Hyuro, “Memories of a Maternity”, 2019, olio su tela. Hyuro, nome d’arte di Tamara Djurovic, è una street artist spagnola (Artsy)

Le madri imperfette

Gaia Manzini

Equilibrio, distanza, sopravvivenza. La libertà di amare un figlio da sole, senza soccombere sotto il peso dei giorni e delle responsabilità

Piove. Tanto meglio. Ben presto avrà i capelli fradici, scioglie l’elastico che li trattiene. Li libera con un brusco movimento della testa. Si sente le gambe, le cosce. La schiena, la nuca. Avere un corpo. Un corpo senza un bambino aggrappato. Un corpo senza il prolungamento del passeggino. Le prime volte che era uscita le era sembrato strano. Si era sentita nuda, vulnerabile. Come se fosse stata amputata di qualcosa, di un’appendice quasi naturale di se stessa. Proseguire. Al proprio ritmo, non a quello, lento, sempre sfasato, del bambino. Riappropriarsi del suo corpo. Della sua vita”.

 

Chi è questa donna che cammina di notte per Lione, che muove passi incerti ed euforici allo stesso tempo, sempre più lontana dal rifugio e della prigione di casa sua? Chi è questa donna che lascia il suo bambino addormentato, solo tra le quattro mura? Cosa succederà se si dovesse svegliare? Ma no, non si sveglierà: lei ne è certa.

 

In Fino all’alba (Einaudi, traduzione di Margherita Botto) – romanzo che ha il ritmo di una marcia – Carole Fives racconta prima di ogni altra cosa il corpo dimidiato delle madri, racconta della loro solitudine. Torna sulla contraddizione difficile da gestire tra affermazione e negazione della maternità, a quella sensazione straniante di avere il corpo uno e multiplo. Corpo che si moltiplica e si rigenera, che con un figlio si estende verso il terreno ignoto delle possibilità; e poi, d’un tratto, vuole a tornare a se stesso, ricerca la propria compattezza, la propria indipendenza, anche se è una fuga inutile e senza meta. I figli ci richiamano a sé, sempre e comunque.

 


In “Fino all’alba” Carole Fives racconta prima di ogni altra cosa il corpo dimidiato delle madri, racconta della loro solitudine. Davanti a questa madre disperata mi tornano in mente le madri di Grace Paley, ma è un abbaglio. Questa è una solitudine diversa


 

Nelle Piccole virtù di Natalia Ginzburg, c’è un racconto, s’intitola Le scarpe rotte, è ispirato ai mesi durissimi del 1945 che Natalia passò insieme a Angela Zucconi in una casa romana progettando una rivista. Le due amiche parlano di scarpe, le scarpe rotte che entrambe indossano e che sembrano essere il segreto della loro amicizia. Angela, dice la Ginzburg, con i suoi occhialoni e il bocchino appoggiato alle labbra sembra un generale cinese. Il generale cinese non ha figli; Natalia invece ce li ha, e al generale sembra strano. Non li ha neanche mai visti in foto, anche questo è strano. Eppure è anche bello che ci sia uno spazio fuori della maternità, dove essere solo se stesse. L’amica, il generale cinese, è stufa del lavoro, vorrebbe cedere alla tentazione di buttare la vita ai cani, bersi tutti i risparmi, mettersi a letto, andare alla deriva. E allora Natalia scrive che per lei quel pensiero è impossibile, lo dice con sollievo, ma anche con una piccola malinconia. Lei tornerà a casa, si prenderà cura dei propri figli, vincerà il desiderio fortissimo di mollare, di non prendere più alcuna decisione. “Tornerò a essere grave e materna, come sempre avviene quando sono con loro, una persona diversa da ora, una persona che la mia amica non conosce affatto”.

 

E allora torniamo alla domanda di prima: chi è questa donna che vive da sola al sesto piano con il suo bambino? Chi è questa giovane donna che non riesce a lavorare? Carole Fives usa uno stile asciutto e pulito. Non ci sono nomi, e l’effetto è iperrealistico. Parla dell’oggi, parla delle tante donne sole, senza alcun aiuto. Di notte, dopo l’ennesimo biberon, la donna tasta il radiatore, ma è gelido. Telefonerà all’agenzia immobiliare e si mostrerà decisa: il riscaldamento è incluso nell’affitto, non c’è motivo di passare un altro inverno al freddo. La cosa migliore sarebbe probabilmente chiamare un idraulico, ma a chi rivolgersi e quanto potrebbe costare? Si avvicina alla finestra. Il serramento di metallo non chiude più perfettamente. L’unica soluzione è tapparlo con un lenzuolo; alla fine riesce a sistemarlo alla meglio. Deve lasciare al più presto quell’appartamento caro e mal tenuto. Quell’appartamento dove era andata a vivere insieme al padre del bambino. Si dividevano le spese, ma da sola è impossibile. Chi accetterà di affittarle un’altra casa? Non ha uno stipendio fisso e a malapena riesce a ottenere qualche incarico come freelance. Deve cercare nuovi contatti nella nuova città, deve darsi da fare il prima possibile. Soprattutto deve trovare una soluzione per il bambino, qualcuno che glielo tenga. Tirarsi fuori da quel dissolversi di giorni e notti. Davanti a questa madre disperata mi tornano in mente le madri di Grace Paley, ma è un abbaglio. Le donne di quella New York popolare tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta, abbandonate dai mariti, travolte dalla violenza del destino, con figli morti di overdose o in un incidente, perse in continue chiacchiere, con pochissime possibilità di riscatto vivevano almeno dentro il perimetro preciso di un contesto, di un quartiere, immerse tra visi e dinamiche conosciute. Invece qui no, qui c’è una solitudine più profonda e decisiva: una solitudine sociale.

 

Nella Moglie (Guanda, 2013) di Jhumpa Lahiri, Gauri sposa il fratello del marito assassinato in India. Ricomincerà la sua vita in America e lì darà alla luce la figlia che non potrà mai conoscere il padre naturale. Gauri fredda, Gauri alla ricerca della propria realizzazione, Gauri che non riesce a trovare un equilibrio e proietta la propria ambizione ben oltre quello che ci aspetta da lei. E appena può si allontana da casa, lascia la bimba da sola, va in biblioteca a fare ricerca. Poi torna. Anche se ritornare diventerà sempre più difficile; sempre più lacerante. Gauri, come la protagonista di Carole Fives è sola, di quel tipo di solitudine che rimbomba da tutte le parti.

 

La donna di Fino all’alba non riesce a legare con la vicina, la vicina la ignora, le parla a stento: i problemi, le difficoltà degli altri vanno tenuti fuori dalla porta, vanno cauterizzati prima che ci infettino. Al parco giochi basta una distrazione: il bambino cade, si fa male e lei non se ne accorge e le altre madri prendono a guardarla con sospetto. Era al telefonino, cosa stava facendo? Stava aspettando una telefonata di lavoro? Voleva solo distrarsi, scappare tuffandosi in uno schermo? I bambini bisogna seguirli, esercitare la cura dello sguardo e dell’attenzione fino all’ossessione, fino alla resa incondizionata di ogni difesa. Fino all’impazzimento.

 

Muove una commozione asciutta questa donna nella sua casa spoglia. La sera digita sul computer: MADRE SOLA + VITA DA CANI. Consulta decine di forum alla ricerca di esperienze simili alla sua, di approvazione o di biasimo. Perché il padre del bambino non si è fatto più vivo, l’anziano genitore non l’aiuta e lei ha un lavoro da grafica che non è sufficiente ad arrivare a fine mese. La sera per qualche ora nell’appartamento regna il silenzio, è sola con i suoi colori, i suoi pennelli, disegna un logo su Illustrator, riprende un impaginato su InDesign. Aspetta il mattino per rispedire i progetti al cliente. Una parte di lei è sollevata all’idea del lavoro fatto; l’altra, più preoccupata, cerca di non pensare ai contratti che perde, al ritardo che accumula a tutti i livelli, alla stanchezza che dovrà affrontare, fra un’ora o due, quando il bambino si sveglierà. E anche quando lui dorme le sembra di sentirlo: un lamento, un grido, un ordine. Le poche agenzie che assumono ancora preferiscono dipendenti con molti meno anni di esperienza, meno qualificati e molto meno cari. Senza figli. Lei fa parte di quella generazione ammaliata dai lavori creativi, senza garanzie, senza paracadute. Sono i nuovi poveri, privati anche della solidarietà altrui, destinati al declassamento, alle case popolari, al lavoro malpagato, all’isolamento perché cresciuti senza coscienza politica o di classe. Dunque più fragili, evanescenti come fantasmi.

 

“Il bambino assisteva a quelle scene, avvertiva la tensione crescente, le lacrime in agguato tra una frase e l’altra, lo scoramento, la guardava vuotare il sacco. Lei si vergognava, si vergognava per lui, si vergognava per loro, per quell’album di famiglia squadernato, di cui sembrava che tutti volessero prendersi un pezzetto, una fotografia.”

 

C’è sempre uno strappo nell’essere madre, sempre una contraddizione lacerante di cui non si parla mai. Ma è in quella contraddizione, nella ricerca di un equilibrio tra visceralità e presa di distanza che si crea il rapporto tra madre e figlio. Fare dibattito pubblico di quelle contraddizioni, trovare soluzioni concrete sarebbe un atto politico e sociale rivoluzionario. L’autrice irlandese Anne Enright ha scritto un diario di bordo, un libro umoristico, un viaggio letterario, un manuale di alleggerimento, un inesauribile antivirus contro gli stereotipi e i preconcetti intorno all’essere madre. “Ciò che mi interessa non è il dramma di essere un bambino, bensì quello di essere una madre”, si legge in Fare figli inciampando nella maternità, Bompiani.

 

E allora, di nuovo: chi è questa donna che di notte scappa dal suo bambino, cammina sempre più lontano, sente il brivido del rischio, la puntura della disapprovazione, l’adrenalina? Che cos’è quella distanza che mette tra se stessa e la creatura che ama? Mettere distanza per trovare la giusta prospettiva, per capire cosa fare dopo due anni di corpo a corpo con suo figlio, senza asilo nido, senza aiuto, senza una parola di comprensione. Le solite passeggiate al parco, i soliti giri intorno al laghetto, quella ritualità senza interruzione.

 


La donna digita sul motore di ricerca Madre single + Scomparire. E osserva il dramma tanto comune della sua esistenza. “Ciò che mi interessa non è il dramma di essere un bambino, bensì quello di essere una madre”, scrive Anne Enright


 

C’è un racconto bellissimo di Alice Munro, s’intitola Il sogno di mia madre. Racconta di una mamma giovane e sola, una violinista che deve esercitarsi al suo strumento. Il bambino nella culla prende a lamentarsi, scoppia in un pianto a dirotto e lei perde la concentrazione, si rende conto di suonare male, di sbagliare ogni nota. Ma invece di smettere di suonare continua sempre più incalzante, accerchia il figlio in un crescendo di note e pianto. Sembra un thriller, ma non lo è. C’è una tensione fortissima, è disturbante, pensiamo al peggio. Costruisce un’immagine che rifiutiamo ma di cui sentiamo la portata realistica. Sappiamo che lì dentro c’è una verità che va affrontata, guardata, soppesata oltre la retorica, oltre gli stereotipi.

 

“Era sfinita, stanca di quel personaggio che aveva costruito da cima a fondo: la brava mamma. Era in quei momenti, probabilmente, che la voglia di fuggire toccava il culmine. Quando si rendeva conto di non sopportare più quell’unico ruolo nel quale era ormai relegata”. La donna di Fino all’alba digita sul motore di ricerca Madre single + Scomparire. Non partecipa mai alle discussioni dei forum: legge e basta, assiste a un susseguirsi di voci come nella sala di un teatro. Guarda in faccia il dramma tanto comune della sua esistenza. Il punto non è andarsene, il punto è essere già trasparenti pur rimanendo al proprio posto. Lo stabile dove vive li inghiotte, lei e il bambino, e ogni mattina li risputa sul marciapiede. La portinaia il bambino non può tenerlo, deve già fare le pulizie, cucinare per il marito, portare fuori i bidoni della spazzatura. Il marito della portinaia non lo si vede mai, al punto che i primi mesi lei aveva pensato che nella guardiola vivesse soltanto Paloma, oppure che di tanto in tanto ospitasse qualcuno, un fratello o un amico di famiglia. Solo il suono della radio, sempre accesa, attesta la presenza di quel tizio che, come alla fine aveva saputo, aveva perso l’uso delle gambe. “Durante la giornata incrociava spesso condomini che stazionavano nell’atrio a grappoli di due o tre. Quando lei e il bambino si avvicinavano, tacevano e aspettavano che si fosse allontanata con il passeggino per riprendere i loro conciliaboli. Alcuni erano anziani, altri meno. Lì ci si parlava solo fra condomini. Mica si può fare di ogni erba un fascio. Ci sono gli affittuari e i proprietari”.

 

Fino all’alba non è solo un libro su una madre single, non è solo la storia di una quotidianità fratta e zoppicante: è un racconto politico su una madre che cerca se stessa, la propria autenticità, la libertà di amare senza soccombere sotto il peso dei giorni e delle responsabilità. Quando parliamo di famiglia, di lavoro, di società, parliamo della solitudine delle madri. Ripartiamo da lì.

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