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Benvenuti al Grand Hotel Scalfari, splendida vista sul secolo di carta

Giampiero Mughini

Il giornalista-editore, Repubblica e la sua storia. Un’autobiografia

Una nota giornalista che era venuta a visitare la mia biblioteca, ossia la cosa della mia vita che più mi marchia, ne scrisse poi come “una biblioteca di destra” dandone come riprova il fatto che avessi 70-80 libri di Filippo Tommaso Marinetti – il padre di quel futurismo italiano notoriamente orientato verso il fascismo – e solo 6-7 libri di Eugenio Scalfari, il fondatore e direttore di Repubblica e dunque del quotidiano che negli ultimi 45 anni ha fatto in Italia da “casa della sinistra”.

  

Sorrisi di quel giudizio strampalato, a cominciare dal fatto che di Scalfari avevo sì soltanto sette libri ma che se avessi dovuto riporre su una mensola i 2.000 suoi articoli che avevo letto in 45 anni filati prima sull’Espresso e poi su Repubblica, lo spazio che conteneva gli 80 libri di Marinetti non sarebbe stato sufficiente. Voglio dire che gli articoli di quello che io reputo il più grande giornalista italiano del Novecento sono una materia più preziosa e decisiva che non i suoi libri? Detto garbatamente lo dico, per poi subito aggiungere che mi sono precipitato a comprare su Internet un suo ottavo libro, il Grand Hotel Scalfari appena pubblicato da Marsilio, questo superbo ragguaglio autobiografico del secolo di carta che Scalfari ha confidato e consegnato alle penne collaudatissime di Antonio Gnoli e Francesco Merlo. È la voce e la memoria del più grande giornalista/editore del tempo in cui i giornali di carta vendevano in Italia sei milioni di copie, tre volte quello che vendono oggi; del giornalista che per primo ci ha raccontato le vicende dell’economia italiana e dei suoi protagonisti alla maniera di un romanzo da gustare e da delibare; del direttore che s’è inventato un quotidiano il cui format ha stravolto la storia dell’editoria guadagnandosi il primato di quotidiano più venduto d’Italia almeno sino al giorno in cui lo sopravanzò il Corriere della Sera di Paolo Mieli (uno che all’Espresso era stato in un certo modo allievo di Scalfari, e anche se “Paolino” è stato soprattutto un allievo di sé stesso).

  

Di più. Repubblica non è stato soltanto un giornale: per chi lo acquistava era un vademecum, una carta d’identità, una medaglia al valor civile da affiggere alla giacca, un “potere forte” come pochi altri della Prima e della Seconda Repubblica e ne potreste chiedere conto e ragione a Eugenio Cefis, tanto per dire uno che pure non scherzava quanto a potenza di fuoco. Un giornale/corazzata, un giornale/partito, un giornale che se non faceva il tuo nome tu eri morto nel mondo della cultura e delle idee. Una volta che a cena di amici incontrai un poeta e scrittore molto noto e che non avevo mai incontrato prima, lui mi chiese che lavoro facessi nella vita. Mi pare fosse il mio amico Francesco De Gregori a dirgli che facevo il suo stesso lavoro, scrivevo articoli e libri. Al che quello si scusò con me: “Sai, io leggo soltanto Repubblica”. Al tempo in cui Repubblica sfiorava le 600 mila copie vendute, una delle sue lettrici fedelissime era mia madre. Se per caso un giorno Repubblica non usciva per l’una o l’altra ragione, lei non comprava nessun altro quotidiano. Era divenuta una comunista molto integrale e ostinata. Quando nel 1987 uscì il mio Compagni addio, lei ne lesse poche pagine poi lo mise da parte delusa.

 

Ne sta parlando uno che nel suo piccolo piccolo non ha avuto con Scalfari (da me sempre ammiratissimo) i rapporti i più facili possibili. Al tempo in cui Repubblica irruppe nel mercato editoriale, io ero di casa nella redazione del Mondo operaio che stava apprestando le artiglierie del revisionismo socialista e dunque della polemica anticomunista da sinistra che ebbe in Bettino Craxi il suo più plateale esponente politico. Laddove proprio in quel momento Scalfari stava avvicinandosi a passo di corsa verso l’italocomunismo alla maniera e nello stile morale di Enrico Berlinguer (lo scrive Scalfari nel suo libro che a quel punto e per la prima volta nella sua vita votò Pci). La traiettoria del quotidiano da lui fondato è da questo punto di vista esemplare. Alla presentazione del giornale in un’auletta di via della Mercede a Roma Scalfari lo aveva annunciato come un giornale di ceppo socialista. I primi due anni di vita di Repubblica furono stentati, con una vendita media (70 mila copie) nettamente inferiore a quello che era stato preventivato come il suo minimo vitale, una vendita media tra le 120 e le 130 mila copie. Il “caso Moro”, e dunque il pieno appoggio di Scalfari alla linea della “fermezza” cara al Pci berlingueriano segnò il punto di volta. Il quotidiano da lui diretto divenne oro colato per l’elettore comunista medio. Era quello il terreno fecondo per aumentare le copie vendute, un destriero che Scalfari cavalcò alla grande. In poco tempo le vendite di Repubblica quadruplicarono. Quando lui scrive nel suo libro di essere “fiero” di aver polemizzato con Leonardo Sciascia, temo si riferisca al bellissimo Affaire Moro in cui Sciascia lamentava che non si fosse tentato di trovare una strada a riscattare la vita di Moro. Nella redazione di Mondo operaio fioccavano ahimè le battute contro uno Scalfari divenuto un nemico mortale del Psi craxiano. Senza pronunciare il mio nome, una volta il direttore di Repubblica mi definì “un cialtrone” e questo perché avevo scritto da qualche parte che lui era divenuto il giornalista più ricco d’Europa. Solo che il mio voleva essere un complimento a un giornalista che aveva saputo essere l’editore e l’imprenditore di sé stesso, uno che aveva stravinto la sfida del mercato e assicurato piena riuscita a un quotidiano nuovo e originale.

 

E dire che in una delle pagine più belle del Grand Hotel Scalfari, lui fa un ritratto di sé stesso che corrisponde perfettamente all’immagine che io mi facevo di lui. Lì dove nello scrivere del suo rapporto di una vita con Italo Calvino dice che Calvino era un “saturnino”, un uomo affetto da malinconia, che cercava di essere un “mercuriale”, un uomo in sintonia col mondo reale. Laddove di sé stesso Scalfari dice che è stato un “mercuriale” che di tanto in tanto era venato da lampi di malinconia. Un “mercuriale”, ossia uno che ha saputo indirizzare passioni e interessi, moti della mente e riuscite editoriali. Appunto.

  

È un libro denso dove Scalfari non si nasconde. Non lo fa quando racconta quella sua storia personale che ha fatto da canovaccio di un tempo lungo della sua vita, l’essere stato legato per tanti anni a due donne contemporaneamente, sua moglie Simonetta e Serena Rossetti, quella che diventerà ed è la sua seconda moglie. Sono bellissimi i ritratti che lui dedica ad alcuni dei suoi compagni di avventura, Bernardo Valli su tutti, un giornalista la cui sovrumana eccellenza professionale è menzionata pubblicamente meno volte di quanto meriterebbe. Né Scalfari nasconde tutto ciò che fa da peso e da ingombro all’essere arrivato all’età di 95 anni, all’angoscia di sapere che il capolinea non è talmente lontano e seppure quella vicinanza lui la affronti con una sorta di eroismo professionale.

  

Un bellissimo libro, caro Scalfari. E da come ne sto parlando ammetterà che lei si sbagliava la volta che mi scrisse che i nostri rapporti erano difficili non perché lei ce l’avesse con me, ma perché io ce l’avevo con lei.

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