Indro Montanelli nel suo ufficio al Corriere della Sera, 1 marzo 1950 (foto LaPresse)

Montanelli sapeva che solo chi si infanga può attraversare la palude del tempo

Giampiero Mughini

Lo scandalo letterario e morale di un Meridiano mancante

E’ singolare che quel monumentino editoriale che è in Italia la pubblicazione di un Meridiano, dov’è concentrato il meglio e il più di un autore comunque rilevante, sia stato consacrato sì a Eugenio Scalfari e mai a Indro Montanelli. Beninteso nulla di più superfluo che la domanda se l’uno o l’altro sia stato il più grande giornalista italiano del secolo scorso. Epperò se di un giornalista pregiamo l’avere dato del tu al proprio tempo, l’esserne stato via via il testimone migliore e irrinunciabile, allora non c’è paragone possibile tra Montanelli e chiunque altro. Allora diventa uno scandalo letterario e morale che non esista un Meridiano a lui dedicato.

 

La sua è una storia professionale e intellettuale da brividi. Di solito la gavetta di un giornalista debuttante consisteva nel sedersi a un tavolo di redazione e mettere un titolo alle “brevi”, le notizie di un incidente stradale o ferroviario. Dino Buzzati ma anche un fuoriclasse come Giampaolo Pansa passarono un bel po’ di anni a fare quei titoli. Sapete qual è stata la gavetta del venticinquenne Indro Montanelli da Fucecchio (dov’era nato il 22 aprile 1909)? Quella di andare in guerra da volontario in Abissinia a fare da testimone di un’impresa sciagurata della politica mussoliniana. Solo che in quell’impresa il venticinquenne Montanelli ci credeva. E difatti ancora dieci anni dopo, scriveva di non “arrossirne” affatto dell’aver combattuto una guerra coloniale, una di quelle guerre in cui gli europei andavano, prendevano, uccidevano, costruivano: “Non so dare ragione a quegli italiani che pretendono che ne arrossisca. Non so dare ragione a quegli inglesi che pretendono che tutti gli italiani debbano arrossirne. E non chiedo scusa a nessuno d’essere un volontario d’Africa. Ciò che mi attirò in quella guerra furono varie cose: prima di tutto l’avventura, poi il desiderio di scriverne un libro, poi la necessità di essere coerente nel mio nazionalismo, e infine la sincera volontà di contribuire alla fondazione di un impero. In quei tempi ero pieno di Kipling. La parola ‘impero’ mi piaceva. E questo impero lo vedevo popolato di una bella folla di avventurieri, una ripetizione del Far West. Non vedevo la mancanza di proporzione fra questo sogno e la realtà italiana. Avevo venticinque anni, ed ero cieco e felice”.

 

Il libro nato da quell’esperienza (dove Montanelli fu ferito in combattimento) e pubblicato dalla casa editrice Panorama nel 1936, “XX Battaglione Eritreo”, vendette qualcosa di non lontano da 30 mila copie. Era il libro di uno che spasimava dal voler fare della letteratura. Il suo gioiello è la scena, come in una pièce teatrale, in cui un gruppo di ufficiali italiani si raduna in una tenda alla vigilia di una giornata che si preannuncia difficilissima dal punto di vista militare e dove morranno due di loro. Ugo Ojetti lo apprezzò molto sul Corriere della Sera. E a proposito del dare del tu al proprio tempo, ecco che nel 1937 Montanelli in qualità di corrispondente del quotidiano romano Il Messaggero parte per la Spagna dilaniata dalla guerra civile. E’ un cittadino di un paese apertamente in guerra contro i repubblicani. Lo mandano a “coprire” la battaglia di Santander, quella dove i franchisti e i loro alleati cercano la rivincita dopo averle buscate a Guadalajara. Ebbene Montanelli scrive un articolo (pubblicato sull’Omnibus di Leo Longanesi del 7 agosto 1937) dove non c’è una riga o un aggettivo di sprezzo per i repubblicani, e dove non c’è la benché minima esaltazione delle gesta dei legionari italiani. Non è che Montanelli racconti quanto arditamente vanno all’assalto e bensì le loro lunghe passeggiate sotto il sole. Dirà più tardi, nell’autobiografico “Qui non riposano”, che ebbe subito simpatia per quanti avevano lasciato le loro biblioteche ed erano venuti a combattere per la causa repubblicana senza prima avere mai maneggiato un fucile. Fatto è che in ragione di quell’articolo poco apologetico nei confronti delle truppe italiane, Benito Mussolini lo fa cancellare dall’albo dei giornalisti e gli fa togliere la tessera di iscrizione al Pnf. Si mette di mezzo Ojetti che nell’agosto 1938 promuove il nome di Montanelli presso Aldo Borelli, direttore del Corriere della Sera, il quale non potendo assumerlo perché non ha la tessera del partito nomina Montanelli “redattore viaggiante” del quotidiano milanese. Allo scoppio della guerra il trentenne Montanelli è in Polonia e dunque la apprende sul posto “la lezione polacca”, ossia che la Francia e l’Inghilterra che hanno dichiarato guerra alla Germania non muoveranno neppure un dito mignolo per aiutare una Polonia che viene travolta in poche settimane. Così come quando i tedeschi invadono la Norvegia nell’aprile 1940, francesi e inglesi muoveranno poco più del dito mignolo a fare il solletico ai nazi che in quel momento apparivano invincibili.

 

Ma prima c’è stata un’esperienza che per Montanelli è stata fondativa, tanto che negli ambienti giornalistici europei lui passava come “quello della Finlandia”. E’ successo che lui, divenuto un inviato del Corriere della Sera, viene destinato a raccontare “i cento giorni” della guerra che a fine novembre del 1939 un’Urss forte di 180 milioni di abitanti scatena contro una Finlandia che di abitanti ne ha tre milioni e mezzo. E’ una guerra su cui saranno puntati gli occhi dei giornalisti di tutto il mondo perché mostrerà qual è l’effettiva potenza militare dell’Urss, una nazione enigma di cui pochi nel 1939 sanno qualcosa. I russi scaraventano in campo 540 mila uomini, 2.485 carri armati e 2.340 aerei da combattimento. Otto o dieci volte più di quel che sono e di quel che hanno in campo i finlandesi. Solo che i finlandesi sono padroni del terreno particolarissimo, distese di neve e di ghiaccio dove alla notte il termometro scende a 40 gradi sottozero e oltre e dov’è buio venti ore al giorno. Quel che i russi sanno fare meglio è attaccare in massa, il che in quelle condizioni è suicida. Le grosse formazioni militari hanno una mobilità scarsissima e laddove i finlandesi si avvalgono di pattuglie fatte di campioni olimpionici di sci che hanno tempi fulminei di intervento alle spalle e ai fianchi di chi sta attaccando. E difatti i finlandesi resistono fino all’impossibile infliggendo perdite gravissime ai russi. E finché la sproporzione delle forze in campo renderebbe il prosieguo della guerra solo “una lenta distruzione” della Finlandia. Il 13 marzo 1940 il governo finlandese accetta le condizioni imposte dai russi che comportano la perdita di un decimo del territorio nazionale e l’esodo forzato di un settimo della popolazione. “Curva la testa, con le guance rigate di lacrime questi finlandesi che non vidi commossi il primo giorno di guerra, ascoltarono sull’attenti l’inno della patria mutilata. E’ questo l’animo con cui la Finlandia ha accolto la pace, dopo cento giorni di lotta terminata contro un nemico quarantacinque volte più forte”. E anche se lo stesso Montanelli da quegli avvenimenti non ne trae la lezione che la debolezza militare dell’Urss è endemica: “La guerra in Finlandia non ha fornito elementi di prova sufficienti per una valutazione esatta delle armate di Stalin. Essa ha agito su un campo di azione inappropriato e non ha avuto né il tempo né il modo di spiegare”. Quali di questi criteri di giudizio furono decisivi nel convincere Hitler e il suo Stato maggiore ad avventarsi contro l’Urss nel giugno 1941? Di certo il libro a firma Montanelli “I cento giorni della Finlandia”, che Livio Garzanti pubblica nel giugno 1940, farebbe il vanto di qualsiasi grande inviato di guerra del Novecento.

 

Né Montanelli ha smesso di dare del tu al secolo. Dopo la caduta di Mussolini comincia a scrivere articoli antifascisti. Nell’Italia occupata dai tedeschi, era in procinto di aderire al gruppo clandestino Giustizia e libertà quando lui e sua moglie nel febbraio 1944 vengono arrestati dalle SS. Condannato a morte la sfanga per miracolo. I suoi compagni di detenzione – socialisti, comunisti, cattolici – li vede portati uno dopo l’altro innanzi al plotone di esecuzione. Il bilancio della sua vita lo fa attraverso le parole del personaggio Alessandro Bianchi nel bellissimo “Qui non riposano” pubblicato nell’agosto del 1945: “Noi non siamo puri. Anzi, come abbiamo passato una metà della nostra vita a difenderci dalle cornate dei puri fascisti, così passeremo l’altra metà a difenderci dalle cornate dei puri antifascisti. Non siamo puri, specialmente noi giornalisti e scrittori di questo tempo, però in questo tempo abbiamo visto e vissuto. E questo tempo è stato. Brutto, ma è stato. E bisogna esserci passati in mezzo, per capirne le conseguenze. Per attraversare una palude, bisogna infangarsi. Ma solo chi si infanga, attraversa la palude”.