(foto LaPresse)

Quant'è contagiosa la metafora del contagio!

Guido Vitiello

Passiamo il tempo a stilare gli insegnamenti della pandemia, ad applaudire i verdetti della sua giustizia poetica. Per cui il virus diventa problema e soluzione del capitalismo, e le frontiere sono inutili e fondamentali allo stesso tempo

La pandemia non è magistra di niente che ci riguardi, eppure passiamo il tempo a stillarne insegnamenti, a sospirare per i suoi contrappassi, ad applaudire i verdetti della sua giustizia poetica, ad accomodarla ai nostri quod erat demonstrandum, a farne metafora di qualunque cosa. Del resto, non è facile convivere con l’insensato. Così il virus dimostra che ci vogliono più frontiere, che le frontiere non servono a nulla, che l’Europa è morta, che l’Europa è risorta, che il capitalismo è il problema, che il capitalismo è la soluzione, che la globalizzazione è agli sgoccioli, che la globalizzazione è irreversibile, che siamo una comunità, che non siamo una comunità, che solo i ricchi se la ridono, che anche i ricchi piangono. Se ogni metafora, come voleva Vico, è una “picciola favoletta”, una favola in miniatura, il contagio ne racchiude più della raccolta dei Grimm. In tempi meno sospetti un libro di Peta Mitchell, “Contagious metaphor” (Bloomsbury, 2012), ne ricostruiva le vicende dagli esempi antichi – il miasma della tragedia greca, la contagio morum di Erasmo – all’esplosione moderna. Il primo focolaio fu la Parigi capitale del diciannovesimo secolo, quando l’epidemiologia sembrò utile per spiegare il panico della folla, il dilagare delle mode e altri fenomeni della brulicante vita metropolitana. Poi la febbre metaforica è scappata di mano, finendo per infettare la pubblicità (il marketing virale), l’economia (il contagio finanziario), le reti, la comunicazione. Mitchell concludeva che a esser contagiosa è la metafora stessa del contagio.

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