Antonia Pozzi

La poetessa che morì giovane, preda dei versi e del suo angelo e demone

Giampiero Mughini

Antonia Pozzi tra le straripanti personalità della Milano anni Trenta

Alla pagina 23 dell’edizione del 1941 di “Frontiere”, il libro di Vittorio Sereni che fa da pietra miliare della poesia italiana del secondo Novecento, c’è una poesia che ha per titolo “3 dicembre”. “All’ultimo tumulto dei binari / hai la tua pace, dove la città / in un volo di ponti e di viali / si getta alla campagna / e chi passa non sa / di te come tu non sai / degli echi delle cacce che ti sfiorano. / Pace forse è davvero la tua / e gli occhi che noi richiudemmo / per sempre ora riaperti / stupiscono / che ancora per noi / tu muoia un poco ogni anno / in questo giorno”. La data in testa alla poesia allude al tardo pomeriggio del 3 dicembre 1938, quando gli occhi della ventiseienne Antonia Pozzi s’erano chiusi per sempre. Il pomeriggio del giorno precedente alcuni passanti avevano raccolto il suo corpo agonizzante sul prato attiguo alla certosa di Chiaravalle, all’estremo lembo meridionale di Milano. Dopo avere scritto una lettera di commiato ai suoi genitori, la Pozzi s’era trascinata fin laggiù per poi ingerire un intero flacone di barbiturici a trovare “la sua pace”. Ci mise 24 ore a morire. Da quanto considerava Sereni “un fratello” più ancora che un amico, in quel suo ultimo viaggio si era portata appresso, trascritta a mano su un foglio, una delle poesie che entreranno a far parte di “Frontiere”, la splendida poesia che aveva per titolo “Diana”. Su quel foglio la Pozzi appose un addio, le ultime parole della sua breve esistenza.

 

Nata nel 1912, oggi reputata una figura centrale nella storia della poesia italiana del secolo scorso, fino al giorno della sua morte non era mai stata pubblicata una sola delle poesie che aveva cominciato a scrivere diciassettenne nel 1929. Saranno i suoi genitori, l’avvocato Roberto e la nobildonna Lina Pozzi, a rovistare nei suoi quaderni di scuola e a curare privatamente nel giugno 1939 l’edizione in 290 copie delle sue “Parole”. Un libro che poi è stato più e più volte edito (dalla Mondadori a partire dal 1943), riedito, grandemente arricchito, perfezionato filologicamente e tanto più che i genitori avevano cercato di smussare gli spigoli più drammatici del destino della figlia suicida. E’ singolare che il suicidio sia stato l’approdo finale delle due più grandi poetesse italiane del Novecento, la Pozzi e Amelia Rosselli (figlia di Carlo Rosselli), la quale l’11 febbraio 1996 si lanciò giù dall’ultimo piano della casetta romana di via del Corallo dove abitava. 

 

E’ stato Fabio Fazio a suggerirmi il nome della Pozzi per farne un racconto televisivo atto alla domenica 8 marzo, il giorno del calendario che onora le donne. Nella Milano degli anni Trenta, la prima città moderna della storia italiana, la Pozzi e Vittorio Sereni (nato nel 1913 e dunque di un anno più giovane della Pozzi) avevano fatto combutta all’ombra dei portici universitari marchiati dalle straripanti personalità del filosofo Antonio Banfi (nato nel 1886) e del giovane critico letterario Luciano Anceschi (nato nel 1911). Nelle foto di gruppo dei loro vent’anni talmente ardenti c’è il ben di Dio della futura cultura italiana. E a parte il professor Banfi (con il quale si laureò la Pozzi) e lo stesso Anceschi, in quel gruppo ci sono Enzo Paci, Remo Cantoni, Dino Formaggio, Mario Monicelli, Alberto Mondadori, lo stesso Sereni. E’ un ingorgo di intelligenze e di talenti da cui si dipartiranno molte strade della cultura italiana tanto filosofica che letteraria. In quelle foto la Pozzi, che bella non era ma femminilmente intensa eccome, sorride di un sorriso rattenuto come di una che non dimentica che le cose tutt’attorno “lo sanno di dover morire”. “E’ terribile l’esser donna e avere 17 anni” aveva scritto in un suo diario. Impossibile trovare una figura femminile che come lei contenesse così tanto di ciò che va oltre il reale, di “ultraumano” come lei lo definiva. Lo scrivere in versi era uno scudo contro quanto di “troppo grande” c’è nella vita: “Vivo della poesia come le vene vivono del sangue. Io so che cosa vuol dire raccogliere negli occhi tutta l’anima e bere con quelli l’anima delle cose e le povere cose, torturate nel loro gigantesco silenzio, sentire mute sorelle al nostro dolore”.

 

“Ultraumano” era stato l’amore che aveva acceso l’adolescenza della Pozzi sedicenne e che segnerà per sempre il suo destino fino a indirizzarlo verso la tragedia finale. Era successo al Liceo Manzoni di Milano dove la Pozzi studiava lettere classiche e dove si trovò innanzi un professore di greco e latino, Antonio Maria Cervi, uno che aveva 14 anni più di lei e che era tutto fuorché fisicamente affascinante ma che irradiava una accecante luce intellettuale e morale. Un uomo che lei descrive così in una lettera del 21 agosto 1928 alla nonna amatissima: “Una gran fiamma dietro a una grata di nervi, un’anima purissima anelante a sempre maggior purezza, destinata purtroppo a inaridirsi sola, in una sete inesauribile di sapere, di perfezione, di luce; uno studioso dalla cultura sterminata , dalla memoria prodigiosa, dalla volontà ferrea che gli faceva passare la vita nelle penombre delle biblioteche, chino sulle più ardue pagine di filosofia; un insegnante tutto ardore ed entusiasmo per la scuola, tutto affetto fraterno per gli scolari; un povero figliolo che, a vent’anni, si è veduto morire sul Grappa il fratello maggiore, e poco dopo il padre […]”. Sì, perché c’era anche questo a rendere “ultraumana” la suggestione esercitata su di lei da quel docente, e cioè che a pochi giorni dalla fine della Prima guerra mondiale un cecchino austriaco avesse ucciso Annunzio Cervi – di sei anni più grande del fratello Antonio Maria, era andato in guerra volontario –, di cui i cultori della letteratura futurista (quorum ego) ricordano con venerazione un librino di poesie pubblicato poco prima della sua morte col titolo “Le cadenze d’un monello sardo”. Poeta e martire di guerra, un tale personaggio diventa una sorta di convitato mica tanto di pietra tra il professore e l’alunna innamoratissima. “L’unica spiga / di due zolle confuse” a dirla con la Pozzi. Nei sei anni che dura la loro relazione (contrastata con furia dal padre della Pozzi, che minaccia di sfidare a duello Cervi) l’ipotesi di un loro figlio da chiamare “Annunzietto” permane sovrana. Il fatto è che non c’è donna più donna della Pozzi nel voler essere sposa e madre, quel suo “profondo sorso” nel vivere, nel voler mettere in gioco il suo corpo da averne un figlio da un uomo che le appare eccezionale. Resta il dubbio se per un tempo quel figlio lei se lo portò effettivamente in grembo e questo fino a un’interruzione volontaria della maternità. In una lettera straziante al professor Cervi, dov’è questione di quel loro figlio mai nato, lei parla di “una bara invisibile”.

 

Fatto è che il tema dell’amore per quel suo professore è centrale fin dal primo corpus delle poesie della Pozzi. I suoi versi e l’amore per un uomo da cui sgorgano fanno un tutt’uno. E non solo. La sua biografa più accreditata, Graziella Bernabò, dice che in quei suoi versi d’esordio sono numerosi i segni di una parentela poetica con il “monello sardo” che prima di morire s’era guadagnato due medaglie d’argento al valore militare. Per essere un viluppo e un incastro onirico, quello della Pozzi con i fratelli Cervi è assordante. Finché nel 1934 “la vita sognata” con il professore diventa uno scacco lasciato alle spalle, e comunque tale da “benedire” i giorni che restano. E’ terribile esser donna e subire uno scacco dopo l’altro. Le dice di no il bellissimo Remo Cantoni, che di donne attorno ne aveva molte (si toglierà a sua volta la vita quarant’anni dopo la Pozzi). Alla sera del 1° dicembre 1938, a quanto racconta la biografa della Pozzi, le dice no Formaggio, il compagno di congreghe universitarie. A quel punto non le resta che scrivere il proprio addio ai suoi genitori e avviarsi l’indomani verso Chiaravalle, lì dove aveva passato dei bei momenti con Formaggio.

 

Quanto a Antonio Maria Cervi, visse gli ultimi anni della sua vita rigorosamente da solo a Roma, nella cui università era divenuto professore incaricato di Storia comparata di lingue classiche. Nella stanza che era stata della madre, custodiva le foto dei suoi genitori, del fratello Annunzio, di Antonia ai tempi del loro amore. In quella stanza ci entrava tutte le mattine, come a salutare i suoi cari.

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