Nessuno più e meglio di Albert Camus avrebbe potuto raccontare la peste

Giampiero Mughini

Il dolore, la vergogna, i sogni. Una vita impressa sui libri

Come se ancora una volta l’uomo si fosse mostrato poco umile, convinto che le cose devono essere a misura d’uomo e che invece i flagelli non sono a misura d’uomo. Laddove eccome se i flagelli esistono e durano e imperversano, e tanto più che gli uomini non hanno preso precauzioni dimenticando quanto siano fragili e quanto ci voglia poco a sopprimere il loro avvenire, i loro spostamenti, le loro conversazioni a distanza ravvicinata, la loro tranquillità quotidiana, il loro dare e avere merci e denari. Nella storia dell’umanità i casi di peste e di guerra sono stati tanti. Eppure ogni volta l’umanità s’è lasciata trovare impreparata dalla guerra o dalla peste. Erano gli argomenti che il trentaquattrenne Albert Camus usava nel suo capolavoro del 1947, La Peste, il romanzo dove aveva preso a raccontare come quella terribile epidemia fosse arrivata in un anno imprecisato dei Quaranta del secolo scorso a Orano, una cittadina dell’Algeria francese. Dov’erano cominciati a morire i topi per strada, dapprima uno e poi un altro e poi a mucchi. Dopo di che sono gli esseri umani a morire, tanti, decine e decine ogni giorno. “Dottore c’è una qualche speranza che domani vada meglio?” chiede qualcuno al dottor Bernard Rieux, il personaggio cui appartiene la voce narrante. “Non abbiamo alcun elemento per sperarlo”, risponde Rieux. La città algerina viene sprangata, né si entra né si esce. E’ scritto nel 1947 in Francia, sembra scritto ieri a casa nostra.

 

Il futuro premio Nobel era nato in una cittadina algerina nel 1913 da un padre francese di origine alsaziana e da una madre spagnola. Il padre morì nei sanguinosissimi combattimenti della Marna quando il figlio aveva un anno. Camus crebbe in una famiglia poverissima, la madre che non sapeva leggere e una nonna imperiosa. Al momento di entrare al liceo dové scegliere se continuare gli studi (a proseguire i quali s’era meritato una borsa di studio) o lasciar perdere e trovare un qualche lavoro di che far sopravvivere la sua famigliola, dove anche una moneta da due franchi aveva una sua “terribile necessità” nell’economia domestica. Il suo insegnante, che ne apprezzava il talento, andò a casa a convincere mamma e nonna che ne valeva la pena che quel ragazzo continuasse gli studi. Dopo avere debuttato da giornalista in Algeria, Camus era arrivato a Parigi negli ultimissimi anni Trenta per diventare da subito uno dei protagonisti della scena culturale parigina. Già nel 1942 aveva pubblicato L’Étranger, un romanzo di quelli che marchiano un’epoca. (“La lettura de L’Étranger è la sola vera emozione che io abbia provato nel leggere un contemporaneo da anni e anni”, gli scrive Nicola Chiaromonte il 15 ottobre 1945.) Da subito aveva conosciuto e fatto i conti con Jean-Paul Sartre e con il sartrismo, tanto che lo zigzagare dei loro rapporti – dapprima un’amicizia e una collaborazione intense, poi uno scontro intellettuale apertissimo – farà da canovaccio di un comparto della storia culturale non soltanto francese. Di certo la stagione della “peste” rappresentata dall’occupazione nazi della Francia e in particolare di Parigi, l’avevano vissuta entrambi alla maniera di un’epidemia durata quattro anni. A guerra finita e libertà riconquistate, l’uno e l’altro erano le due voci più autorevoli nel fornire al Dopoguerra la sua ideologia. Un’ideologia che per Sartre era bella che esistente, il comunismo e dunque il partito che ne era l’alfiere e dunque lo stato – l’Urss – che di quell’ideologia era l’incarnazione e dunque la violenza rivoluzionaria da cui quello stato era nato. Una concatenazione logica e ideologica che Camus si erse a rifiutare alla maniera in cui la stavano rifiutando uomini come Arthur Koestler, Chiaromonte, Ignazio Silone, i maestri di tutti noi ventenni degli anni Sessanta che ci reputavamo “di sinistra” e pur tuttavia odiavamo l’Urss e i suoi adepti con tutte le nostre forze, tanto che a quei maestri talmente preziosi non finiremo mai di esser grati.

 

A capire l’entità morale e intellettuale dell’amicizia poi divenuta scontro totale tra Sartre e Camus, credo non ci sia niente di più drammatico di un brano del diario di Simone de Beauvoir scritto non appena lei riceve la notizia (4 gennaio 1960) della morte di Camus in un incidente d’auto: “Posai il ricevitore, la gola serrata, la bocca che mi tremava ‘Non mi metterò a piangere, mi dissi lui non era più nulla per me’ […] Prima di mettermi a letto, inghiottii un tranquillante; dopo la guarigione di Sartre non ne usavo più, e perciò avrei dovuto addormentarmi; non riuscii a chiudere occhio. Mi sono alzata, vestita alla men peggio, e sono andata a camminare nella notte. Non era l’uomo di cinquant’anni che rimpiangevo; non era questo giusto senza giustizia, che era stato cancellato dal mio cuore dal suo consenso ai crimini compiuti dalla Francia; era il compagno degli anni di speranza, il cui viso nudo rideva e sorrideva così bene, il giovane scrittore ambizioso, folle della vita, dei suoi piaceri, dei suoi trionfi , del cameratismo, dell’amicizia, dell’amore, della felicità. Camus quale lo avevo amato sorgeva dalla notte, nello stesso momento ritrovato e dolorosamente perduto”.

 

Bellissimo, straziante. Solo che imputare a Camus una sorta di “consenso” ai crimini coloniali commessi dalla Francia in Algeria era una vaccata. Ancora una volta libero dalle costrizioni asfissianti dell’ideologia cui era ligio il gruppo sartriano, Camus aveva invece una posizione “terza”. Cresciuto in Algeria in una famiglia francese, sapeva di prima mano che i pieds-noirs ne avevano ben donde a reputare l’Algeria la loro terra, perché avevano contribuito a costruirla e a modellarla. Solo le costrizioni asfissianti dell’ideologia impedivano ai sartriani di vedere la tragedia del milione di francesi d’Algeria che da un giorno all’altro se ne andò da quelle terre forti in tutto e per tutto del contenuto di una valigia. Camus sognava un’Algeria democratica in cui coabitassero gente e culture diverse, un atteggiamento lontanissimo dall’estasi con cui Sartre scrisse la prefazione all’apologia della violenza contenuta in un libro del medico algerino Frantz Fanon, quella prefazione che Raymond Aron definirà “un testo fascista” bell’e buono.

 

Gli odori e i roventi pomeriggi dell’Algeria in cui era cresciuto da bambino poverissimo erano rimasti impressi per sempre nella carne e nella memoria di Camus. Del tutto naturale che ambientasse a Orano la tragedia di un’epidemia di peste che sconvolge una città e una maniera di vivere. Chi meglio di lui conosceva quelle strade, quelle abitazioni, quei cortili? Quando dall’auto, che alla velocità di 140 chilometri l’ora era andata a cozzare contro un platano, estraggono il suo cadavere gli trovano addosso il manoscritto di un libro non ancora compiuto e che verrà pubblicato in Francia solo 34 anni dopo, nel 1994, Le Premier Homme (di cui è uscito recentemente in Francia un “graphic novel” esaltato dai disegni di Jacques Ferrandez). Un libro ammaliante dove Camus fa i conti con quella sua famigliola algerina fatta di una madre che guadagnava qualcosa a forza di pulire in ginocchio i parquet delle case dei francesi agiati e di una nonna che impugnava talvolta il nervo di bue a punirlo. I conti con il ricordo della loro casa dove il gabinetto consisteva in tutto e per tutto di un antro privo di aria e di elettricità con un buco alla turca, con quella loro povertà assoluta che gli resterà addosso come qualcosa di cui provare vergogna, con l’ombra di un padre che Camus non aveva mai conosciuto e che era andato a morire per una Francia in cui prima della guerra non aveva vissuto un solo giorno della sua vita. Se una tale condizione umana e familiare non era anche questa una sorta di “peste” dalla quale cercare di scampare.

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