(foto LaPresse)

L'elogio di Orban della destra italiana è un momento della verità

Guido Vitiello

Certo, è una verità che molti di noi già conoscevano; ma prima il segnale ci arrivava attutito e distorto da un rumore ambientale potentissimo

Anche se infiocchettata di comuni balle (“Orbán usa i dpcm, come Conte!”), di più solenni balordaggini (“anzi: meglio Orbán di Conte”), di whataboutery da trecartari (“e allora la Cina?”), di capziosità da causidici (“eh, ma l’art. 53 della Costituzione ungherese…”) e di demofascisterie assortite (“il popolo vuole Orbán, ergo è una democrazia”), la reazione pressoché unanime della destra italiana – politici, intellettuali e giornalisti d’area – ai nuovi fatti d’Ungheria è stata un momento della verità. Certo, è una verità che molti di noi già conoscevano; ma il segnale ci arrivava attutito e distorto da un rumore ambientale potentissimo. Più o meno come l’intelligencija russa del Diciannovesimo secolo, la destra italiana è divisa tra occidentalisti e slavofili, con la differenza che le due fazioni sono in apparente concordia e in occasionale sincretismo. I primi guardano all’anglosfera – dal Tea party sotto acidi dei tifosi di Trump ai Bo-Jo bohémiens affascinati dallo stile inimitabile del premier britannico – ma a dettare il passo sono gli slavofili, putiniani e orbanisti. Con buona ragione, del resto: sono loro ad avere in mano le carte. Perché – è fin troppo evidente – tra le grandi varianti mondiali dell’ondata sovranista-populista, il modello delle democrature dell’est è di gran lunga più accessibile e replicabile con le risorse politiche, economiche, mediatiche, culturali e perfino religiose che abbiamo a disposizione. Chi vi fa frusciare sotto il naso i dépliant dell’America s’inganna, e soprattutto vi inganna.