(foto LaPresse)

Sciagurato è questo tempo che ha mandato in soffitta la ricchezza dei saggi

Giampiero Mughini

Regna la narrativa, ammesso che la distinzione abbia un senso

Alla mia età s’è fatta purtroppo irrimediabile la sproporzione tra l’infinito numero dei libri che avrei dovuto e voluto leggere e quelli che ho effettivamente letto, che pure non sono stati pochini. Quando entro nella mia consueta libreria romana di Largo Argentina (felice che da oggi sia riaperta), mi viene l’amaro in bocca dal fatto di comprare tre o quattro libri e non i 30 o 40 che pure mi attirano mostruosamente a solo leggerne il titolo, romanzi o saggi che siano. Ci lascio il cuore su quei libri non comprati, chissà quello che mi sto perdendo. E dunque quando ho avuto per le mani il Robinson di sabato scorso dov’erano dieci galantuomini (uomini e donne) che consigliavano ciascuno dieci libri imperdibili, mi sono precipitato a sfogliarlo. Figuriamoci se lettori collaudati quali Natalia Aspesi, Giancarlo De Cataldo, Michele Mari, Stefano Massini e altri non mi avrebbero certamente indicato qualche primizia da acciuffare al volo. E difatti la lettura dei loro suggerimenti non mi ha deluso nemmeno un poco. Primizie su primizie, la gran parte già deposte sugli scaffali delle mie librerie.

 

Ebbene il debito maggiore l’ho contratto con Enrico Deaglio, l’ex direttore del settimanale Lotta continua e di Reporter. Un debito grosso così. Come primissimo dei dieci libri da lui consigliati, Deaglio suggeriva il titolo di un romanzo di cui non sapevo nulla di nulla, La città dei ladri di David Benioff edito da Neri Pozza (l’ho subito acquistato via Amazon). Non sapevo nulla di nulla dello scrittore americano David Benioff, il cui vero nome è David Friedman, sceneggiatore di film importanti e nipote di emigrati ebrei russi. Ebbene nel romanzo Benioff è come se si facesse raccontare dal nonno la storia dell’assedio di Leningrado, l’assedio militare più lungo della storia dopo quello di Sarajevo. E mi fermo qui. Non senza avervi messo a verbale che quell’avvenimento è per me l’evento più atroce e più straordinario tra i tanti della Seconda guerra mondiale.

 

Trent’anni fa appariva imminente che Sergio Leone ne traesse un film. Ci lavorò a lungo. A una trasmissione televisiva condotta da Loretta Goggi e di cui ero ospite, a un certo punto una sciacquetta italiana (oggi l’avremmo chiama una influencer) si vantò di essere stata scritturata da Leone per quel film. Il regista di “Per un pugno di dollari” telefonò in diretta a dire che non era vero niente e che quella sciacquetta nemmeno la conosceva. Oggi il dibattito se sì o no la fanciulla fosse una promessa diva sarebbe durato a lungo sui social, con un greve accompagnamento di foto discinte della sciacquetta. Io ero tutto elettrizzato dall’idea di vederlo prima o poi il film di Leone, uno che con i suoi western all’italiana mi aveva ipnotizzato. Leone morì un anno dopo, e del film su Leningrado non se ne fece niente. Successivamente ci ha pensato Giuseppe Tornatore a fare un film su quei mille giorni, troppo difficile. Resto in attesa del libro di Benioff ma anche di un libro di saggistica su Leningrado, I 900 giorni di Harrison Salisbury edito dal Saggiatore, che Deaglio ha avuto l’accortezza di citare e che anch’esso mi sono precipitato a comprare. Ne sapevo l’esistenza da tempo ma mi era come uscito di mente. 900 giorni di scontri all’ultimo uomo, di carri armati che vanno all’assalto in un diluvio di fuoco, di morte per pallottola o per fame, di eroismo e di terrore. Questo sarebbe un saggio e non un romanzo? Ma non diciamo eresie.

 

E arrivo al punto chiave di questo mio pezzullo. Nei cento titoli elencati dai dieci galantuomini di Robinson i romanzi la fanno da padroni, anzi da tiranni. A parte Il secondo sesso di Simone de Beauvoir che la Aspesi mette in cima alle sue letture ideali, libri di saggistica non ce ne sono o forse uno o due che mi sono sfuggiti ma non credo. Ora la distinzione netta tra romanzi e libri di saggistica è di per sé una cialtronata. Siamo sicuri che il Fratelli d’Italia di Alberto Arbasino sia un romanzo e che viceversa La casa di una vita di Mario Praz sia un saggio?

 

E comunque anche a voler prendere per buona e seppure con le molle questa distinzione, è giusto, è conforme alla verità della lettura diffusa che tra i cento libri consigliati ci siano soltanto uno o forse due saggi? Ne sta parlando uno per interesse personale. Nella mia vita ho scritto solo un romanzo vero e proprio, e faceva schifo. E invece i dieci o quindici miei ultimi libri sono dei saggi solo per modo dire o per pigrizia mentale di chi legge. Sono romanzi, narrazione, vita in atto, personaggi veri che si muovono e vanno e muoiono. So benissimo che questo modo di vedere non è quello del grosso pubblico, e tanto più che ci sono dei libri che sono veramente dei saggi e che talvolta sono dei bei libri noiosissimi. In libreria la morìa della saggistica in questi ultimi anni è state terribile. Tra il 20 e il 50 per cento in meno di copie vendute rispetto a dieci anni fa. Una massa considerevole di lettori (specie nel pubblico femminile) legge solo narrativa. La mia compagna Michela è una di quelle. Legge in continuazione, ma solo romanzi.

 

Solo che non è stato così ancora l’altro ieri e al tempo formativo della mia generazione. Le Lettere dal carcere di Antonio Gramsci e così I dieci inverni di Franco Fortini e così il Politica e cultura di Norberto Bobbio e così L’Oppio degli intellettuali di Raymond Aron sono state letture che connotano un prima e un dopo dell’itinerario mio e di tantissimi miei coetanei. E a proposito di Arbasino, tutti in occasione della sua morte hanno citato Fratelli d’Italia ma ben pochi o nessuno hanno citato quel libro sontuoso di saggi à la Arbasino che è il Sessanta posizioni feltrinelliano. Durante “le joli mai” parigino del Sessantotto i due libri più comprati in libreria erano stati il Traité de savoir-vivre à l’usage des jeunes générations del professor Raoul Vaneigem e La société du spectacle di Guy Debord, anche quelli due libri di cui è penoso stare a dire se siano dei romanzi o dei saggi dato che erano due libri originali sotto ogni aspetto del loro format. Al tempo del ratto e dell’assassinio di Aldo Moro e delle laceranti contese se sì o no bisognava essere “fermi” rispetto alle richieste dei brigatisti, il libro più importante è quello che Leonardo Sciascia pubblicò a quattro mesi dalla morte di Aldo Moro, e anche quello voglio ben vedere se qualcuno si mette uno a compitare che si tratti di un romanzo o di un saggio. E sempre per restare al numero speciale di Robinson, dove Giancarlo De Cataldo include Lo straniero di Albert Camus, vi risulta che quel romanzo sia più imperdibile de L’Homme révolté, il saggio che Camus pubblicò nel bel mezzo delle laceranti contese politico/culturali che lo opposero a Jean-Paul Sartre e ai suoi più stretti adepti?

 

Mi direte che oggi la situazione è profondamente cambiata, che oggi la dittatura della narrativa si è fatta più totale. Non dico di no, e del resto l’ho ammesso fin dall’inizio che questo mio intervento è profondamente interessato: una difesa di noi che non sappiamo scrivere altro che saggi o apparentemente tali. E del resto anche i romanzi non sono tutti uguali fra loro. Mi piace molto la lista di libri gialli o “noir” che su Robinson fa Luca D’Andrea, lo scrittore di Bolzano di cui non ho letto niente e non vedo l’ora di farlo. Quei suoi dieci romanzi sono scelti con astuzia, a cominciare dal capolavoro dello “scrittore di destra” Ernst von Salomon, I proscritti, che su consiglio di Giaime Pintor la Einaudi aveva pubblicato già nel 1943 e di cui Giulio Einaudi dirà senza arrossirne di vergogna che lo avevano fatto solo per compiacere il governo di Salò. Ma di tutti e dieci i titoli elencati da D’Aura, quello che più mi commuove è il titolo di uno dei noir pubblicati dallo scrittore francese Jean-Patrick Manchette, un “guachiste” francese che eccome se li aveva letti i libri dei situazionisti. Quando stavo a Parigi in quegli anni li lessi tutti i suoi libri, uno più bello dell’altro. Romanzi che ti inebriavano e rispetto ai quali apparivano roba da niente i cento e cento saggi scritti in “politichese” usciti durante la tempesta del Maggio.

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