Matteo Renzi (Foto LaPresse)

Che farà Renzi fuori dal Pd

Michele Salvati

Ipotesi su Italia Viva: un partito che metta insieme tutti i liberali moderati, in alternativa sia alla destra populista sia all’esperienza Pd-M5s. Renzi e le differenze con Macron. Un saggio

Questo testo è il contributo di Michele Salvati al convegno di Libertà Eguale, in programma il 28 e il 29 settembre a Orvieto.

  

Evviva… Italia Viva: oggi abbiamo un altro partito a sostenere il governo! Peccato che sia stato fatto a spese del Pd e lasci immutati i consensi su cui Conte può… contare. Ma basta con le battute. Non c’è il minimo dubbio che il potere di Renzi si rafforzi: ora tratta direttamente col governo e non deve sottoporre le sue proposte a defatiganti mediazioni all’interno di un Pd in cui prevalgono idee contrarie alle sue e soprattutto un sentiment a lui ostile. Come non c’è dubbio che la sua uscita dal partito indebolisca l’influenza di chi, su posizioni di sinistra liberale, è rimasto dentro. La situazione è del tutto simile, anche se simmetrica, a quella della formazione di Leu, che raccolse solo una parte degli antirenziani, lasciandone molti all’interno del partito. Marciare divisi per colpire uniti? E’ così anche nel caso di Italia Viva? E’ lecito dubitarne: anche grazie agli errori di Renzi, le forze della sinistra tradizionale sono riuscite a riconquistare il Pd. Senza l’appoggio di Renzi è però difficile che la sinistra liberale riesca in futuro a fare lo stesso (o no?). Qual è il disegno politico di Renzi? Come intende utilizzare la maggiore autonomia politica che ha acquistato? Ha ancora in mente un disegno di sinistra liberale? Queste sono le domande che dobbiamo porci e lo faremo, anche se come semplice congettura, nella seconda parte dei questo articolo. Siccome temo che Renzi non abbia più in mente quel disegno, mentre io nutro ancora una pallida speranza che si possa realizzare, per questo e altri motivi la scelta di Renzi non mi convince. Prima di passare alla congettura, due chiarimenti, uno molto breve, l’altro necessariamente più lungo.

 

Quello breve può essere riassunto in una battuta: per ora Giuseppi (… Conte) può “stare sereno”. Almeno sino all’elezione del presidente della Repubblica, mi sembra improbabile che Italia Viva crei problemi alla durata del governo: in larga misura gli obiettivi di fondo sono coincidenti (ricucire con l’Europa, ritardare le elezioni) e il rafforzamento di un sistema elettorale proporzionale è visto con favore dai 5 stelle. Se ci sarà crisi, questa avverrà perché i rapporti tra i due principali partiti della coalizione saranno diventati ingestibili, non a causa di Renzi.

 

Ha cercato di spostare il Pd verso posizioni di centrosinistra moderato e non c’è riuscito. E il partito ha perso la sua “vocazione maggioritaria”

 

Il secondo chiarimento, quello più lungo, è rivolto sia a coloro che accompagneranno Renzi in Italia Viva sia al resto della sinistra liberale che resterà nel Pd. Si rendono pienamente conto delle difficoltà del compito che devono affrontare? Una difesa a tutti i costi di una collocazione europea, della democrazia rappresentativa, della Costituzione, dei diritti individuali, dello stato di diritto –insomma, una risposta rigorosamente liberale – non paga elettoralmente in una situazione in cui si è radicata una rivolta populistica, di destra, di sinistra o di entrambi i tipi. E si è radicata per ragioni comprensibili: nei paesi capitalistici avanzati, retti da partiti tradizionali di centrodestra o centrosinistra, una parte non piccola della popolazione soffre da tempo per l’egemonia neoliberale che è prevalsa nei processi di globalizzazione (è parzialmente cambiata dopo Trump, ma non nella direzione auspicabile) e nelle stesse politiche dell’Unione europea. I partiti tradizionali della sinistra non sono stati in grado di rispondere alle domande – di occupazione decente, di sicurezza economica, di mobilità sociale – che i c.d. perdenti della globalizzazione e della rivoluzione tecnologica rivolgevano loro.

 

Da tempo, assai prima della mobilitazione populistica conseguente alla Grande Recessione del 2007/08, essi avevano perso la rappresentanza maggioritaria degli strati più poveri della società, diventando sempre di più partiti votati da un ceto medio con buoni livelli di istruzione e sufficienti livelli di reddito: questo almeno fino a quando l’insicurezza ha cominciato a minacciare anche loro (i dati dell’ultimo librone di Piketty – Capital et Ideologie, per ora solo in francese – sono impressionanti). La reazione populistica non è misteriosa: è un “contro movimento” a difesa della società, come l’avrebbe definito Karl Polanyi. Più interessante è capire perché alla domanda proveniente dal disagio sociale la risposta (l’offerta politica) provenga a volte da movimenti orientati a destra e a volte a sinistra: i primi di gran lunga prevalenti in Europa. E per capirlo bisogna considerare sia la situazione strutturale dei diversi paesi, sia le tradizioni e gli eventi che al loro interno influiscono sull’offerta.

 

Il caso italiano è uno dei più interessanti da capire e dei più ostici da affrontare. L’Italia è l’unico tra i paesi capitalistici avanzati in cui due movimenti populisti – uno chiaramente di destra, l’altro, all’origine, difficilmente attribuibile all’uno o all’altro dei due orientamenti – sono stati effettivamente al governo, e al governo insieme. Le vicende successive e l’emorragia degli elettori 5 stelle verso la Lega hanno reso poi possibile un’alleanza con il Pd dettata dall’emergenza: un’emergenza per il paese perché elezioni anticipate avrebbero probabilmente condotto a una vittoria di Salvini; e un’emergenza per i partiti, soprattutto per i 5 stelle, che in un nuovo Parlamento avrebbero sicuramente perso la maggioranza relativa. Le ragioni del successo straordinario dei populisti nelle elezioni del 2018, preannunciate dal successo dei 5 stelle in quelle del 2013, stanno probabilmente nel ventennale ristagno dell’economia italiana, fenomeno unico tra i grandi paesi europei, e nel discredito in cui erano caduti i partiti di centrodestra e centrosinistra che avevano governato in quel lungo periodo. E le ragioni della straordinaria ascesa nei sondaggi della Lega a discapito dei 5 stelle sta nella maggiore semplicità e rozzezza del messaggio di Salvini –largamente centrato sul tema dell’immigrazione – rispetto a quello dei 5 stelle, che cercavano di tener insieme confusamente temi eterogenei del populismo di destra e di sinistra.

 

Ma anche se i 5 stelle – con una presa ridotta sul mood attuale degli elettori ma ancora sovra-rappresentati in questo Parlamento – hanno abbandonato il loro antieuropeismo di principio, mi sembra difficile che l’alleanza tra 5 stelle e Pd possa sopravvivere a lungo se non riesce a produrre qualche risultato tangibile, e percepito come tale, in termini di crescita economica e di maggior benessere per i ceti maggiormente svantaggiati dalla situazione attuale, o che ritengono di esserlo. E questo – se vogliamo assolvere agli obblighi che la partecipazione all’Unione europea, la dipendenza dai mercati internazionali, il rispetto della Costituzione e dello stato di diritto ci impongono – non sarà facile. Non sarà facile perché dei 5 stelle tutto si può dire tranne che non abbiano dato voce a una insoddisfazione profonda dei nostri concittadini per il modo in cui le classi dirigenti del nostro paese, a cominciare da quelle politiche, hanno assolto in passato il loro compito: negli altri paesi con i quali ci confrontiamo questo è stato assolto meglio e una reazione populistica altrettanto intensa non c’è stata.

 

Ciò tuttavia rende il compito di questo governo più difficile perché la cattiva gestione dell’economia e delle istituzioni per un tempo così lungo ha prodotto gravi danni e contrasta con l’imperativo di dare presto un segnale di cambiamento per il meglio. Le procedure, le mentalità, le pratiche dominanti nelle istituzioni e nell’economia – insomma l’efficienza complessiva del paese – non sono in grado di mutare così rapidamente: anche se il masterplan del governo attuale fosse il migliore possibile, occorrerebbe tempo e pazienza per vederne i primi risultati, se non si vuole ricorrere a illusioni populistiche. Ma è forse sulla base di un diverso disegno di politiche economiche e sociali – diverso da quello sulla base del quale il Pd sta trattando con i 5 stelle – che Renzi giustifica la sua decisione di uscire dal partito e fondarne uno nuovo?

 

***

 

A me non sembra e ritorno al punto che ho appena accennato all’inizio. Renzi è uomo di politics, non di policies. Un calcolatore di schieramenti nel breve-medio periodo, non particolarmente versato in disegni riformistici di lungo. La mia congettura è allora che il suo ragionamento potrebbe essere stato questo. Un centrosinistra e un centrodestra moderati e liberali, oggi, non hanno alcuna ragione di restare divisi. La difesa dello stato di diritto e delle istituzioni della democrazia rappresentativa è obiettivo comune a entrambi. Così è l’Europa. Ed entrambi sono consapevoli che gli aspetti essenziali della politica macroeconomica, e anche alcuni delle politiche micro, non sono più nelle mani dei singoli stati nazionali. Altri aspetti però lo sono e riguardano essenzialmente due fondamentali obiettivi: l’efficienza della macchina economica e istituzionale del paese e quanto può e deve essere fatto affinché, in democrazia, non si sviluppino contromovimenti populistici pericolosi. Su questo secondo obiettivo, anche tra sostenitori di un centrodestra moderato e di un moderato centrosinistra, restano differenze derivanti dalla loro storia, ma, potrebbe pensare Renzi, non sono insuperabili.

 

E il ragionamento potrebbe così continuare. Io (Renzi) ho cercato di spostare il Pd verso posizioni di centrosinistra moderato e non ci sono riuscito. Ora la situazione presenta un’altra opportunità: il Pd di oggi, e come si svilupperà a seguito dell’alleanza con i 5 stelle, si allontana sempre di più da quelle condizioni che ci avevano fatto ritenere possibile una “vocazione maggioritaria” del Pd, condizioni che presupponevano una egemonia di sinistra liberale al suo interno. D’altronde il sistema elettorale è già in sostanza proporzionale e questo carattere potrebbe essere ulteriormente accentuato. Le contraddizioni tra il ceto politico Pd e 5 stelle non lasciano sperare in una vita lunga della legislatura: sarà già un miracolo se si riuscirà a superare il momento delle elezioni del presidente della Repubblica. E alle elezioni anticipate, che altrimenti vincerebbe Salvini a man bassa, bisogna arrivare con un partito liberale moderato in cui i ceti più responsabili del paese possano vedere un’alternativa sia alla posizione di destra populistica di Salvini, sia all’esperienza del governo Pd-5 Stelle, se sarà stata, com’è probabile, un’esperienza deludente per questi ceti di riferimento. Se questo partito sarà sufficientemente robusto e guidato da un leader abile, potrà godere di un potere di coalizione che gli consentirebbe un’influenza determinate sull’indirizzo politico del paese.

 

Come utilizzerà la maggiore autonomia politica che ha ottenuto? Ha ancora in mente un disegno di sinistra liberale? Temo di no

Ha senso questo ragionamento? Può essere riferito alla decisione di Renzi? Non lo so, ma se è così a me sembra che il suo principale difetto stia nel fatto che è lo stesso Renzi a candidarsi come leader di un nuovo partito che intende mettere insieme tutti i liberali moderati e “ragionevoli”… se questo è il suo disegno. Renzi ha già una lunga storia di politico di sinistra ed è reduce da una precedente scommessa che ha perso. Ha una visibilità mediatica che l’ha reso simpatico a pochi e (irragionevolmente, a mio modo di vedere) antipatico a molti. Non è un Macron. Anche lasciando da parte le diverse istituzioni dei due paesi, la loro diversa storia politica e le diverse personalità e cultura dei due leader, è proprio la novità di Macron, la sua provenienza da un mondo diverso da quello della politica politicienne, che fa la differenza rispetto al “ritorno” di Renzi: già Calenda sarebbe un candidato più credibile e “macroniano” per un’operazione politica come quella che ho attribuito a Renzi. Si aggiunga che, prevedibilmente, Berlusconi ha già escluso ogni confluenza delle sue restanti truppe in Italia Viva: vuole quantomeno un leader largamente percepito come neutrale tra destra e sinistra, e neppure questo forse gli basta. Da ciò consegue che i primi calcoli sulle prospettive elettorali del nuovo partito non conducono a conclusioni esaltanti: se dovessero migliorare, ciò probabilmente avverrebbe a seguito di un ulteriore dimagrimento del Pd e non per il reclutamento di nuovi voti provenienti dalla destra o dall’astensione.
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