(foto LaPresse)

C'è obbligatorietà e obbligatorietà

Guido Vitiello

Adesso la si trova associata ai tamponi, alle mascherine. Eppure dovremmo parlare di quella riferita all'azione penale, per abbattere finalmente un totem

Genera più calore che luce, e più rumore che calore: di quale strambo macchinario sto parlando? Che domande, è il dibattito pubblico italiano. L’ingresso delle procure di mezza Italia nel delicatissimo stallo alla messicana dell’emergenza coronavirus solleverebbe, in teoria, un solo problema – grande quanto una casa, o quanto un totem: l’obbligatorietà dell’azione penale. E invece, cerchi la parola obbligatorietà tra le notizie e la trovi associata alle mascherine, ai vaccini, ai tamponi, a qualunque cosa tranne che all’iniziativa delle procure. Della sola questione di cui si dovrebbe parlare – e non da oggi: da trent’anni almeno – si tace accuratamente, salvo menzionarla in un inciso a mezza bocca o destinarle l’untuoso lip service del farisaismo costituzionale. Con qualche eccezione, magari non delle più entusiasmanti. Dice Salvini: non si potrebbe aspettare la fine dell’emergenza per aprire fascicoli? Gli risponde via video il suo vecchio commilitone Toninelli, compare di porti chiusi: non se ne parla nemmeno, in Italia esiste una cosa chiamata obbligatorietà. Se non altro, Salvini è meno ipocrita. Ma sapendo che a molti lettori peserà ammetterlo come pesa a me, citerò un vecchio discorso di Napolitano ai magistrati in tirocinio: “Occorre che ogni singolo magistrato sia pienamente consapevole della portata degli effetti, talora assai rilevanti, che un suo atto può produrre anche al di là delle parti processuali”. Certo, fin qui siamo alle pie esortazioni. Poi toccherà essere empi, violare il tabù e abbattere il totem.