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Renzi gode della grillizzazione del Pd ma gioca con Di Maio

Salvatore Merlo

“Con il M5s ho fermato l’aumento dell’Iva che volevano i dem”, dice ai suoi l’ex segretario. Paradossi e strategie

Roma. Adesso ha ripreso a chiamarlo Luigi, e gli telefona pure, anche spesso. “Ho chiamato Di Maio”, raccontava ieri ai suoi parlamentari, elettrico, riferendosi all’ammaccato capo politico del M5s, ora avversario ora connivente. “Meno male”, sospirava. “Insieme abbiamo impedito che il Pd aumentasse l’Iva”. Un dolce fraseggio bisbigliato, tutto un codice segreto. E allora qualcosa di strano, stordente, succede sul serio se Matteo Renzi diventa sempre più amico dei 5 stelle, o si atteggia a tale, arrivando a elogiarne – dopo aver detto che alla linea sulla giustizia del democratico Andrea Orlando preferisce quella del grillino Alfonso Bonafede – anche “i faticosissimi miglioramenti” e addirittura “i tentativi di istituzionalizzarsi”.

 

Così, mentre il Pd apparentemente si grillizza, mentre l’asse di governo (ma anche di urne) trova pure un suo giornale agit-prop nella Repubblica che fu di Ezio Mauro, ecco che l’ex presidente del Consiglio vive in altalena, con un misto di preoccupazione (“nel Pd stanno tornando tutti i vecchissimi tic di un tempo”) e contentezza (“ma così ho più campo libero”). Abbastanza da dare origine a un apparente paradosso: Renzi infatti critica il Pd che si grillizza – ieri i suoi facevano circolare su WhatsApp un tweet dell’ex deputato Enrico Zanetti: “Mi pare evidente che, depurato dalla anomalia Renzi, il Pd è tornato il gioioso partito delle tasse che abbiamo conosciuto nel 1997-2000 e nel 2006-2008” – mentre tuttavia stringe sempre di più i suoi rapporti, non sempre dichiarati, proprio con i grillini. Ma i tempi, si sa, sono ogni giorno più infidi, ideologicamente imprevedibili, pieni di contropiedi e spiazzamenti, e Renzi intravede praterie di fronte a sé mentre osserva le evoluzioni e le contorsioni del partito di cui è stato segretario, al punto da dire ieri a Claudio Cerasa che “mi preoccupa più il giustizialismo del Pd che i 5 stelle”.

 

D’altra parte ai suoi occhi è straordinario e insieme promettente osservare Dario Franceschini, Nicola Zingaretti e tutti gli altri ex compagni di partito mentre marciano sotto la grande bandiera della fotocopia: una app del Pd come la piattaforma Rousseau dei 5 stelle, le multe minacciate ai candidati in Umbria proprio come fanno i 5 stelle, l’imbarazzo sulla Tav che ha spinto il ministro Paola De Micheli a disertare l’inaugurazione proprio come avrebbe fatto Danilo Toninelli, l’adesione incondizionata al progetto di cancellare la prescrizione proprio come ha sempre detto Grillo, fino a Casaleggio mandato all’Onu dal governo italiano e al silenzio sulle bellurie dello strampalato ministro Fioramonti che vuole tassare bibite e merendine. Matteo Salvini aveva ingrossato la Lega con un’istancabile azione di logoramento dell’alleato, fino ad aver ribaltato i rapporti elettorali, insomma il segretario della Lega non ha governato con i voti dei 5 stelle: se li è presi, i voti dei 5 stelle.

 

Al contrario, il piano di Franceschini e degli altri è quello di vivacchiare, pacifici e potenti, badando alla carriera e al feudo, senza voti in proprio (o quasi) ma usando invece i voti dei 5 stelle, spingendosi così, tuttavia, sempre di più ad assomigliare al partito di Grillo e Casaleggio. Un processo mimetico che, ovviamente, è per Renzi l’equivalente della festa della cuccagna. Così lui ha ripreso a telefonare e a messaggiarsi con Di Maio, come faceva all’inizio della legislatura, abbandonandosi con ludico cinismo a un paradosso che lo rallegra, e soltanto per far notare – e lo farà sempre di più – “che i grillini migliorano mentre il Pd peggiora”. Tutto dunque appare in movimento, niente destinato a durare nel tempo, e sempre più Renzi è percepito come un pericolo. “La smania quotidiana di visibilità logora i governi”, gli ha fatto sapere Franceschini. Ma prima del governo, è il Pd che Renzi vuole logorare. Un esercizio che sembra riuscirgli, e senza nemmeno dover fare troppo.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.