(foto LaPresse)

Il mondo segreto degli chef, dove il saper maneggiare cibo produce potere

Giampiero Mughini

Quello di Anthony Bourdain non è il solito libro di ricette

In un libro, Kitchen Confidential del 2000, che ha creato non dico un genere editoriale ma un intero format massmediatico – le tonnellate di ore televisive dedicate al bel cucinare e al buon cibarsi –, lo chef Anthony Bourdain (nato a New York nel 1956, morto suicida l’8 giugno 2018) racconta che la sua iniziazione al mondo del cibo avvenne quando mangiò la prima ostrica della sua vita e aveva dieci anni o poco più. Quello di tastare, assaporare, gustare era il terreno giusto per un “sensualista” com’era e sarà lui tutta la vita. L’esperienza della prima ostrica mai gustata, scrive, resterà per lui più intensa che non quella del giorno in cui perse la verginità.

 

Ancor prima una scossa che segnerà per sempre il suo destino l’aveva avuta a nove anni, nel 1966, quando i suoi genitori americani (padre cattolico, madre ebrea) venuti in vacanza in Europa arrivarono al centro di Vienna, parcheggiarono l’auto ed entrarono in un celeberrimo ristorante di cucina francese dal nome La Pyramide. Solo che Anthony e suo fratello li lasciarono chiusi in auto per la bellezza di tre ore, reputandoli evidentemente immaturi per il cerimoniale del cibo. Bourdain scrive che capì in quel momento quanto il cibo giocasse un ruolo d’eccellenza nella giornata di tutti noi. Di più: gli venne da quella segregazione coatta la sua ansia irresistibile a fare e cercare qualcosa di più nella vita, a non stare fermo, a non essere mai appagato. Un’ansia che lo soverchierà quel giorno di giugno del 2018, nella stanza di un albergo dalle parti di Strasburgo, mentre si apprestava a girare l’ultima puntata di una delle trasmissioni televisive dedicate al cibo che ne avevano fatto una star internazionale, quando si impiccò alla cintura dell’accappatoio. La stanza dove lo trovò cadavere lo chef francese e suo amico Éric Ripert, coautore della serie televisiva che stavano apprestando. E noi non scenderemo alla bassezza di cercare la ragione di quel gesto – i media spigolarono su un’eventuale falla del suo rapporto sentimentale con Asia Argento –, perché è da idioti cercare di spiegare razionalmente il motivo per cui uno decide di rinunciare alla vita. Se lo fa è affar suo, perché s’è sfrantumata la sua personalissima architettura sentimentale ed emotiva, e tu non devi metterci becco. Alla maniera di quegli idioti che credettero di trovare la spiegazione del suicidio di Primo Levi nel fatto che in Italia si stava diffondendo la letteratura “revisionista” sul fascismo italiano. Quasi quasi era colpa di Renzo De Felice se alla mattina di sabato 11 aprile 1987, a Torino, Levi si lanciò giù dalla tromba delle scale del palazzo di Corso Re Umberto 75, dov’era nato e aveva vissuto tutta la vita.

 

La copia del Kitchen Confidential in lingua inglese che avevo comprato all’indomani della morte dell’autore è nientemeno che una copia della quindicesima edizione. Non so valutare quanto la conoscenza dei libri di Bourdain, e del suo stesso personaggio, sia diffusa in Italia. Un suo romanzo, Un osso in gola, era stato pubblicato anni fa da Marsilio ed è adesso fuori catalogo. Se vai a frugare su ibs.it trovi, a parte l’edizione feltrinelliana di Kitchen Confidential, altri quattro o cinque libri di Bourdain pubblicati in lingua italiana. Tutti cloni del libro/capolavoro del 2000, il primo in cui il cuoco americano avesse scaraventato tutto di se stesso e della sua esperienza. Un libro incommensurabilmente diverso dal gioiello di Aldo Buzzi, L’uovo alla kok, di cui io sono solito tessere l’elogio almeno tre volte al giorno, tanti quanti sono i pasti. Due libri diversissimi scritti da due uomini lontanissimi l’uno dall’altro, l’uno (Buzzi) un intellettuale al cento per cento, l’altro (Bourdain) un “sensualista” al cento per cento.

 

E’ il Bourdain del Kitchen Confidential ad autodefinirsi al modo che ho detto e dunque a equiparare l’esperienza del cucinare e del gustare a un’esperienza erotica. Vivida è la descrizione dei suoi primi anni da aiutante di cucina in un ristorante americano di pesce dalle parti di Cape Cod. Il cibo, toccarlo con mano, tagliarlo a fette commisurate a puntino, prendere uno a uno gli intingoli, avvertire i differenti aromi del caldo e del freddo, quel pesce lì che lo devi trattare così e quel pesce là che lo devi trattare cosà. E tutt’attorno gli eroi di quel romanzo che è il cucinare, gli chefs, uomini che Bourdain descrive uno a uno, vestiti da pirati, la benda alla testa, l’aria spavalda, tatuatissimi, gente che parlava un curioso slang dove il dialetto locale era commisto a termini tratti dalla controcultura. Su tutti un cuoco di nome Howard Mitcham, lo chef il più reputato di Cape Cod, uno che la più parte del tempo era ubriaco e che lo capivi a fatica quando parlava. E’ lui l’autore di due libri da cui Bourdain dice di avere imparato e, quanto allo scrivere e quanto al cucinare, libri di cui scrive che senza avere nessuna pretesa erano zeppi di ricette, di fatti, di episodi esemplari e persino di illustrazioni atte alla bisogna. Da Mitcham Bourdain imparò che l’arte del cibo sta nel cucinare come se dovessi preparare un piatto che piaccia a te, da lui imparò l’amore del cibo in quanto tale, l’orgoglio di essere un cuoco. Da lui imparò che sapere maneggiare il cibo produce “potere”.

 

Consumati i suoi debutti, Bourdain si iscrive alla più importante scuola culinaria americana dove ottiene un diploma dopo due anni. E’ venuto il momento di andare in prima linea, cosa per la quale aveva guadagnato un po’ di esperienza sul campo, un vocabolario tecnico più ricco e una “mente criminale” che ne faceva un pericolo per sé e per gli altri: è quel che lui scrive di se stesso. Sì, perché la prima linea del cucinare ha le sue regole spietate. Bourdain racconta di un suo collega toscano (uno chef pluristellato) che mai e poi mai assumerebbe degli italiani nel suo ristorante, perché immancabilmente gli romperebbero i coglioni con l’obiettare a ogni occasione questo e quello. Lui preferisce di gran lunga gli ecuadoriani, gente che ci dà sotto e pedala. Allo stesso modo uno chef americano si guarda bene dallo scegliere i suoi collaboratori tra gli americani, magari superaddestrati tecnicamente, ma titolari di un ego troppo pronunziato e con i quali è difficile fare i conti quando hai 400/500 clienti a sera che aspettano di essere serviti. Il sogno americano, scrive Bourdain, è tale che se sei un ecuadoriano o un messicano o un salvadoregno che righi dritto ti pagano bene. Rigar dritto vuol dire apprestare al cliente esattamente la pietanza che lui è venuto a cercare nel tuo ristorante e non un suo abbellimento o una sua modifica innovatrice. In cucina, quando c’è da apprestare di che mangiare ai clienti che si sono seduti contemporaneamente a trenta o quaranta tavoli e che hanno ordinato cibi diversi e a diversi gradi di temperatura, i contrasti di opinione non sono augurabili e tanto più che in cucina girano tipi ai quali è andato qualcosa di storto nella vita (un grande chef amico di Bourdain dixit) e che per ogni dove sono muniti di coltelli affilatissimi.

 

E’ la cucina, bellezza, o meglio la sua realtà retrostante. Dove i cuochi sono in grandissima parte uomini, trattandosi di una prestazione professionale che sembrerebbe richiedere una sorta di energia virile. Anche se Bourdain si affretta a riferire di una sua cuoca, Sharon, che ancora al settimo mese di gravidanza faceva splendidamente la sua parte, oltre che trovare il tempo di consolare un cuoco che aveva un incarico importante ma che era afflitto da guai romantici. Un ultimo consiglio targato Bourdain per chi va in un ristorante newyorchese: se amate il pesce non ordinatelo mai a una cena del lunedì. Nove su dieci quel pesce sta nei frigoriferi del ristorante fin dalla mattina del giovedì precedente, e sono frigoriferi la cui porta dal giovedì al lunedì sera viene aperta ogni istante da cuochi che cercano i polli o i conigli o quant’altro da cucinare immediatamente. I giorni migliori per ordinare del pesce? Il martedì e il giovedì.

 

Mi fermo qui. Avrei potuto continuare a lungo con un libro che non ha nulla di piacione o di prevedibile, a differenza delle tonnellate di ore televisive dedicate al cucinare a cui siete abituati. La terra ti sia lieve, chef Anthony Bourdain.

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