(foto LaPresse)

Elogio della solitudine, mia sola risorsa tra i cataclismi della società italiana

Giampiero Mughini

Ma davvero la quarantena è un’amputazione grave dell’anima?

Quanto alle angustie della quarantena, dell’essere costretti a restare in casa giorno dopo giorno e per un tempo che sarà ancora lungo, è fin troppo ovvio che la cosa è amara per famigliole che hanno a disposizione pochi metri quadri e magari un paio di figli piccoli che razzolano per casa, il tutto condito da mezzi economici bastanti sì e no alla sopravvivenza. Epperò non mi pare che sia la loro voce a dominare sui mass-media quanto alla testimonianza dei giorni che stiamo vivendo e del loro particolare sapore.

 

Dove dominano invece i molti – tra vip, scrittori e personaggi vari – i quali stanno raccontando il loro rapporto con la solitudine coatta come un rapporto difficile, come di qualcosa di cui hanno paura, come una situazione nella quale ti viene a mancare qualcosa di vitale, di necessarissimo. Ti viene a mancare, su questo non v’è dubbio, lo scambio assiduo con gli altri, la loro presenza, i comuni cerimoniali del vivere, la condivisione con gli altri non solo di quel che sei e fai ma anche dei particolari i più infinitesimali delle rispettive vite, per quanto grande sia lo sfogatoio rappresentato dai social dove smaniano quanti non vedono l’ora di trasmettere le immagini della pietanza che stanno gustando o del paesaggio che stanno ammirando, e come se a un comune mortale quale il sottoscritto gliene potesse importare un beato cazzo e della pietanza e del paesaggio. E dunque da questi personaggi scaturisce il racconto della quarantena al modo di un’amputazione grave, un racconto al quale vorrei contrapporre l’elogio più aperto della solitudine, la dea della mia vita, il lusso della mia vita.

 

Ma davvero d’essere rinchiusi a casa è un’amputazione grave? Ma davvero la solitudine è un male che morde l’anima e riduce la qualità della vita? Qual è l’entità del termine “solitudine” in un universo domestico com’è quello in cui vive la gran parte degli italiani: un universo popolato da un computer e relativa connessione internet, da uno smartphone con cui andare a frugare in ogni angolo del mondo, da un impianto stereo col quale ascoltare la musica di tutti i tempi meglio che a un concerto dal vivo, dall’accesso a una rigogliosa comunicazione in streaming dove sono imperdibili serie a caterve che ti forniscono ogni bene in fatto di fiction e di documentazione storica. Sto esagerando? Qualcuno di voi che mi state leggendo non ha a disposizione questi strumenti sul divano di casa sua?

 

Ma torniamo all’elogio della solitudine di cui ho detto che è stato il lusso della mia vita. Tutto ciò che conta della mia identità è stato costruito nella solitudine, nel fatto di non avere avuto chissà quali condivisioni assidue, nel fatto di non frequentare luoghi affollati da adepti della mia stessa religione, nel fatto di non avere mai partecipato a cortei lunghi così e forti di uno o due slogan purché aggressivi. Che cosa non mi sono perso nel non avere mai frequentato i salotti degli anni Novanta dove il dir peste e corna di Silvio Berlusconi era talmente chic. “Sì, lo sappiamo come lei la pensa”, mi disse una volta sprezzantemente nella sua bellissima galleria d’arte a via Capo le Case Angelica Savinio, figlia del da me adorato Alberto Savinio. E voleva dire che in effetti delle querimonie contro Berlusconi me ne strafottevo altamente, e non perché fossi uno dei tantissimi a libro paga del geniale imprenditore milanese, ma perché con quelle querimonie mi ci pulivo le scarpe da quanto erano ripetitive e banali e fanatizzanti.

 

E’ stata la solitudine a farmi prendere la decisione più importante della mia vita. Non ero lontano dai trent’anni, ancora uno senza arte né parte. Tutti i miei compagni di generazione della Catania degli anni Sessanta veleggiavano verso i lidi grotteschi del peggiore crepuscolarismo italiano, quello marxista-leninista. Se volevo sopravvivere umanamente e professionalmente dovevo scappare via da Catania, a tutti i costi. Il 5 gennaio 1970 montai su un vagone di seconda classe diretto a Roma. Avevo in tasca 6 mila lire, a Roma non avrei trovato un appiglio, niente di più di qualcuno che mi ospitasse per qualche giorno. Cominciai a scrivere per il settimanale l’Astrolabio, dove mi pagavano 25 mila lire ad articolo. Riuscivo a scriverne tre al mese, il che faceva 75 mila lire di reddito mensile. Non so come ci campai, e finché a via di Torre Argentina non ci convocò uno dei padri della Resistenza italiana e direttore/padrone dell’Astrolabio, Ferruccio Parri (nome di battaglia “Maurizio” ), il quale ci licenziò – e aveva perfettamente ragione – perché eravamo tutti di una sinistra confusa e disordinata. Pochi mesi dopo montai le scale di un edificio dove al secondo piano ci aspettava un notaio che ci fece firmare l’atto di nascita della cooperativa che avrebbe dato vita al quotidiano il manifesto. Eccome se c’erano personaggi di gran calibro in quell’impresa, da Luigi Pintor ad Aldo Natoli. Nel febbraio 1971 presi il primo stipendio, 150 mila lire. Capii ben presto che quei valorosi amici avevano tutt’altre idee dalle mie, volevano fare nientemeno un quotidiano che fungesse da propulsore di un partito comunista ben più a sinistra del partito che aveva sede a via delle Botteghe Oscure. Mi dimisi nei primi giorni di aprile del 1971. 150 mila lire al mese, addio. Ma più che questo, c’era che a questo punto avevo desertificato il terreno generazionale su cui avevo vissuto trent’anni della mia vita. Per due anni il telefono di casa mia non squillò mai. Mai. Quanto al campare, una sera telefonai rosso di vergogna a casa di Luigi e Rosaria Covatta, amici cari. Chiesi loro che mi invitassero a cena, perché non avevo da mettere in tavola nemmeno un tozzo di pane. Altro che quarantena sul proprio divano a guardare la tv o Netflix.

 

Nel febbraio 1973, al momento della morte di mio padre (il quale beninteso non aveva approvato la mia partenza e dunque non mi aiutava economicamente se non quando ero allo stremo), pensai che la mia sopravvivenza a Roma fosse divenuta impossibile. Da un momento all’altro sarei tornato a Catania, dove mi aspettavano il tetto e il cibo della casa di mia madre. Finché, nell’aprile o nel maggio del 1973, non mi chiamò un vecchio amico e valorosissimo giornalista, Aniello Coppola, il più liberal dei comunisti italiani. Fu lui a farmi fare una lettera di presentazioni al direttore del Paese Sera da Gian Carlo Pajetta (che non conoscevo), e questo perché la lettera di un Pietro Ingrao o di un Giorgio Amendola (che invece conoscevo) non avrebbero avuto la stessa efficacia, perché troppo di sinistra l’uno e troppo di destra l’altro. Il direttore del Paese Sera mi squadrò un attimo a capire di che pasta fossi fatto e mi deviò verso il capo della terza pagina. Il quale mi invitò a scrivere qualcosa a mia scelta. Scrissi di un ragazzo romano che praticava lo sport e che lo organizzava con grande passione. Era uno che correva i 400 metri dell’atletica leggera. Io da ragazzo li avevo corsi e sapevo in quella gara quale fosse la solitudine di chi sta correndo i secondi 200 metri, quando ti senti scoppiare e ogni metro da percorrere in più diventa un supplizio. In una gara il cuore del ragazzo romano scoppiò davvero e lui morì. L’editore del Paese Sera mi telefonò a chiedermi di andare da lui. Mi disse che il suo quotidiano non lo leggeva mai, che il mio articolo lo aveva letto e che gli era piaciuto molto. Mi offrì una collaborazione giornalistica al prezzo di 150 mila lire mensili. Avevo già imparato a fare quello che ho fatto per tutto il mio iter professionale: contrattare il prezzo (non l’ho contrattato quando Claudio Cerasa mi ha chiamato a scrivere nuovamente sul Foglio). Chiesi e ottenni 200 mila lire.

 

A fine 1975 entrai nel giornalismo professionista. Sopravvennero nuove mie dimissioni, nuove solitudini, e nuovi cataclismi nella società italiana. Ad esempio quel tempo tra gli anni Settanta e gli Ottanta di una quarantena morale, il tempo in cui non c’era mattina in cui non arrivasse la notizia che i criminali dell’estrema sinistra avevano abbattuto un magistrato o un giornalista scelti tra i migliori. Ricordo il volto di Lamberto Sechi, mio direttore all’Europeo, quando mi disse che avevano appena ucciso Walter Tobagi, un mio carissimo amico. Non era esattamente una pandemia, non era un tempo in cui medici e infermieri si agitassero concitati da un letto di agonia all’altro, ma non era uno scherzo.

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