(foto LaPresse)

Chissà cosa avrebbero scritto Fruttero e Lucentini sulla prevalenza del cretino odierno

Giampiero Mughini

Due macchine intellettuali perfette, ma ciascuna a sé stante

All’apparenza erano righe destinate a un quotidiano, e dunque scritte per durare sì e no 24 ore. E invece no, erano gemme dove l’intelligenza e la cultura sterminata erano irrorate dall’ironia. Dico la rubrica “L’Agenda di Fruttero & Lucentini” che Alberto Ronchey aveva ospitato sulla Stampa a partire dal 1972. Erano anni in cui il vicedirettore del quotidiano torinese era l’ex partigiano Carlo Casalegno, quello che un drappello di “compagni che sbagliano” attese nell’androne della sua casa torinese per poi sparargli in faccia quattro colpi di revolver. Sarebbe stato uno degli innumerevoli casi dei Settanta in cui risultava micidiale “la prevalenza del cretino”, in questo caso il cretino omicida e criminale delle Brigate rosse. La prevalenza del cretino sarà difatti il titolo del volume mondadoriano del 1985 dove Carlo Fruttero e Franco Lucentini convogliarono la crema di quella loro agenda pubblicata per tredici anni sul quotidiano torinese. Al momento di radunare i loro pezzi, si accorsero che il cuore ne era l’andare addosso alla bêtise contemporanea e dunque ai formidabili cretini che la incarnavano. Gente che i nostri due eroi rappresentavano così: “E’ stato grazie al progresso che il contenibile ‘stolto’ dell’antichità si è tramutato nel prevalente cretino contemporaneo, personaggio a mortalità bassissima la cui forza è in primo luogo brutalmente numerica; ma una società civile ch’egli si compiace di definire ‘molto complessa’ gli ha aperto infiniti interstizi, crepe, fessure orizzontali e verticali, a destra come a sinistra, gli ha procurato innumeri poltrone, sedie, sgabelli, telefoni”. E figuriamoci che cosa avrebbero scritto i nostri due eroi se avessero potuto raccontare la “prevalenza” odierna del cretino, quello cui si sono spalancate le smaglianti praterie del web, altro che “interstizi” e “crepe”; se avessero avuto sotto gli occhi le prodezze del cretino da internet, del cretino da tweet, del cretino che ha a disposizione la mitragliera costituita dalla tastiera di un computer o di un telefonino. Se avessero avuto a disposizione le gesta dei cretini i cui like si sono fatti tiranni della società contemporanea, al punto da decidere loro nel 2018 quale fosse il partito di maggioranza relativa nelle aule “sorde e grigie” del Parlamento, quelle dove un tempo sedevano Pietro Nenni, Ugo La Malfa, Amintore Fanfani, Pietro Ingrao, Ciriaco De Mita, Bettino Craxi, Alfredo Reichlin e magari Leonardo Sciascia.

 

L’uno un piemontese scolpito (Fruttero), l’altro un romano enigmatico (Lucentini), sono stati la “royal couple” della nostra recente storia culturale. Lucentini (nato nel 1920) aveva esordito nel 1951 con un lungo racconto, I compagni sconosciuti, scritto nel 1948 quando aveva 28 anni. Un racconto dal costrutto linguistico e tematico originale, nel senso che se ne infischiava alla grande di quel neorealismo da cui era permeata troppa letteratura italiana del tempo, e che inaugurò una delle collane più belle di narrativa italiana del secondo Dopoguerra, “I Gettoni” presieduti da Elio Vittorini. Lucentini e Fruttero si imbatterono poi l’uno nell’altro nei locali della leggendaria redazione torinese della Einaudi degli anni Cinquanta, dove saranno per due decadi i direttori di una collana di fantascienza, “Urania”, un’esperienza professionale da cui trarranno un’antologia in due volumi, il primo e il secondo libro della fantascienza (Einaudi 1959-1961) che fanno da pietra miliare di quella letteratura. La valenza intellettuale che più li cementava era che entrambi non avevano addosso una sola macchia delle sozzure ideologiche del Novecento, né mai l’avevano avuta. Una combutta che va via via cementandosi fino all’exploit del romanzo del 1972 scritto a quattro mani, La donna della domenica, un libro che aveva del miracoloso per quanto era assieme “alto” e tale da deliziare tutti e ognuno, ciò che nella nostra storia letteraria era accaduto di rado: non di certo ai romanzi di Italo Svevo, di Luigi Pirandello, di Carlo Emilio Gadda.

 

Quando costituirono l’impareggiabile duo musicale sulla Stampa, nello spazio dov’è oggi la rubrica quotidiana di Mattia Feltri, la faccenda funzionava così. Siccome Lucentini non leggeva mai un giornale e non accendeva mai la televisione, e dunque non sapeva nulla di quel che succedeva nel mondo reale, Fruttero gli faceva una telefonata ad annunciargli l’uno o l’altro crepitante avvenimento, e magari era Gheddafi che sparacchiava sull’Italia. A questo punto i due diavolacci si mettevano d’accordo, l’uno avrebbe scritto l’“attacco” per poi dividersi “l’andante mosso” dello svolgimento. Liberi e leggeri com’erano volavano sempre in armonia. Mi pare fossero i secondi anni Ottanta quando andai prima nella casa torinese di Lucentini e subito dopo in quella di Fruttero. Per Panorama, di cui ero un inviato, avevo escogitato un articolo così costruito. All’uno e all’altro avrei fatto una quindicina di domande all’insaputa dell’uno e dell’altro su quali fossero i romanzi da lui preferiti, e le attrici predilette, e i film eccetera. Quindici domande ciascuno, forse venti. Le stesse domande all’uno e all’altro. Non una volta le risposte di Fruttero e Lucentini collimavano. Erano due macchine intellettuali perfette, ciascuna tuttavia a sé stante.

 

La casa di Lucentini al quarto piano di piazza Vittorio Veneto la ricordo come fosse ieri. Era una casa borghese discreta, silenziosa, poco illuminata dalla luce esterna, alle pareti degli splendidi oli olandesi secenteschi di piccolo formato che Lucentini collezionava. Quella casa me la sono immaginata cento e cento volte per come doveva essere alla mattina presto del 5 agosto 2002, quando Lucentini si alza perché lo strazio provocato dal tumore ai polmoni è insopportabile, barcolla forse a luci spente sino alla porta d’entrata, la apre, si accosta alla ringhiera delle scale, si appoggia, in un certo senso prende la mira e si scaraventa giù. Maria Carla Fruttero ha raccontato di recente che fu lei a comunicare a suo padre la notizia che Lucentini aveva chiuso la sua vita in quel modo. Carlo Fruttero non disse una parola, “rimase immobile”. Per lui (era nato nel 1926) cominciava una seconda vita, non meno smagliante seppure diversa. Da “triste e lucido capitano” che per dieci anni ancora, sino al giorno della sua morte (15 gennaio 2012), oppose comunque una strenua resistenza al luogo comune e all’imbecillità, al “cretino” che faceva capolino da ogni dove. Firmò questa volta da solo almeno due gioielli che Lucentini avrebbe applaudito, Donne informate sui fatti che dal settembre al novembre 2006 (la data della mia copia) fece sette edizioni e l’autobiografico Mutandine di chiffon del 2010, quello che cominciava con un’intervista a sé stesso che recitava così: “Quanto al campionato del dolore / non mi faccio illusioni / sulle mie chances. Piango / irrilevanti sepolcri / frugo tra ceneri / d’estasi elementari, / ho inchinato la nuca / alle più rozze clave del fato”. Non era stata altro la sua che una vita, fra le tante. Appunto, come dire meglio del destino di ciascuno di noi?