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La riscossa dei parlamenti

Francesco Cundari

Così Italia, Gran Bretagna e America scoprono la potenza dell’Aula. Elegia dell’unico vaccino contro i populismi

Perché sono stati inventati i parlamenti?”, si è domandato mercoledì Sabino Cassese nel corso di un convegno romano dedicato alla rivoluzione tecnologica e alle sue ricadute su politica, economia e democrazia. E’ una domanda che il tenore abituale del dibattito pubblico, in un paese in cui si discute ossessivamente del “taglio delle poltrone” dei parlamentari e persino di introduzione del vincolo di mandato, o mandato imperativo che dir si voglia, non consente di considerare retorica. Ma certo non si tratta di un problema soltanto italiano. Le istituzioni cardine della democrazia liberale sono sotto attacco in tutto il mondo, il che forse non è una novità assoluta. La novità di questa fase, tuttavia, è che l’attacco arriva – o forse nasce – nel cuore dell’Occidente. Ad ogni modo, osserva Cassese, gli ultimi due mesi ci hanno dato tre segnali che autorizzano a nutrire qualche speranza nelle capacità di reazione della democrazia: il primo in Italia, dove “il Parlamento ha avuto la meglio su un tentativo di verticalizzazione del potere” che puntava a riportarlo nelle mani di un solo leader (quello che chiedeva, per l’appunto, “pieni poteri”); il secondo in Gran Bretagna, dove martedì la Corte suprema ha annullato la sospensione delle attività del Parlamento voluta da Boris Johnson; il terzo negli Stati Uniti, con la decisione di avviare la procedura dell’impeachment nei confronti di “un signore che tentava di ripetere l’esperienza di Luigi XIV”. Ebbene, conclude l’insigne giurista, giudice emerito della Corte costituzionale, rispondendo alla sua stessa domanda: i parlamenti sono stati inventati per evitare che il potere finisse interamente nelle mani di una sola persona. Dunque, per la democrazia “ci sono grandi speranze, perché negli ultimi due mesi abbiamo visto, in tre paesi del mondo, che Luigi XIV è stato sfidato e ha perduto”.

 

Le istituzioni cardine della democrazia liberale sono sotto attacco in tutto il mondo.Tre episodi che fanno ben sperare

Bisogna aggiungere che non si tratta di tre paesi qualsiasi, perché è proprio da qui che è partita la grande avanzata populista, prima con il referendum sulla Brexit (giugno 2016), quindi con l’elezione di Trump (novembre 2016), infine con il trionfo grillo-leghista alle elezioni italiane del 2018 (ma qualcuno, non del tutto a torto, ne anticiperebbe l’origine al risultato del referendum istituzionale del 4 dicembre di quello stesso, terribile, 2016). Se dunque è con la Brexit, l’elezione di Trump e il governo gialloverde (“Europe’s first fully populist government”, come lo battezzò la stampa internazionale), che ha preso avvio l’onda populista, è possibile che la riscossa della democrazia parlamentare, proprio in questi paesi, segni l’inizio di un’inversione di tendenza globale. Possibile, ma non scontato.

 

Certo è che, dopo tre anni in cui la politica mondiale sembrava andare tutta in una sola direzione, la partita tra democratici e populisti pare essersi riaperta, e proprio a partire dal luogo simbolo – non per niente il più bistrattato dai demagoghi di ogni tempo – della democrazia liberale: il Parlamento.

 

Giovedì, ad esempio, anche Antonio Polito, sul Corriere della Sera, ha tratto dalle stesse notizie l’immagine dello scontro globale attualmente in corso: “Da un lato leader che intendono far derivare il loro potere da se stessi, dal proprio rapporto diretto con il popolo; dall’altra parlamenti che li ritengono invece sottoposti alla supremazia della legge, che si esprime attraverso i rappresentanti del popolo”.

 

Il Parlamento italiano è anche capace di suicidarsi. La riforma della legge elettorale e il “taglio delle poltrone” già calendarizzato

Va detto subito che per quanto riguarda l’esempio italiano – la riscoperta della centralità del Parlamento nella pazza crisi del Papeete – il parallelo più convincente è senza dubbio quello con la Gran Bretagna di Boris Johnson. Un leader populista arrivato al governo dalla posizione più radicale (persino tra gli stessi populisti) deciso a rompere tutte le consuetudini e a sfidare apertamente il Parlamento pur di affermare la sua linea, cercando l’incidente su cui provocare la rottura alla Camera – il voto per scongiurare un’uscita dall’Ue senza accordo – e andare alle urne in posizione di forza. Un capitano a lungo premiato dai sondaggi che una volta in campo, come ha scritto Charlie Cooper su Politico, ha commesso però un errore decisivo: ha scommesso tutto sul fatto che l’opposizione avrebbe accettato di andare a elezioni anticipate – come del resto i laburisti avevano sostenuto per tutta l’estate – senza mettere in conto che avrebbe potuto cambiare idea. Come è puntualmente avvenuto, in Gran Bretagna proprio come in Italia.

 

Ben diverso è invece il caso americano, dove a innescare la riscossa del Parlamento è stato un vero e proprio scandalo internazionale. Una serie di soffiate hanno rivelato il comportamento a dir poco spregiudicato del presidente Trump, che in una telefonata con il presidente ucraino – successivamente pubblicata dalla Casa Bianca sotto l’incalzare delle proteste – ha fatto pressioni per ottenere materiale da utilizzare contro il suo principale avversario interno. Un comportamento che ha suscitato l’indignazione dei democratici non solo per la sua evidente scorrettezza, ma soprattutto perché rivolto a un paese alleato, esposto in prima linea alle aggressioni di un avversario strategico degli Stati Uniti come la Russia di Putin. In altre parole Donald Trump, condizionando di fatto il sostegno americano a una simile contropartita, avrebbe anteposto il suo personale tornaconto agli interessi strategici del suo paese. Dunque una vicenda che ha legami molto più flebili con quello che in agosto è accaduto in Italia. Forse.

 

In ogni caso, ai tre esempi citati bisognerebbe aggiungerne un altro, retrodatando di conseguenza almeno di un paio di mesi l’inizio della – possibile, eventuale, auspicabile – inversione di tendenza: le elezioni europee di maggio 2019. La prima e più inattesa sconfitta del fronte populista-sovranista, infatti, è avvenuta qui. Vale a dire nel Parlamento europeo, nel voto per il suo rinnovo e ancor più nella formazione della maggioranza che ha eletto Ursula von der Leyen alla guida della Commissione, operazione che ha avuto un peso non irrilevante nel favorire la formazione di una nuova maggioranza anche in Italia.

 

E forse, risalendo ancora un poco più indietro, bisognerebbe includere perlomeno tra i segnali premonitori dell’incipiente riscossa i primi decisi passi compiuti, proprio nel Parlamento europeo, in direzione di una nuova regolazione che cominci a intaccare la sostanziale impermeabilità alla legge delle grandi piattaforme del web.

 

Il caso italiano – la riscoperta della centralità del Parlamento nella pazza crisi del Papeete – è simile a quello inglese

La relazione tra far west digitale e ascesa dei populisti non dovrebbe richiedere molte spiegazioni, essendo da tempo al centro del dibattito, e di recente anche di un bel documentario Netflix. Il fatto è che, come ricordava ancora Cassese, la democrazia si fonda sulla libertà di riunione e sulla libertà di associazione, in particolare per quell’aspetto decisivo che gli inglesi chiamano “deliberative” e noi mal traduciamo “deliberativo”, mentre dovremmo chiamarlo “dibattimentale”. Perché appunto di questo si tratta: non della semplice deliberazione, ma di quel rapporto che richiede per sua natura un confronto faccia a faccia, un va e vieni continuo, un incontro e se necessario anche uno scontro tra persone che siano davvero nelle condizioni di discutere di tutto (non solo del merito, ma anche dei limiti e delle regole della discussione stessa), e in tal modo di raggiungere dei compromessi, frutto di una mediazione. Un processo di cui la scelta finale, con un sì o con un no, rappresenta solo l’ultimo passaggio. Al contrario, lo sviluppo dei social network – e ancor più degli strumenti della cosiddetta democrazia digitale – danno a tutti l’impressione di contare, di partecipare al dibattito e alle decisioni, di potere far sentire la propria voce (e magari anche cantarle chiare ai potenti, ai ricchi e ai famosi incrociati sul web), restandosene comodamente a casa. E così, di fatto, riunione e associazione – fondamento della democrazia – scompaiono. E quindi si resta con l’impressione della democrazia, ma senza la democrazia.

 

Qui però la nostra storia si complica. Perché, presa da quest’angolo visuale, la vicenda britannica appare senz’altro chiarissima, e segna la secca sconfitta del leader populista che pretendeva di mettere a frutto, portandola alle sue più estreme conseguenze, una campagna antipolitica e antiparlamentare che proprio in Gran Bretagna, e in particolare nell’uso degli strumenti digitali in occasione del referendum del 2016, ha toccato vertici insuperati quanto a capacità di manipolazione. E altrettanto chiaro, in questa prospettiva, appare il caso americano, con lo scontro tra il presidente Trump, che governa via Twitter e non esita a usare i suoi poteri per cercare di infangare gli avversari, intossicando il dibattito pubblico, e il Parlamento in cui i democratici intendono avviare la procedura di impeachment. Ma quando si arriva al caso italiano, sfortunatamente, la questione si fa molto meno limpida.

 

Il problema è che da noi i nemici del parlamentarismo, sostenitori della democrazia diretta e delle connesse distopie digitali, sono al tempo stesso tra gli sconfitti e tra i vincitori di questa nuova fase. E nonostante gli auspici o le previsioni interessate di tanti benevoli osservatori, anche quelli che oggi sembrano collocarsi dalla parte del Parlamento e della difesa della divisione dei poteri, obiettivamente, non sembrano poi così ansiosi di “costituzionalizzarsi”.

 

Basta ascoltare le parole pronunciate giovedì da Luigi Di Maio, evidentemente turbato dalla notizia del passaggio di una senatrice eletta con il suo partito al gruppo parlamentare renziano: “Dobbiamo mettere fine a questo mercato delle vacche, sia dei parlamentari che passano in altri gruppi sia dei gruppi che li fanno entrare. Quindi secondo me è arrivato il momento in Italia per introdurre il vincolo di mandato. Se vieni eletto in una forza politica e poi passi in un’altra forza politica te ne vai a casa”. Aggiungendo anche di avere tutta l’intenzione di avviare la procedura prevista dallo statuto del Movimento 5 stelle in questi casi e di chiedere quindi un “risarcimento” di centomila euro alla parlamentare fedifraga.

 

Non c’è da dubitare che il primo ricorso contro una simile aberrazione si concluderà con un esito analogo a quello che si è avuto martedì in Gran Bretagna. Ma è tutto da vedere, nel frattempo, cosa sarà del Parlamento italiano e della stessa Costituzione, con il voto sul “taglio delle poltrone” già calendarizzato per il 7 ottobre, mentre la riforma della legge elettorale che avrebbe dovuto quanto meno sterilizzarne i più pericolosi effetti distorsivi sulla rappresentanza (con il ritorno a una proporzionale pura che metta al sicuro il principio della divisione dei poteri, impedendo a una maggioranza politica di nominarsi da sola tutti gli organi di garanzia), viene rinviata e annacquata dallo stesso Partito democratico in una fittissima serie di distinguo, che non promettono nulla di buono.

 

Riunione, associazione e dibattito nell’èra dei social network. L’impressione della democrazia, ma senza la democrazia

E così i primi luminosi segnali di un ritorno del parlamentarismo come antidoto alla deriva populista di questi anni sembrano appannarsi parecchio, almeno nel nostro paese, di fronte alle cronache degli ultimi giorni. Con il rischio sommamente paradossale di un governo di emergenza, nato per impedire a un leader populista di ottenere i “pieni poteri”, che alla fine della fiera tale opzione – anzi, di più: i super pieni poteri – la fissa addirittura in Costituzione. E davvero è difficile capire quale ipotesi sia la più deprimente: se cioè la ragione di una simile marcia indietro del Partito democratico sul proporzionale sia solo il fanatismo ideologico della sua storica corrente maggioritaria, o se invece, come pure molti giornali hanno scritto, il vero movente sia il desiderio di rendere la vita difficile al nuovo partito di Matteo Renzi (obiettivo che peraltro sarebbe molto più semplicemente raggiungibile fissando un’alta soglia di sbarramento, che avrebbe il duplice pregio di ridurre la frammentazione e preservare l’equilibrio dei poteri). Ma che si tratti di fanatismo ideologico, rivalità interne o di un bizantino miscuglio di entrambe le cose, è difficile non cogliere anche qui un ultimo, evidente, parallelismo: con l’Italia dei primi anni Venti. Perché parlamenti liberi e democratici, come dimostra la cronaca recente, sono il presidio fondamentale contro la deriva populista. Ma sfortunatamente, come dimostra la storia italiana, quegli stessi parlamenti sono anche capaci di suicidarsi.

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