Luigi Di Maio (Foto LaPresse)

La verità vi prego su dieci anni di grillismo

Alessandro Dal Lago

Dalla bolla comico-digitale degli inizi alla macchina elettorale: il M5s come movimento mutante. La contraddizione dei dilettanti che diventano professionisti e il buco nero di Di Maio agli Esteri. Sociologia dei Cinque stelle al potere

Se qualcuno avesse profetizzato, all’inizio del millennio, che un giorno un giovanotto di 33 anni senza arte né parte, privo di laurea, ignaro della lingua inglese e largamente insipiente in materia di storia e geografia, sarebbe diventato ministro degli Esteri di quella che, nonostante tutto, resta la settima potenza economica al mondo, gli avremmo riso in faccia.

 

L’idea tradizionale era che un ministro, per essere tale e soprattutto agli Esteri, dovesse avere studiato qualcosa, vantare un curriculum, essersi fatto le ossa in dibattiti parlamentari e trame di partito, avere una carriera alle spalle, insomma disporre di una biografia pubblica. Ma ci sbagliavamo. Questo era vero in altri tempi, meno infelici di quelli attuali, dal punto di vista della qualità di chi ci governa. Finché, una quindicina d’anni fa, è saltato fuori dal nulla, o meglio da qualche piazza assatanata, un comico che ha fondato un movimento, che si è trasformato in partito (ma senza dirlo), che ha un leader o “capo politico”, il quale è diventato, grazie alle burle della storia, ministro degli Esteri. No, non è una filastrocca di Branduardi. Parliamo di Luigi Di Maio. Come è stato possibile?

 

Prima di cercare una risposta mi si lasci citare Platone. Nel Teeteto, fa dire a Socrate che l’inizio della filosofia è il thaumazein, lo stupore o meraviglia di fronte al mondo. Ma se oggi un filosofo greco, sceso da una macchina del tempo, si trovasse di fronte a Di Maio, nel suo ruolo di ministro, potrebbe provare solo sgomento. “Quello lì?”, griderebbe e tornerebbe di corsa nel Quinto secolo a. C., guardandoci e toccandosi la fronte con un dito.  


Grillo è di sinistra, di destra, di centro, di ieri, di oggi e di domani: l’importante è che il pubblico goda delle sue enormità e si identifichi con lui. Uno così non sarebbe uscito dai teatri e dalle piazze se il manager Casaleggio non l’avesse immerso nella cultura che va tanto oggi, un misto di New Age, informatica e moralismo anti casta 


 

Con questo voglio dire che il problema del nostro ministro non sta tanto nell’ignoranza conclamata o nella mancanza di una laurea, che pure pesano, ma nella sua irrilevanza, politica e morale. L’ometto, a sua volta, è espressione di un ceto politico, quello a 5 stelle, insipido e incapace, ma vasto e diffuso. Di Maio, tanto per fare un paragone con un altro bel tomo, è il contrario esatto di quel portavoce scapestrato di una congrega di conservatori oxoniensi, illusi di governare una grande potenza, che ha nome Boris Johnson. Questo qui, nel suo disastroso snobismo, ha comunque una personalità. Di Maio, all’opposto, è il simbolo del buco nero, del grande nulla in cui il nostro paese sta sprofondando, se un intervento divino o una catastrofe cosmica non interverrà rapidamente a cambiare la rotta. Ripetiamo: come è stato possibile?

 

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Tutto comincia con Grillo, è chiaro, e con il suo appello al popolo. Ma che cos’è il “popolo”? Ebbene, non è un soggetto, ma un predicato. Di per sé, in principio è muto, come ogni altra astrazione (classe, nazione, ecc.). Esiste, balza alla vita e all’esistenza sociale solo quando qualcuno lo nomina, lo definisce e soprattutto lo aizza. Quando qualcuno eccita dei tizi, a migliaia, decine e centinaia di migliaia, convincendoli che non sono monadi, anonime e solitarie, ma parte di un qualcosa che sta nascendo, gonfiando ed è pronto a esplodere (un milione di dita strette in un minaccioso pugno, dice Majakovskij del movimento comunista). Perché ciò avvenga sono necessari agitatori di talento, dotati di voce e carisma, e soprattutto nemici contro cui possano scagliare, mentalmente e all’occorrenza fisicamente, i soggetti atomizzati, che così diventano popolo. Dopo di che, il popolo esiste e lotta insieme a noi.

 

Sartre pensava che prima venisse la fusione degli individui in un gruppo e poi questo esprimesse un capo, ma è più logico il contrario: è un capo che dà il via al gruppo e poi se ne impadronisce. La descrizione che fa Malaparte del colpo di stato di Lenin è forse semplicistica, ma fotografa i bolscevichi nel momento di attivazione e cristallizzazione del processo rivoluzionario. In questo senso, si parva licet, Grillo è un agitatore che è stato capace di eccitare i suoi atomi contro i nemici, facendo di loro un gruppo, un movimento e un partito. Come c’è riuscito?

 

Per cominciare, grazie alle sue doti di guitto. I vaffaday sono stati la naturale prosecuzione degli spettacoli in cui, appunto, eccitava il pubblico contro i produttori di automobili, gli avvelenatori dell’ambiente, i ricchi, gli stranieri, i corrotti, i ladri, il pdmenoelle, lo psiconano, renzie – ovvero qualsiasi oggetto del livore dei nostri connazionali che gli capitasse a tiro; i quali connazionali, mentre si beavano delle invettive del comico-leader, dapprima nei teatri e poi in piazza, si facevano popolo, fondendosi con lui, e lui con loro. Come in uno spettacolo rock, ma con l’idea che sul palco si suoni la musica voluta dal pubblico.

 

Ci vuole talento per tutto questo, e a Grillo non manca. Ma è il talento di un comico e forse di un capocomico, non di un autore o di un regista. Grillo, quando scrive, è penoso – le sue lettere ai giornali e i suoi appelli scritti sono nonsensical. Non organizza e non dirige. Fa casino, consigliato o no che sia. Ma ha un fiuto straordinario nell’acchiappare al volo le idee altrui, nel trasformarle in battute e nel gettarle nelle fauci dei suoi spettatori-seguaci. Grillo è di sinistra, di destra, di centro, di ieri, di oggi e di domani: l’importante è che il pubblico goda delle sue enormità e, godendo, si identifichi con lui.

 

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Uno così non sarebbe uscito dai teatri e dalle piazze se il manager Casaleggio non l’avesse immerso nella cultura che va tanto oggi, un misto di New Age, informatica e moralismo anti casta. Basta dare un’occhiata ai libri scritti da Grillo e Casaleggio, da soli o in coppia, con o senza Dario Fo, per farsi un’idea di quello che era all’inizio il M5s: in economia idee strampalate ma alla moda, ecologia all’ingrosso, catastrofismo, fanatismo morale, faziosità stellare (“noi contro tutti”), giustizialismo sfrenato, democrazia al plasma, utopismo di caseggiato (piste ciclabili per tutti e wi-fi libero), xenofobia quanto basta (“no ai politici che permettono agli stranieri di violare i sacri confini della patria”). Una vera lagna, abbiamo pensato in molti, ma ci sbagliavamo; perché quegli slogan colpivano l’immaginazione di un paese che non aveva più sezioni o circoli di partito, abituato a credere solo ai magistrati, e che soprattutto non disponeva di altra sfera pubblica che internet, o meglio i social.

 

Messi insieme, i due mezzi talenti di Grillo e Casaleggio hanno fatto un gran talento: uno sbraitava e l’altro teorizzava, uno portava consensi e l’altro li canalizzava, attraverso la sua azienda di consulenza informatica, verso la politica (non digitale, quella vera). Tutto questo sembra ovvio, oggi, ma non lo è stato e ha del miracoloso. Non giudichiamo con il senno di poi: imprese del genere non sono del tutto pianificabili, ma, a partire dall’idea di base – fare dell’odio per la casta una ragione di aggregazione virtuale e politica –, evolvono, subiscono strappi e rallentamenti. Magari falliscono. Ma il miracolo resta. Fondare un movimento-partito che non ha sedi, non costa nulla e anzi porta, direttamente e indirettamente, quattrini all’azienda e al comico, è geniale. In questo senso, il M5s non ha paralleli al mondo e la definizione di populismo gli va stretta. “Marketing populista” è forse un’espressione più appropriata.

 

Il problema nasce quando questa bolla comico-digitale si trasforma in macchina elettorale. Il meccanismo delle selezioni online dei candidati, infatti, permette a poche migliaia o decine di migliaia di iscritti, gli attivisti più fanatici, di scegliere gente come loro da mandare in consiglio comunale o regionale, alla Camera o al Senato. E’ inevitabile che i prescelti siano politicamente incompetenti. Magari ci sono anche i laureati, tra loro. Magari sanno qualcosa di ambiente, scuola, legge e informatica, ma nessuno ha spiegato loro che la politica è un’attività specializzata, sfaccettata, tortuosa, sottilmente canagliesca. Al contrario, con il ridicolo slogan “onestà-onestà-onestà”, questi dilettanti hanno imposto per una decina d’anni il loro dilettantismo al mondo – con il risultato, però, di abbaiare e basta.

 

Non si può per sempre salire sui tetti di Montecitorio, aprire scatolette di tonno, rumoreggiare sui banchi dell’opposizione. Bisogna sboccare da qualche parte. Bisogna fare politica. E non è un caso che a farla, alla fine, non siano i piccolissimi professionisti di provincia, gli ingegneri, i professori di filosofia, un paio di giornalisti, persino un generale dei carabinieri forestali, perbacco – ma quelli che sono diventati, volenti o nolenti, politici di professione, quelli che non saprebbero fare altro che i politici, se non fossero rieletti e perdessero il seggio o la carica di ministro o sottosegretario. Di Maio, Fico, per cominciare e dietro di loro gli Spadafora, i Patuanelli, i Toninelli, i Fioramonti, i Bonafede, gente che di rilevante ha solo la sonorità dei cognomi.

 

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La vecchia idea che i movimenti sociali, dopo una fase di ebollizione, si raffreddino, diventando istituzioni, è un luogo comune sociologico che contiene una qualche verità. Così, oggi, basta confrontare l’immagine di Di Maio, strizzato nei suoi abitucci blu, con il descamisado Beppe Grillo dei Vaffaday per capire che il M5s è una cosa totalmente diversa da quella che pretendeva d’essere una decina d’anni fa. Un movimento mutante. E qui, ovviamente, c’è la contraddizione clamorosa di una fiera base sociale che ascende alle massime cariche di governo e stato, dei dilettanti che diventano professionisti, dei populisti che diventano casta. Solo gente fanatica o illusa può pensare che questi politici in sedicesimo siano diversi – professionalmente – dai leghisti, dai piddini, dai renziani, dai forzisti o dai fratelli d’Italia. Forse lo erano, tanto, tanto tempo fa. Ma non lo sono più. Non sono benestanti come i berlusconiani, felpati come i piddini, ruspanti come leghisti ecc., ma fanno lo stesso mestiere. Parafrasando una battuta del geniale Freaks di Tod Browning, il resto del parlamento potrebbe gridare a ogni grillino: “Sei uno di noi! Sei uno di noi! Sei uno di noi!”. 

 


Sono stato dal giornalaio. Il volto di Moro, al mare con la figlia, mi guardava dal bancone. Pensando a Di Maio ministro degli Esteri, mi è venuto da piangere. E’ vero che alla Farnesina c’è stata persino Mogherini, ma Di Maio è davvero al di là di ogni immaginazione. Era molto meglio morire democristiani


 

Con una differenza fondamentale. Che gli altri hanno un minimo di ragione sociale o ideologica per esistere: il liberalismo, il riformismo più o meno di sinistra, il nazionalismo, il bonapartismo, il fascismo ecc. Mentre questi, perso il vestitino dell’innocenza, non hanno nessun motivo per stare insieme, se non la propria sopravvivenza di partito. E questo spiega ampiamente la faccenda del cambio di casacca governativa. Gente che aveva fatto il contratto con gli amici di Borghezio e CasaPound oggi governa con quelli di Zingaretti, Renzi e Grasso. Così, con le stesse facce impiegatizie e gli stessi completi da parlamentare. Come l’invenzione del numerale zero (in greco il “nulla”, in arabo “il vuoto”) ha permesso di ampliare gli orizzonti della matematica, così un movimento con troppe e vaghe idee per la testa, cioè senza nessuna di rilievo, ha permesso di allargare quelli governativi. Il vuoto in fondo serve, è il mozzo intorno a cui girano le ruote.

 

Naturalmente, a spiegare che cosa sia il M5s c’è anche la pura e semplice bêtise. Questi facevano tanto gli ecologisti, ma non si sono accorti, o perché non leggono i giornali o perché non sono mai andati oltre Chiasso, che i gilet gialli protestavano contro le tasse sulla benzina, non per l’ambiente. Come è naturale per gente che usa la macchina per lavorare. E così i due astuti dioscuri Di Maio e Di Battista sono andati a Parigi ad abbracciare quelli che facevano cagnara, con i seguenti risultati: contraddire quello che dicevano sino al giorno prima, fare incavolare il governo francese, fare incazzare una buona percentuale di elettori e fare oltretutto la figura dei pirla. Passi per Di Battista, capace solo di urlare alla luna. Ma quell’altro l’hanno nominato ministro degli Esteri! Parlo di Zingaretti e Renzi, che o non si sono posti il problema o avranno pensato che non bastava Conte per fare un selfie con i potenti della terra.

 

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E’ difficile fare previsioni. Probabilmente, gli scolari di Grillo e Casaleggio vivacchieranno finché Renzi non deciderà di staccare la spina al governo – il che non deve essere troppo prossimo, visto che il suo partitino non sembra decollare. Ma è causa di stupefazione che nei sondaggi il 20 per cento degli intervistati dichiari di votarli ancora. Che sperano di ottenere, se non la permanenza dei loro beniamini in Parlamento fino allo scadere del mandato? Forse, perché i grillini non sono mai indagati né condannati, mancando persino di un minimo fascino criminale? Chi lo sa. Finisco con una nota malinconica. La mattina in cui ho chiuso questo pezzo sono stato dal giornalaio. Il volto di Moro, al mare con la figlia, mi guardava dal bancone. Pensando a Di Maio ministro degli Esteri, mi è venuto da piangere. E’ vero che alla Farnesina c’è stata persino Mogherini (che fine avrà fatto costei?), ma Di Maio è davvero al di là di ogni immaginazione. Era molto meglio morire democristiani.

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