La ritirata nel gelo dell'inverno russo, dove più delle pallottole poté il gelo

Giampiero Mughini

Leggere per la prima volta "Centomila gavette di ghiaccio"

Erano decenni che me lo portavo appresso come un senso di colpa, il fatto di non avere mai letto “Centomila gavette di ghiaccio”, il romanzo autobiografico di Giulio Bedeschi (nato in provincia di Vicenza nel 1915) pubblicato da Mursia in prima edizione nel 1963 dopo essere stato rifiutato da 16 editori. Il romanzo che narra ora per ora la tragica odissea del Corpo d’armata italiano nella Russia della Seconda guerra mondiale, e che nel 2011 aveva venduto quattro milioni e mezzo di copie nel mondo. Poi è successo che l’anno scorso ho incontrato casualmente la nipote di Bedeschi, la figlia di suo fratello Beppe, la quale me ne ha regalato e dedicato una copia della IX edizione.

 

Per un tempo il libro è rimasto prigioniero in qualcuno dei mucchi di carta che costellano il pavimento del mio studio. D’un tratto è riapparso, e ho finalmente cominciato a leggere il superbo racconto di un soldato italiano che tra dicembre e gennaio del 1943 aveva vissuto l’inferno su questa terra. Quando i ventimila alpini della leggendaria divisione Julia, cui Bedeschi (nel romanzo il suo nome è Italo Serri) si era arruolato volontario da sottotenente medico, cominciano la loro disperata ritirata a evitare di essere intrappolati dai russi. I quali il 17 dicembre 1942 avevano sfondato alla sinistra e alla destra dei 300 mila uomini della VI Armata tedesca appostata sulle rovine di Stalingrado, e che a metà gennaio 1943 avevano accentuato ulteriormente la loro pressione su quel che rimaneva dell’ARMIR, ossia il Corpo d’armata alpino e il XXIV Corpo d’armata tedesco. Di tutte le disfatte e le tragedie vissute dai soldati italiani nella Seconda guerra mondiale, questa è la più terrificante. Muore in quel dannato gennaio 1943 tra gli altri il sottotenente della Julia Scipio Secondo Slataper, figlio dello scrittore triestino Scipio Slataper caduto nei combattimenti della Prima guerra mondiale, alla cui memoria è intestata una Medaglia d’oro al valor militare.

 

L’inferno sulla terra, ho detto. Per qualcosa come oltre centomila uomini in fuga verso ovest, un corteo lungo fino a trenta chilometri, i settantamila alpini della divisione Julia, della Cuneense, della Tridentina, un mucchio di tedeschi rimasti separati dal grosso delle forze nazi, trentamila ungheresi che non hanno più un’arma addosso da quanto se la sono data a gambe alla velocità del lampo. L’inferno in terra per tutti loro, a cominciare dalle proibitive condizioni climatiche dell’inverno russo, quaranta e passa gradi sottozero alla notte, che pure è il momento migliore per correre via “dai dispiaceri” senza fungere da bersaglio ai russi. Il gelo ne uccide più delle pallottole e senza dire che gli alpini della Julia in fuga erano paurosamente a corto di cibo. Per settimane e settimane combattono forti ciascuno di una scatoletta di carne e di un paio di gallette al giorno. Le loro gavette di che bere e mangiare s’erano fatte un blocco di ghiaccio impossibile da avvicinare alle labbra, da cui il titolo del libro. C’è chi durante la ritirata si sbarazza persino del moschetto, e perché non ha più pallottole da usare e perché financo il peso di un moschetto era divenuto tale da fiaccare un uomo.

 

Ridotti in queste condizioni e pur di sfuggire all’accerchiamento dei russi c’erano da percorrere ininterrottamente almeno 70-80 chilometri di marcia a piedi, e chi non ce la faceva restava accartocciato sulla neve a morire di gelo. A parte i muli che trascinavano le slitte su cui erano stati caricati i pezzi d’artiglieria, le scorte di munizioni e i feriti, altri mezzi di trasporto non ce n’erano. Talvolta i muli si abbattevano d’improvviso, stecchiti dal freddo e dalla fame. L’avvio della ritirata della Julia, quella che in un suo libro bello e prezioso (“Tutti i vivi all’assalto”) Alfio Caruso chiama “un’avanzata all’indietro”, Bedeschi la racconta così: “Nelle ore più fonde della notte la marcia divenne agonia; la fame rabbiosa latrava nel petto senza che gli uomini potessero saziarla, poiché era assurdo di poter mordere la galletta di pietra o esporre le mani al gelo; il sonno e la stanchezza intorpidivano la mente e i muscoli, richiedendo alla volontà un disperato sforzo per reggere e proseguire; e sopra ogni cosa la prolungata esposizione agli estremi rigori del freddo moltiplicava le sofferenze, riunendole in una sola sensazione che sussurrava agli orecchi dei soldati allucinanti presagi di prossima, inevitabile fine”.

 

Finché il 22 gennaio 1943 i soldati italiani non sbattono contro la prima delle linee con cui i russi stanno tentando di chiudere la sacca. Dopo scontri furibondi e al prezzo di gravi perdite, gli alpini passano e ancora e ancora continuano a marciare sulla neve alta verso ovest. Lasciamo la parola a Bedeschi: “Follia, pura, irreale, scatenata follia erano diventate le voci, la neve, il pianto, la steppa, il vento, il passo, la notte, il dolore, il cielo, la colonna, il minuto, tutta quella abominevole terrificante vita che vacillava e minacciava di spegnersi, tra un inesplicabile scintillio di faville ricadenti sulla groppa dei muli”. E qui la smetto di citare Bedeschi perché altrimenti dovrei citare un paio di centinaia di pagine dove lui narra a meraviglia una storia di uomini divenuta apocalisse, freddo e fame e morte e alpini che a un certo punto si fermano, estraggono la pistola e si sparano un colpo in bocca.

 

Il 30 gennaio le truppe italiane erano finalmente fuori dalla sacca. In 45 giorni di marcia sulla neve alta avevano percorso 700 chilometri e affrontato 11 combattimenti. Della tredicesima batteria del reggimento della Julia di cui faceva parte Bedeschi, arrivata nel 1942 in Russia forte di 230 uomini, erano sopravvissuti in quattordici; dei loro 180 muli ne erano ancora vivi 13. Dei ventimila uomini della Julia ne erano usciti dalla sacca 2.300. Quanto al sottotenente medico Bedeschi, dopo l’8 settembre lui si arruolò nelle truppe della Repubblica Sociale e fu un comandante di brigata ahimé attivo nella lotta ai partigiani. Di sé soleva dire che era un medico, un alpino, uno scrittore. No, era stato anche un fascista convinto e tale restò pur dopo l’apocalisse vissuta nella steppa russa. Che fosse stato Benito Mussolini a voler scaraventare gli alpini contro l’inverno russo non era per lui una dirimente.

 

Ma c’è un personaggio del suo romanzo che merita un poscritto, ossia il ventottenne capitano della batteria alpina di cui faceva parte Bedeschi, quello che nel romanzo ha nome Ugo Reitani. Nato a Catania, il suo vero nome era Ugo D’Amico, il secondo dei quattro figli di uno stimatissimo professore di matematica del Liceo Spedalieri, il liceo classico di Catania che nei miei vent’anni fungeva da tempio della cultura laica. Reitano era il cognome della madre. Da come Bedeschi lo racconta, era un ufficiale indomito che al momento dell’apocalisse tenne botta come meglio non si sarebbe potuto. Un eroe? Sì. Ebbene il Reitani in carne e ossa, ossia il figlio del professor D’Amico, dopo l’8 settembre scelse di stare dalla parte dei tedeschi e fu uno di quel centinaio o forse più di italiani che tornarono in Urss a combattere nelle loro fila. Un po' perché non voleva combattere in Italia contro altri italiani, un po' perché forse l’Urss gli era rimasta nel cuore. Di certo anche lui era rimasto fascista. Un personaggio talmente suggestivo che due registi italiani _ Andrea Brugnera e Francesco Bolo Rossini _ qualche anno fa lo hanno messo al centro di una loro pièce teatrale dedicata agli uomini che combatterono accanto a Bedeschi.

 

Vivessi ancora a Catania, farei di tutto per cercare quel che ne è oggi della famiglia D’Amico, tenendo presente che un fratello minore di Ugo, il capitano pilota di caccia Italo Benedetto, s’era a sua volta guadagnato un subisso di medaglie al valor militare fino alla Medaglia d’oro alla memoria per essere stato abbattuto a 26 anni sul cielo di Malta il 27 maggio 1943, durante gli strenui duelli aerei che precedettero lo sbarco alleato in Sicilia. Abitassi ancora a Catania cercherei di saperne di più di Ugo D’Amico, di questo eroico soldato che così drammaticamente non riuscì a districare il sé stesso italiano dal sé stesso fascista. Il 28 dicembre 1943 il capitano Ugo D’Amico cadde in combattimento nei Carpazi. Era morto nel cuore dell’inverno e della steppa russa, lui che era solito vantare ai suoi commilitoni il fatto che in Sicilia i mandorli fiorissero già a metà marzo. Tanto i suoi genitori che i suoi due fratelli sopravvissuti hanno cercato invano di sapere dove esattamente era caduto e dove riposassero le sue spoglie.