Giuseppe Casetti nella sua libreria/galleria "Il Museo del Louvre"

Entrare in un antro romano dell'underground e ricordare gli altri scomparsi

Giampiero Mughini

Storie di librerie e libri negletti negli anni Settanta

È un antro fatale al numero 8a di via della Reginella, nel bel mezzo del ghetto romano. Dico Il museo del Louvre, ossia la libreria/galleria di Giuseppe Casetti che fa da tempio di tutto ciò che nella storia delle arti novecentesche ha il sapore dell’underground, della bellezza obliqua e come trascurata, un culto di cui Casetti (nato nel 1949, nome di battaglia “Cristiano”) è il sacerdote che lo officia da poco meno di cinquant’anni.

 

Lo avevo conosciuto non ricordo più se nel 1975 o nel 1976 in un altro antro fatale della cultura seminascosta, l’indimenticabile libreria Maldoror di via di Parione 41 – a un passo da piazza Navona –, quella che primissima in Italia mise in vetrina e sugli scaffali i libri dei futuristi di cui all’università mi avevano insegnato che era robaccia di nessun conto e per giunta firmata da fascistacci ebbri del Male. Da quelle brossurine rimasi ipnotizzato, così come da alcune prime edizioni di Alberto Savinio, uno scrittore dimenticatissimo e di cui l’Adelphi non aveva ancora avviato la riscoperta che per molti di noi fu abbagliante. Purtroppo, oltre che inesperto ero ancora in quel momento perfettamente a secco di dindini. Non comprai nessun libro futurista, che “Cristiano” vendeva a 30 mila lire “l’un per l’altro”, né comprai una delle 12 copie dell’edizione di testa del sontuoso “Capitano Ulisse” di Alberto Savinio, uno dei Quaderni di Novissima pubblicato nel 1934, e a me all’università dove avevo studiato Letteratura italiana contemporanea (e preso un trenta e lode) non me lo aveva detto nessuno ma proprio nessuno che durante il fascismo si pubblicassero in Italia libri di una tale qualità e raffinatezza. Devo all’antro di via di Parione, e dunque a “Cristiano” e al suo geniale complice Paolo Missigoi, l’imbeccata a conoscere (per poi collezionare) questi tesori nascosti della nostra storia culturale. Figuratevi se quando qualche settimana fa Casetti mi ha telefonato a dirmi che voleva presentassi a via della Reginella un suo recentissimo libro autobiografico (“Il re libraio e i Desaparecidos”, Campanotto editore), io – che pure odio le presentazioni di libri perché non servono a niente se non a vellicare l’ego degli autori – non gli abbia detto un sì entusiasta. Ci sono andato a via della Reginella, ho montato la scala a chiocciola fino alla saletta dedicata alle presentazione dov’eravamo stipati all’inverosimile, tutti adepti di quel culto di cui dicevo all’avvio, i libri gli autori i destini dell’underground. Parlavo, raccontavo il tempo di Maldoror, e lo sentivo che in quella angusta saletta tutti erano percorsi dagli stessi brividi da cui sono percorso io quando entro nella libreria/galleria di “Cristiano” e vedo affisse alle pareti le foto vintage di Elisabetta Catalano o dentro una vetrinetta le carte divine che portano la firma di Emilio Villa.

 

Chi non ha vissuto da adulto il tempo degli anni Settanta, faticherebbe a raccapezzarsi nel sentire questa storia di vecchi fogli arrugginiti dagli anni. Al tempo di Maldoror non stava né in cielo né in terra che una libreria come quella ospitasse non solo i libri futuristi ma anche i romanzi di Louis-Ferdinand Céline, i poemi di Ezra Pound, i saggi di Elémire Zolla, tutti autori talmente avversi alla dominante ideologia di sinistra. E difatti alla Maldoror arrivarono dei “compagni” particolarmente furenti che misero a soqquadro e bruciarono alcuni di quei libri. Se oggi la contesa avviene a colpi di tweet sui social, nei Settanta scattavano le bombe molotov. Giusto sotto la mia casa d’allora, a via Trinità dei Pellegrini, c’era la fatidica libreria di Valter Patuzo che traboccava di libri fascisti e sul periodo fascista. Era la libreria cui attingeva copiosamente il professor Renzo De Felice nello scrivere la sua monumentale storia del fascismo da Einaudi. Era una sorta di enorme scantinato con una striminzita vetrina che dava sulla strada. Contro quella vetrina una gang di Autonomi lanciò alcune bottiglie molotov che mandarono in fiamme libri e documenti. Naturalmente appena lo seppi scesi giù da Patuzo, un tipo assai piacevole da incontrare e con cui conversare, a esprimergli la mia solidarietà. Quelli che lanciavano bottiglie molotov contro le vetrine di una libreria non è che li considerassi dei “compagni che sbagliano”, li consideravo dei delinquenti e basta.

 

Non che sul versante opposto le cose andassero diversamente. A via dei Banchi Vecchi 59 c’era la libreria Uscita di Anna Gaggio, nata da un’idea originaria di Nanni Balestrini, e dov’era ampia la documentazione di tutto ciò che nasceva all’estrema sinistra. Una bella libreria che io frequentavo e per quanto me lo consentissero i pochi dindini che avevo nella prima metà dei Settanta. Contro quella libreria esplose una bomba al fosforo che non risparmiò un solo libro, una sola rivista, un solo manifesto politico. Fuoco e fiamme contro i libri dell’una o dell’altra parte, e del resto fra poco la parola sarebbe passata alle pistole, agli agguati a uomo. Poche sere fa è stato da me a cena Umberto Croppi, l’ex assessore alla Cultura della giunta Alemanno e oggi direttore della Quadriennale. Lui era accanto a Mikis Mantakas la mattina in cui innanzi al Palazzo di Giustizia di piazza Cavour a Roma gli Autonomi si scaraventarono contro i fascisti, rei di volere giustizia per i due ragazzi bruciati vivi il 16 aprile 1973 nella casa di 40 metri quadri di Primavalle in cui abitava il dirigente di una sezione del Msi e contro la quale alcuni militanti di Potere operaio avevano aizzato un rogo. Croppi mi ha raccontato il momento in cui il ventunenne greco cadde sotto i colpi di pistola tirati dagli Autonomi. Uno di loro era Fabrizio Panzieri, fratello di una mia cara amica, uno con cui avevo giocato a ping pong e che da quarant’anni è latitante in Sudamerica.

 

Alla libreria Maldoror, l’ho già detto, gli steccati erano meno perentori, ciascuno poteva scegliersi gli autori e i libri che voleva, ciascuno poteva percorrere i sentieri intellettuali che voleva. La frequentava il poeta/ingegnere Leonardo Sinisgalli e fu “Cristiano” a darmi il suo telefono, e io andai a casa sua dov’erano ammassati dappertutto i quadri della sua collezione e in una vetrinetta i libri del Novecento italiano che lui collezionava e che sono stati venduti all’asta una trentina di anni fa. Tra i clienti della Maldoror c’era anche Plinio De Martiis, il gallerista che ha fatto la storia della pittura italiana del secondo dopoguerra, uno di cui “Cristiano” ricorda quanto amasse Leo Longanesi, uno che è stato tanto l’inventore dello slogan “Mussolini ha sempre ragione” quanto il padre del moderno giornalismo politico dei Mario Pannunzio e degli Arrigo Benedetti, gente che aveva imparato l’abc del mestiere al desco del Longanesi direttore del settimanale Omnibus.

 

E dato che finora ho citato solo di sfuggita Paolo Missigoi, l’altro dei due sacerdoti di Maldoror, finisco invece con lui. Dopo Maldoror i rapporti tra “Cristiano” e Paolo si attenuarono, e questo anche in ragione della tossicodipendenza da eroina di Paolo, che ne faceva un tipo difficile da maneggiare. Solo che lui era un ricercatore librario sopraffino e dunque continuò il suo lavoro da cane sciolto, in combutta con Ondine, la moglie francese che adesso non c’è più e che io ricordo con commozione. Paolo mi telefonava a dirmi che in fatto di libri rari aveva questo e quello e io andavo in autobus fino alla loro casa attigua alla Stazione Tiburtina, un viaggio di circa 45 minuti. Salivo fino a casa loro, entravo, e cominciavo a guardare una a una le tante meraviglie che mi offrivano. Per fortuna adesso qualche dindino lo avevo, semmai avrei firmato qualche assegno postdatato. Una volta estrassero da sotto un divano l’intera collezione a numeri sciolti di Omnibus, il settimanale creato da Longanesi. Ne ero talmente affascinato da non contrattare minimamente il prezzo. Ne erano usciti 95 numeri fino al 25 gennaio 1939, quando Mussolini ne volle la chiusura in ragione di un articolo in cui Savinio aveva attribuito la morte di Giacomo Leopardi a un gelato mangiato troppo voracemente. Paolo e Ondine i 95 numeri li tenevano in una scatola. La abbracciai, chiamai un taxi e me ne tornai a casa. Per 27 anni della mia vita ho trascorso da solo la vigilia di Natale, dato che non avevo né fidanzate né figli né altro. Tranne la volta che invitai a cena Paolo e Ondine, e per tutta la sera parlammo incessantemente di libri rari.