Fabio Cannavaro con in mano la coppa del mondo (foto LaPresse)

Non mi arrabbio quasi mai, se lo feci fu per Cannavaro. Ma a Sofri replico: niente

Giampiero Mughini

Le rabbie, le smorfie, le scuse e una "mascalzonata intellettuale"

A chi come me di tanto in tanto va a fare quattro chiacchiere in tv per averne una mercede, succede di incontrare per strada qualcuno che gli dice: “A me lei piace molto quando si arrabbia”. Ora io in tv non mi arrabbio mai, e questo perché il farlo mi sembrerebbe stucchevole, sarebbe una pessima rappresentazione e un pessimo servigio offerto al pubblico televisivo. Il digrignare i denti e i tuoi occhi che si accendono di odio non sono di per sé dei buoni argomenti.

 

In trenta e passa anni che frequento gli studi televisivi mi sarà successo di arrabbiarmi quattro o cinque volte, non di più. E ogni volta perché il mio interlocutore o la mia interlocutrice mi ci aveva tirato per la giacca. Accadde ad esempio una dozzina d’anni fa o forse più quando una starlette ospite del programma cui stavo partecipando mi attribuì un pensiero e un giudizio che erano l’esatto opposto dei miei. E siccome si stava chiacchierando del gran romanzo che è il torneo di calcio di serie A, lei mi attribuì il giudizio secondo cui Fabio Cannavaro era un calciatore finito e questo prima che la Juve lo prendesse nell’agosto 2004, lo consegnasse alla Nazionale campione del mondo del 2006 e Cannavaro ne venisse premiato col titolo di Pallone d’oro del 2006. Ora la mia opinione su Cannavaro era esattamente all’opposto. Avevo reputato un capolavoro di Luciano Moggi quello di lusingare un Cannavaro che stava nella stanzetta che l’Inter adibiva ai ferrovecchi e convincere la società milanese a scambiarlo con un portiere di riserva che nell’Inter non giocò mai e di cui nessuno ricorda il nome (io sì, ma non lo dico). Quel Cannavaro indossò la maglia bianconera a rendere di acciaio la difesa della Juventus, contribuì alla vittoria di due scudetti uno più sonante dell’altro (scudetti poi rapinati dalle giurie di Calciopoli), giocò un campionato del mondo quale perno indistruttibile di una difesa che in sette partite incassò solo due gol, e se non sbaglio fu il primo difensore nella storia del calcio cui fosse stato assegnato il Pallone d’oro. Tutto questo lo pensavo, lo sostenevo, lo avevo pronunciato mille e una volta. E dunque quando la starlette mi attribuì il contrario, e lo fece con ostentata impudenza forse perché attizzata da qualcuno che le aveva detto di farsi valere quale “opinionista” (un termine che in tv si appioppa a qualsiasi analfabeta), quella volta davvero presi a fumare di rabbia. Non che mi facesse piacere, proprio no; non che mi facesse piacere far baruffa con una donna, dato che sono un uomo all’antica secondo cui una donna non la si sfiora neppure con un rosa. Epperò accadde: che io fumassi di rabbia, che digrignassi i denti, e ancora me ne spiaccio.

 

E’ successo pochissime altre volte, e mai che sia stato io a cercare la contesa, ad apprestare il “telescazzo” come viene chiamato quello che è divenuto un format frequentatissimo da chi va in televisione. Mi è successo di recente di urlacchiare qualche minuto nei confronti di Alba Parietti in uno studio televisivo, e davvero non ero contento di me, ma proprio per niente, anche se neppure quella volta ero stato io ad accendere la mischia. E meno male che durante quella stessa puntata ho subito trovato il modo di fare pace con Alba, di abbracciarla, di dirle che ovviamente io non ho nulla di nulla contro di lei e ci mancherebbe altro.

 

(Una cosa diversa è il fatto che me lo si legge in faccia quando provo disprezzo intellettuale per uno dei miei vicini di studio. Questo effettivamente accade. In quelle situazioni io sono muto, mutissimo, ma non lo è il mio volto. Non ci posso far nulla.)

 

Quel che vale per il piccolo schermo vale ancor più per quel che metto per iscritto su una pagina di carta. I miei direttori lo sanno, è rarissimo che in un mio articolo io addenti qualcuno. Se un libro che magari sta in testa alle vendite non mi piace non lo leggo, se un film ha l’aria di non essere nelle mie corde non vado a vederlo, se un personaggio di prima fila della nostra vita pubblica non mi aggrada non ne parlo. Credo di non avere mai scritto una riga che sia una su Matteo Salvini. Mai e poi mai ho scritto negativamente di qualcuno della televisione. Avendo lavorato con tutti mi sarebbe sembrato come di infliggere una pugnalata alle spalle.

 

Chi ha dato un’occhiata a questi miei pezzulli del martedì sul Foglio, sa che il 99 per cento delle volte scrivo per dire bene di un libro e del suo autore. Può darsi che quarant’anni fa fossi più ardente, potessi risultare più cattivo. Ancora mi mordo le mani per un corsivo contro Fortebraccio – alias Mario Melloni –, che negli anni Settanta avevo firmato su Mondoperaio, il mensile socialista che era la più bella rivista politica del tempo. Per farvi capire. Fortebraccio era allora l’apice intellettuale del cattocomunismo, il suo settarismo era inaudito, ogni santo giorno scriveva su l’Unità di come i comunisti italiani fossero una razza superiore rispetto a tutte le altre e miserande tribù politiche. Ogni santo giorno che Dio mandava in terra Fortebraccio piazzava quell’efficacissimo corsivo sulla prima pagina del quotidiano del Pci e non c’era uno dei 400 mila lettori dell’Unità che non lo leggesse per prima cosa. Ebbene su Mondoperaio, e nell’andare contro il settarismo di Fortebraccio, mi lasciai scappare un accenno volgare di cui ancora mi vergogno. 

 

 

Poi accadde che all’Europeo diretto da Lamberto Sechi, il direttore mi chiedesse di andare a casa di Fortebraccio e intervistarlo. Andai timoroso che lui avesse letto quel maledetto corsivo e se ne ricordasse. Niente di tutto questo, per fortuna. A incontrarlo Fortebraccio, che in quel momento aveva toccato gli ottant’anni, era una persona garbatissima, un gentiluomo e seppure granitico nelle sue convinzioni filocomuniste e filosovietiche. Alla mia domanda se gli fosse più caro Indro Montanelli (di cui Fortebraccio era stato amico) oppure Michail Suslov, il teorico del Partito comunista russo ai tempi di Leonid Breznev, lui rispose che non poteva non prediligere “quel grande maestro che era Suslov”, ma me lo disse con una tale grazia che io non ne inorridii e bensì sorrisi alla sua risposta. Dentro di me continuavo a maledire il corsivo di qualche anno prima. 

 

 

E’ successo che io mi sia occupato di recente su questo giornale di una delle storie più drammatiche tra quelle che hanno contrassegnato la mia generazione. Una storia dove ci sono di mezzo degli uomini assassinati, delle condanne penali ad anni e anni, delle vite e delle famiglie distrutte. Figuratevi se non mi sono messo i guanti bianchi nell’affrontare questa vicenda, nel dare a ciascuno dei suoi protagonisti tutto quello che gli spetta nel bene e nel male, nel ritrarlo in figura intera e senza colpi alle spalle o negli stinchi. L’ho fatto non per “piacionismo”, una malattia da cui sono immune, ma perché penso vadano affrontate a questo modo le storie anche le più difficili, anche le più controverse. Da uno degli attori di quel dramma ho ricevuto la seguente replica. “Mughini è un caso di sprezzo del ridicolo. Una somatizzazione del disprezzo del ridicolo”. Che cosa replicare a una tale mascalzonata intellettuale, a una tale volgarità, a un tale guappetto che ha studiato alla Normale? Niente. Per rispetto a voi che comprate questo giornale.

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