenderci in giro, a vivere con leggerezza. Nel Pd ti alzavi la mattina e dovevi guardarti le spalle dal tuo compagno di stanza. Qui scherziamo, sorridiamo, ci prendiamo in giro. Ma poi marciamo insieme senza correnti e divisioni. E comunque alla fine Italia Viva piace a tutti. Perché basta vedere una riunione per capire perché abbiamo scelto questo nome. Noi siamo l’Italia Viva. E’ una definizione che include chi si alza la mattina presto, chi si fa il mazzo, chi lavora e ci crede. E’ anche il partito di chi fa associazionismo e volontariato, del terzo settore, dell’Italia che si mette in movimento. Poi dobbiamo considerare dei punti specifici come non alzare le tasse, sbloccare gli investimenti. Il piano per l’edilizia scolastica e il piano per il dissesto idrogeologico che stavano dentro l’operazione Italia sono stati bloccati dal precedente governo e credo abbia un senso tornarci. Ci sono 36 miliardi di euro di opere pubbliche da sbloccare subito con la pax burocratica che ha permesso ad esempio a Genova di bruciare i tempi e di lavorare bene sul nuovo ponte di Renzo Piano. E del resto ne ho parlato a lungo in questi giorni, ho scritto un articolo sul Sole 24 Ore, stiamo predisponendo con Maria Chiara Gadda un documento molto bello per la Leopolda. Così come ha un senso tenere vivo l’impianto di Industria 4.0 che ha consentito a molte aziende di cambiare il proprio modello aziendale ma che oggi ha bisogno di nuove professionalità formate. L’ultima cosa è recuperare, senza odio ideologico, i soldi di chi non paga le tasse. Lo abbiamo fatto con la fatturazione elettronica, con la dichiarazione precompilata, con lo scontrino digitale, con tutte le misure che sono le nostre misure. Sono misure made in Leopolda e solo chi è in malafede rifiuta di ammetterlo. Ma il tempo è galantuomo”.

  

  

Cosa ne pensa Renzi dell’idea di non penalizzare chi usa il contante ma di agevolare le transazioni elettroniche?

“E’ meglio agevolare che penalizzare gli altri. E’ una delle ipotesi alle quali sta lavorando il governo e vedremo cosa ne verrà fuori. Quando ci mostreranno le carte, diremo la nostra. Noi abbiamo fatto una grande operazione con il fisco telematico e adesso Ernesto Maria Ruffini sarà alla Leopolda a presentare la seconda parte di questo progetto. Anche se spero che Ruffini venga richiamato in servizio all’Agenzia delle Entrate: il suo lavoro ha dato frutti, non vedo ragioni per non ripartire da lui”. Non esiste un’economia competitiva senza avere una giustizia all’altezza delle sfide dell’Italia. E per parlare di giustizia non si può non parlare di magistratura. E di Csm. Cosa farà Italia Viva per combattere il profilo giustizialista del governo?

   

“Il problema della giustizia sono innanzitutto i tempi che vanno accorciati, su questo concordo con Bonafede. Non è possibile che l’imprenditore Tonino Angelucci sia costretto a 16 anni di processi prima che sia dichiarata la sua innocenza. Non è possibile che la vicenda Papa-P4 finisca nel nulla dopo aver costituito l’apertura dei giornali per mesi. Non è pensabile che Silvio Berlusconi sia indagato per anni come mandante delle stragi mafiose o dell’attentato a Costanzo. Dico: hai prove sul fatto che Berlusconi voleva uccidere Costanzo? Vai a processo e condannalo. Ma siccome le prove non ci sono, tenere sotto schiaffo per anni un qualsiasi cittadino è ingiusto, un ex premier è addirittura incredibile. Rispettare le istituzioni significa rispettare la magistratura, rispettare la giustizia, ma significa innanzitutto rispettare la realtà. Io sono garantista. Per me contano le sentenze passate in giudicato, quelle della Cassazione insomma. Le aspettiamo con fiducia. Ma combattere il giustizialismo significa combattere la filosofia per la quale un magistrato apre un’indagine, un direttore di giornale decide di fiancheggiarla, poi si arriva alla Cassazione che magari assolve e nessuno fa il conto dei danni che il povero malcapitato imputato deve subire. Io ho firmato un centinaio di azioni di risarcimento danni in sede civile e conto di pagarmi il mutuo di casa con quei soldi. Ma un cittadino semplice che finisce stritolato in questo meccanismo che fine fa? La nuova maggioranza ha una forte componente giustizialista nei Cinque stelle. Ma devo ammettere che parlando con molti deputati e senatori grillini mi rendo conto che le sensibilità personali sono spesso meno dure della linea ufficiale del partito. Molti di loro ammettono candidamente che il giustizialismo è un errore. E questo mi fa pensare che potremo mitigare certi toni e certi insulti. Mi preoccupa paradossalmente di più la potenziale svolta giustizialista del Pd. Quando sono stato segretario ho tenuto in minoranza l’ala giustizialista. Vediamo se gli amici che adesso guidano il Nazareno a cominciare da Andrea Orlando che è comunque un amico e una persona seria riusciranno a contenere le varie spinte interne”.

  

E rispetto alle proposte sulla giustizia annunciate venerdì scorso dal governo?

“Vediamo che testo ci porteranno. Al momento si stanno vedendo solo loro e forse è meglio così. Non mi preoccupano i vertici di maggioranza tra Bonafede e Orlando senza di noi. Perché senza di noi possono fare i vertici ma non possono fare la maggioranza. Specie sui temi della giustizia”.

    

Se il ministro Bonafede dovesse proporre il sorteggio per il Csm, che è un’idea che abbiamo sentito anni fa alla Leopolda, lei potrebbe prendere in considerazione la proposta?

“Vi sorprenderò: per me sì. Io sul Csm sono più d’accordo con Bonafede che con Orlando. Con Andrea ricordo una bella discussione a Palazzo Chigi in cui io proponevo il sorteggio, ispirato da Gratteri e lui che mi spiegava la sua contrarietà e l’impossibilità tecnica di farlo. Se si arriva al sorteggio per il Csm personalmente ci sto. Anche perché è ipocrisia pura fingere che solo qualche corrente facesse le cene per accordarsi sugli incarichi direttivi. Le correnti sono un danno sicuramente nei partiti. Ma per me sono un problema anche dentro la magistratura. In ogni caso, quando avranno la bontà di confrontarsi anche con noi discuteremo. Gli obiettivi di Bonafede di diminuire i tempi della giustizia e di arrivare al sorteggio del Csm mi sembrano interessanti. Faccio una previsione: Bonafede non avrà mai il coraggio di andare fino in fondo, scommettiamo? Chi tocca certi equilibri nella magistratura ne paga le conseguenze. Non dico altro. Italia Viva non ha ancora discusso di questo, lo faremo liberamente, tutti insieme, senza pregiudizi o decisioni precostituite”.

  

Se dovesse spiegare agli interlocutori stranieri cosa sono i Cinque stelle, che cosa direbbe?

“Saremo alleati seri e affidabili adesso perché è giusto dare stabilità al governo e tranquillità al paese. Ma noi non abbiamo fatto questo governo per diventare alleati in pianta stabile di Casaleggio, sia chiaro. Salvare il paese è un dovere, salvare la Rousseau no. Alla fine della legislatura torneremo liberi e felici competitor”

“Sono maturati, dato che sono partiti per distruggere tutto e adesso si rendono conto che così facendo distruggono solo loro stessi. L’immagine che ho in mente è quella di un coriaceo Luciano Nobili che in una delle trasmissioni del mattino disintegra Paragone sulle banche al punto che l’ex anchorman delle critiche sulle banche è costretto a dare ragione al deputato iper-renziano. Divertente, molto divertente. Quanto a Di Maio si gioca la partita della vita. Devo ammettere, obtorto collo, che l’inizio del suo lavoro mi è sembrato molto saggio. Ha scelto una bella squadra, è circondato da persone di grande qualità a cominciare da Ettore Sequi che si è scelto come capo di gabinetto, e si è mosso senza sbagliare nulla. Almeno per il momento. Detto questo, noi saremo alleati seri e affidabili adesso perché è giusto dare stabilità al governo e tranquillità al paese. Ma noi non abbiamo fatto questo governo per diventare alleati in pianta stabile di Casaleggio, sia chiaro. Salvare il paese è un dovere, salvare la Rousseau no. Alla fine di questa legislatura torneremo liberi e felici competitor. E certo non ci possono chiedere di votare a favore delle fallimentari esperienze di Virginia Raggi e di Chiara Appendino: due giovani donne politiche che rispetto e a cui va tutta la mia solidarietà per gli attacchi personali che hanno ricevuto. Ma le ritengo esempi di due amministrazioni fallimentari. Dunque, patti chiari amicizia lunga. Lavoriamo insieme al governo fino al 2023. Poi ognuno per la propria strada. Una bella stretta di mano e via, non un abbraccio per sempre”.

  

È vero o no che nel marzo 2018 sarebbe stato possibile fare l’accordo con i Cinque stelle?

“Allora non c’erano le condizioni politiche per fare l’accordo perché i Cinque stelle erano molto più forti. La loro agenda era totalmente contro la nostra stagione riformista, contro l’Ilva, contro la Tav, contro la Tap, contro i vaccini e andare al governo con loro sarebbe stato il suicidio del Pd. Chi non lo capisce, o fa finta di non capirlo, e paragona marzo 2018 con settembre 2019 lo fa in malafede. Chi conosce l’abc della politica sa che di mezzo non ci sono solo 14 mesi ma un’èra geologica, segnata dal trionfo del salvinismo. Le loro avance furono molto sulla sinistra radicale al punto da definire il Jobs Act come un grande problema. Le proposte che Di Maio mandò al Corriere della Sera il giorno della mia intervista da Fazio erano incentrate sul ripristino dell’articolo 18, non un gran segnale per me. Oggi è cambiato tutto perché dopo un anno sono più deboli elettoralmente, meno centrali dal punto di vista della presenza nel dibattito politico e il nemico comune Salvini permette di fare un’operazione a tutela degli interessi degli italiani, non semplicemente un’operazione di Palazzo”.

 

Quand’è stata la prima volta che ha pensato a questa operazione?

“L’8 agosto, quando Salvini ha fatto la follia. Ne avevamo parlato prima, più volte, però avevamo convenuto che non ne valesse la pena. Ero a casa a Firenze, appena rientrato da Roma. E dovevo andare all’unica Festa dell’Unità cui ho partecipato quest’estate, la prima, l’unica, l’ultima, a Santomato, vicino a Pistoia. Mi arriva l’agenzia con cui Salvini chiude ufficialmente l’esperienza di governo. Respiro. E mi vedo il film. Papeete, tour nelle spiagge, caccia all’immigrato, mojito, dichiarazione contro Macron, cubista che balla, mercati che ballano, spread che aumenta, dichiarazione di Borghi o Bagnai contro i mercati, caccia a chi la spara più grossa, populismo esasperato dei Cinque stelle per tenere botta contro Salvini, dati devastanti della produzione industriale, recessione, fuga dei capitali, scontri verbali e odio sui social, polemiche sui bus contro i ragazzi di colore. Tutto avrebbe subito un’accelerazione. E a quel punto il 10 settembre alle 23 la Maratona Mentana – ormai una presenza istituzionale di questo paese – avrebbe raccontato un paese dilaniato, in ginocchio, diviso. E forse persino senza maggioranza o con i sovranisti pronti a cambiare la Costituzione. Con o senza pieni poteri Salvini avrebbe distrutto l’economia italiana. Mi vedo questo film, mi mordo la lingua pensando all’idea di votare la fiducia a un governo con dentro Di Maio, e mando un sms a Andrea Orlando. Perché era il vicesegretario del mio partito, quello con il quale parlavo, visto che con altri dirigenti era più complicato: ‘Andrea, se fossimo seri ora sarebbe il momento di fare politica. Sentiamoci’. Poi prendo la Mini di mia moglie e guido fino a Santomato: sono uno di quelli che quando ha bisogno di riflettere, ama guidare. La scelta era ardita ma non avevamo alternative. Mi fa ridere chi dice che l’ho fatto per salvare i parlamentari renziani: è vero che per la seconda volta in cinque anni salviamo la vita di una legislatura e mi ha fatto ridere un parlamentare dell’opposizione che mi ha detto ‘grazie, mi hai salvato il mutuo’. Il punto è che io non l’ho fatto per i miei parlamentari, tanto è vero che il giorno dopo il giuramento del governo i ‘miei’ parlamentari sono passati quasi tutti con Zingaretti. La leadership non dipende da quanti parlamentari hai, ma dalla forza delle tue idee. E questo purtroppo i signori delle correnti, i signori delle tessere non lo capiranno mai”.

  


Italia Viva: “Mi rivolgo a tutti. E’ il momento di mettersi in gioco, di dare una mano”. L’ambiente: “Se vuoi difenderlo devi investire in tecnologia e infrastrutture, non rifugiarti nei boschi”


  

Quali sono state le volte in cui in passato ha pensato di volere fare un proprio partito?

“Il giorno dopo le elezioni europee del 26 maggio 2014, ma sarebbe stato un atto di egoismo. Avrei vinto le elezioni ma avrei fatto un danno al paese. In un certo senso io capisco Salvini che voleva riscuotere il consenso: ma prima dell’interesse individuale c’è il bene comune, il servizio alla comunità. Salvini ha cercato di fare ciò che io avrei potuto fare e non ho voluto fare. Quanto a Italia Viva è chiaramente il partito che ho ispirato. Ma non è solo Renzi, anzi. E’ la diarchia, con una donna e un uomo in tutti i posti di responsabilità. Sono tantissime ragazze che in tutte le città stanno prendendo le redini di Italia Viva. Sono le parlamentari bravissime che stanno lavorando con noi: anche i maschietti sono bravi, ma le donne di più. E meno male che Rosato non è entrato al governo: è una macchina da guerra nell’organizzazione”.

  

In questi giorni avete proposto delle misure complessive per favorire l’occupazione delle donne. Può dirci qualcosa di più?

“La Leopolda quest’anno sarà una bomba. Queste proposte che lei cita faranno parte del Family Act su cui sta lavorando Elena Bonetti, una professoressa universitaria bravissima ma anche una bravissima ministra. Noi abbiamo in squadra un’altra fuoriclasse, Teresa Bellanova, che è strepitosa e tutte le volte che la vedo all’opera mi chiedo come sia stato possibile non candidarla alla guida del Pd nel 2019: chi le ha detto di no, si sta mangiando le mani. Sarebbe stata straordinaria. Ma sulle donne lavoreremo molto. Saremo davvero il primo partito femminista in un’accezione diversa dal passato: non ideologica ma straordinariamente concreta”.

  

C’è la possibilità che nei prossimi mesi arrivino ancora nel suo partito persone provenienti da altre esperienze politiche?

“Serve coraggio, noi abbiamo comprato un anno di tempo in Europa ma o lo riempiamo di progetti e proposte credibili oppure il rischio è quello di regalare ai nostri avversari a cominciare da Salvini un match point. Mi rivolgo a tutti, il mio è un appello ai naviganti. E’ il momento di mettersi in gioco, di dare una mano. E’ il momento zero, esattamente come lo è stato la Leopolda degli inizi e infatti sono convinto che quest’anno ci sarà un sacco di gente che ha voglia di impegnarsi e di iscriversi. Abbiamo ricevuto 10 mila euro al giorno per cinque giorni di fila con piccole donazioni sul sito dei Comitati. Siamo bombardati da email, da richieste di collaborazione, da proposte intelligenti. Venite a prendervi l’Italia Viva, venite a darci una mano. Basta polemiche sul passato, costruiamo il domani. Tutti insieme”.

  

La scorsa settimana abbiamo visto di fronte ai nostri occhi in azione il fenomeno Greta, anche nelle piazze italiane. Greta ha avuto certamente il merito di averci costretto a porci delle domande sull’ambiente. Non ha però paura che l’ambientalismo possa diventare una maschera dietro la quale nascondere i valori della decrescita?

“Il rischio esiste, però ci sono due fatti. Primo, c’è una generazione di ragazzi che si è messa in moto e chi ironizza su Greta deve avere il coraggio di ammetterlo. Potenza di quello che i greci chiamavano kairos: migliaia di persone hanno detto prima di Greta le cose che dice Greta. Al Gore ci ha vinto un Nobel e un Oscar, Obama ci ha costruito una intera narrazione a Parigi 2015, tante associazioni ci si sono spese. Eppure nessuno ha ottenuto la visibilità di questa ragazzina scandinava. Il secondo è che la politica non può mettere ‘mi piace’ in modo ipocrita sulle provocazioni di una sedicenne e poi girarsi dall’altra parte. Il nostro Piano Verde alla Leopolda sarà più ambizioso di quello della Merkel per la Germania. Su questo chiederemo di essere giudicati dal popolo delle piazze giovanili. Poi è chiaro: se vuoi difendere l’ambiente devi investire in tecnologia e infrastrutture, non rifugiarti nei boschi. E devi scommette su un ecosistema imprenditoriale e sociale che l’Italia già possiede ma che va migliorato. Servono le metropolitane e le tramvie per migliorare la vita nella città, servono i treni e le piste ciclabili, non la retorica e la demagogia”.

  

Tre ragioni per cui oggi può affermare con ragionevolezza che Salvini è un leader pericoloso.

“Non è pericoloso per la nostra democrazia ma per il nostro portafoglio. Perché se chiedi pieni poteri e poi scegli Borghi e Bagnai i mercati si agitano e a noi questo meccanismo ci massacra. Non è pericoloso per la nostra democrazia ma per la giustizia del nostro paese perché non fa chiarezza su questioni su cui ha il dovere di essere trasparente, ovvero la vicenda dei 49 milioni e la tangente da 65 milioni proposta dai russi. Non è pericolo per la democrazia ma per la convivenza civile. Poi Salvini ha creato un clima di tensione sociale per cui è normale che una ragazza di colore violentata nei lager in Libia si senta dire che la pacchia è finita. Se lo dice il ministro dell’Interno, chiunque pensa di poterlo ripetere senza problemi”.

  

Si è mai chiesto perché Salvini è ancora così popolare?

“Inviterei tutti a dare meno importanza ai sondaggi, che lasciano il tempo che trovano. Salvini è sempre più un personaggio e meno una personalità. E’ un personaggio quando va a fare la lotta nel fango da Barbara D’Urso e su questo costruisce la sua narrazione. E’ un personaggio con mille sfaccettature, è quasi complicato da definire. Lui è il nostro avversario principale, guai a sottovalutarlo. Sarà un piacere confrontarsi con lui il 15 ottobre davanti alle telecamere di ‘Porta a Porta’, con Bruno Vespa. Ma la popolarità va e viene, io ne so qualcosa”.

  

Qual è secondo lei oggi il principale ostacolo all’evoluzione dell’Europa?

“La Brexit è il più grande labirinto mai immaginato dalla mente politica. Come va a finire? Con Boris tutto è possibile. In questo scenario, l’Italia è fondamentale e molti ministri mi raccontano di essere accolti calorosamente ai vertici europei. Avere fatto tornare l’Italia in Europa è la strategia di fondo del cambio di governo perché togli di colpo l’idea che in Italia ci sono i populisti. Il sovranismo alle vongole di Meloni e Salvini ignora che il loro modello Orbán sta accogliendo molti migranti economici (almeno cinquantamila) ma utilizza i soldi del contribuente italiano per dire di no alle nostre richieste di solidarietà. Se l’Italia fosse un paese forte oggi direbbe con chiarezza che non accetteremo mai di dare soldi a chi ci dice di no. Ma Meloni e Salvini non sono fratelli d’Italia, sono nipotini d’Ungheria”.

  

 

La sentenza della Consulta sul fine vita interpella la nostra coscienza prima ancora che la nostra politica. Qual è il suo giudizio sulla sentenza?

“Su questo tema ho una lettura peculiare. Il cristiano che non vede nella morte la fine di tutto ovviamente non può legittimare il suicidio ma deve fare i conti con la morte, che è il momento chiave dell’esistenza tant’è che i teologi parlano di una nuova nascita, della nascita al Cielo. Tuttavia pretendere di eliminare la morte o semplificarla è disumano, per cristiani e no. La morte è la morte. Leggevo l’acuta riflessione di chi dice che ormai la morte è l’unico tabù rimasto: parlarne fa male, pensarci ancora di più. Ecco, su questi temi dovremmo fare una riflessione seria, articolata, profonda. Penso a me: dovessi trovarmi in condizioni devastanti vorrei che per me scegliessero i miei, mia moglie, i miei figli. Perché so che loro prenderebbero la decisione giusta per me. Non mi farebbero soffrire inutilmente e non mi farebbero morire per togliersi il problema. Ciascuno di noi ha un parente, un genitore, un nonno, un amico che ha dovuto vivere questa scelta. Questa scelta può essere codificata? Difficile farlo, difficile capire i paletti, difficile dare torto ai medici che chiedono che ci sia un pubblico ufficiale. Tutto è difficile su questi temi. Ma per forza, parliamo della morte, non di una corrente del Pd o di un tweet del Capitano: sono cose serie queste. Nella civiltà contadina da cui proveniamo, i piccoli erano portati sul letto di morte dei vecchi perché la morte faceva parte della vita. E andava guardata in faccia. E non era un tabù, ma un dolore. Il dolore più grande, certo. Ma un dolore da affrontare, non da rimuovere. Il Parlamento deve legiferare con lo spirito giusto: altrimenti commettiamo lo stesso errore commesso con i Dico, cioè ideologizzando una questione, e risolto con le unioni civili dopo anni. Bisogna ascoltarsi, dialogare. Accogliere le idee degli altri e rispettarsi”.

  

Lo Ius soli si può fare in questa legislatura?

“Se ci sono i numeri, e Di Maio ci sta, facciamo lo Ius Culturae. Se non ci sono i numeri, perché i Cinque stelle non ci sono, prendiamone atto. Ma non trasformiamolo in un tormentone come è stato fatto dal governo nel 2017, con un tragico errore. Io sono per lo Ius Culturae. Ci sono i numeri? Si fa. Non ci sono i numeri? Se ne parla la prossima volta. Intanto abbiamo sconfitto in Parlamento chi seminava odio e questo è già un passo avanti”.

  

Qual è un battaglia di cui ancora non ha parlato e che si vuole intestare come Italia Viva?

“Quella sull’autonomia. Salvini forse sarà sconfitto dai guai giudiziari della Lega, dai suoi errori, dai suoi colonnelli che sono pronti a farlo fuori. Ma noi non risolveremo mai il problema Salvini se non affronteremo in modo serio il nodo dell’autonomia. L’autonomia alle regioni è solo un nuovo centralismo. L’Italia deve scommettere sulle autonomie ma sulle autonomie dei sindaci, non dei governatori. Devi portarti dietro il Nord, a cominciare dal Veneto. Ma anche i tanti bravi sindaci del Sud. Devi scommettere su un modello in cui il sindaco non è stretto in una morsa tra la Corte dei conti che ti chiede i danni per qualsiasi errore e le Autorità centrali che ti bloccano ogni investimento. Liberare i nostri sindaci, liberare i nostri comuni, liberare i nostri territori. Se lo fai partendo dalle città sei forte e credibile, se lo fai partendo dalle regioni fai un nuovo centralismo. Italia Viva sarà il partito dei sindaci. Quelli di ieri, quelli di oggi e quelli di domani. Ma Italia Viva sarà anche il partito che chiede più autonomia in un quadro di solidarietà nazionale, non di egoismo. Ne parlerò venerdì prossimo con Matteo Ricci al Festival delle città, ma devo dire che su questo tema hanno già detto parole di saggezza Beppe Sala e altri ex colleghi. Torno da dove siamo partiti: contrastare il salvinismo è possibile sui contenuti, non con i tweet. Lo abbiamo sconfitto nel Palazzo, adesso va sconfitto nelle piazze. Italia Viva è nata anche per questo. E la Leopolda lo dimostrerà”.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.