Ragazze sventolano la bandiera indiana a Shaheen Bagh (foto AP/Altaf Qadri via LaPresse)

La città delle donne

Carlo Buldrini

A Shaheen Bagh le indiane sono a capo della protesta contro la legge sulla cittadinanza che vorrebbe dividere i musulmani e gli hindu, e lottano contro l’estremismo di Modi

Con la “partition”, la spartizione del subcontinente indiano, presero vita nel 1947 due nazioni distinte: l’India e il Pakistan. La destra hindu, oggi al potere in India, ritiene che l’opera della partition debba essere completata. I musulmani che vivono in India dovrebbero andarsene in Pakistan e in Bangladesh e gli hindu che abitano in quei due paesi dovrebbero invece poter vivere in India. Questa è l’inconfessabile idea che ha ispirato la nuova legge sulla cittadinanza, recentemente approvata dal parlamento indiano, e il programmato registro nazionale dei cittadini. I due provvedimenti, fortemente voluti dal primo ministro indiano Narendra Modi e dal suo ministro dell’Interno Amit Shah, hanno come fine la marginalizzazione e la ghettizzazione dei musulmani indiani. Contro questo disegno, che mina alla base i princìpi della Costituzione indiana, è iniziato in India un forte movimento popolare che cerca, al contrario, di sanare le ferite della partition e ripropone con forza l’unità tra hindu e musulmani e l’uguaglianza dei diritti di tutti i cittadini.

    

A opporsi alla legge sono stati per primi gli studenti. Ma tutto è cominciato con un sit-in di dieci donne a Shaheen Bagh

A opporsi alla legge sulla cittadinanza sono stati per primi gli studenti. La repressione di esercito e polizia è stata immediata. La sera del 15 dicembre scorso, le forze dell’ordine avevano fatto irruzione nel campus della Jamia Millia Islamia, l’università islamica di Delhi. Avevano preso a bastonate gli studenti e ne avevano arrestati più di 50. Quella stessa notte, nel quartiere di Shaheen Bagh, a meno di un chilometro di distanza dalla Jamia, dieci donne musulmane, alcune con il figlio piccolo in braccio, si sono sedute al centro della strada, decise a non muoversi finché la legge sulla cittadinanza non fosse stata revocata. Forse un giorno il gesto di queste dieci donne sarà ricordato nei libri di storia. Da quell’atto di protesta e di sfida, è nato infatti un movimento che si è esteso ormai a tutta l’India e ha indicato un modo nuovo di fare politica. Fino a poche ore prima, la protesta aveva seguito il solito copione: slogan, scontri e sassaiole da una parte; lacrimogeni, bastonate e arresti dall’altra. Ma, quando le dieci donne si sono sedute sull’asfalto, qualcosa è improvvisamente cambiato. I giovani che durante la mattinata si erano scontrati con la polizia, hanno formato un cordone protettivo attorno alle dieci donne. La polizia, armata, è accorsa sul posto ma non ha saputo come intervenire. Con il passare delle ore, altre donne si sono unite alle prime dieci. Anche loro si sono sedute a terra. Faceva freddo in quei giorni di dicembre a Delhi. È stato l’inverno più rigido degli ultimi cento anni, hanno scritto i giornali. Ma le donne di Shaheen Bagh non si sono più mosse. Anonimi donatori hanno fatto arrivare nel quartiere cibo, tè, legna da ardere, coperte, materassi, stufette elettriche, acqua potabile, medicine.

  

 

Le donne indiane hanno una straordinaria capacità di “metter su casa”. La loro vita non ha mai basi solide. Fin da bambine sanno che la casa paterna non sarà la loro casa per sempre. Un giorno le faranno sposare e dovranno adattarsi a una nuova casa dove non hanno mai vissuto. Ma anche qui, spesso, non trovano quella sicurezza che cercano per tutta la vita. A volte vengono trattate da estranee. A volte basta un ripudio per farle finire per strada. Ecco allora che le donne di Shaheen Bagh hanno fatto ricorso alla capacità delle donne indiane di fare diventare “casa” il luogo dove a loro capita di dover vivere. L’asfalto della strada 13a, la Kalindi Kunj Road che unisce New Delhi a Noida, è diventata la loro casa. Un grande tendone è stato innalzato sopra le loro teste.

  

Lo slogan più gridato è “azadi”, libertà. “Siamo prima di tutto indiane. Poi siamo anche musulmane o hindu”, dicono

Oggi, le donne che si alternano a Shahenn Bagh, sono migliaia. Appartengono a tutte le età, a tutte le classi sociali e a tutte le religioni. Ma, la maggioranza, continua a essere di fede musulmana. Le si riconosce dalla testa coperta con l’hijab, il velo. Per molte di loro, è la prima volta che partecipano a una manifestazione politica. Narendra Modi, con la recente approvazione del Muslim Women Bill, la legge che abolisce il “triplo talaq”, il divorzio lampo dei musulmani, credeva di essersi conquistato la simpatia di queste donne. Invece, sono proprio loro, le donne musulmane “liberate” dal triplo talaq, a guidare la protesta contro la nuova legge sulla cittadinanza voluta da Modi stesso. Lo slogan più gridato dalle donne di Shaheen Bagh è “azadi”, libertà. Vogliono la libertà di appartenere al paese in cui sono nate. “Siamo prima di tutto indiane. Poi siamo anche musulmane o hindu”, dicono.

  

Shaheen Bagh è diventata una “città delle donne”. Ci sono oggi mense di strada, chioschi che vendono tè e samosa, asili nido improvvisati, rudimentali infermerie, biblioteche, punti di ricarica dei cellulari, farmacie volanti, centri per gli aiuti legali, piccoli uffici dove rivolgersi in caso di oggetti smarriti. Alcune televisioni private mandano in onda lunghe dirette da Shaheen Bagh. Le si possono vedere in tutta l’India e, su YouTube, anche nel resto del mondo. Ogni giorno si tengono comizi, ci sono lezioni sulla storia della lotta per l’indipendenza dell’India e sulla Costituzione, si recitano poesie, si cantano canzoni rap di protesta, si leggono brani della Bhagavad Gita, del Corano, della Bibbia e si recitano i “gurbani”, gli inni del libro sacro dei sikh, a simboleggiare l’unità di tutte le religioni. La domenica, la visita degli abitanti di Delhi a Shaheen Bagh è diventata una sorta di pellegrinaggio laico. Arrivano in questo quartiere orientale della città fino a centomila persone. Ci troviamo di fronte alla più lunga e più partecipata manifestazione di protesta della storia dell’India indipendente.

  


Alcune delle donne che protestano a Shaheen Bagh (foto AP/Altaf Qadri via LaPresse)


   

Ma ci sono anche voci contrarie. L’occupazione della strada 13a provoca molti disagi agli automobilisti. Per raggiungere Noida, si impiegano adesso fino a due ore, invece dei normali trenta minuti. I nervi, soprattutto tra i militanti dell’estrema destra hindu, sono molto tesi. Sabato 1° febbraio un uomo ha sparato in aria due colpi di rivoltella a Shaheen Bagh dopo aver gridato “Jai Shri Ram”, evviva il dio Rama. Due giorni prima, un altro giovane aveva aperto il fuoco contro i manifestanti nella vicina Jamia Millia Islamia. Uno studente era stato ferito a una mano. Narendra Modi e Amit Shah, nei comizi per le elezioni per l’assemblea legislativa della città di Delhi che si sono svolte l’8 febbraio, hanno continuamente denunciato “l’anarchia che regna a Shaheen Bagh”. Hanno chiesto il voto per il loro partito, il Bharatiya Janata Party (Bjp), “per riportare la legge e l’ordine” nella capitale indiana. L’11 febbraio, la sera dell’annuncio dei risultati elettorali, alla notizia dei 62 seggi (su 70) vinti dall’Aam Aadmi Party, il partito di Arvind Kejrival, a Shaheen Bagh si è festeggiato fino a notte fonda.

  

Le indiane che manifestano oggi hanno fatto proprio il messaggio di Gandhi della nonviolenza

Shaheen Bagh è diventata un modello da imitare. Manifestazioni analoghe sono iniziate in tante altre parti del paese. È stato così a Park Circus a Calcutta, a Roshan Bagh ad Allahabad, al Clock Tower a Lucknow, a Phulwari Sharif a Patna e in decine di altre città indiane. In tutte queste manifestazioni, le donne sono sempre in prima fila. Sono le donne a opporsi con maggior forza all’entrata in vigore della nuova legge sulla cittadinanza e a voler impedire la compilazione del registro nazionale dei cittadini. Per poter essere inseriti in questo registro, ogni persona che vive in India dovrebbe presentare una documentazione che provi che lui o i suoi antenati erano residenti in India fin dai tempi dell’indipendenza del paese dal dominio coloniale inglese. Le donne – e non solo quelle musulmane – avvertono sulla propria pelle la minaccia di questa procedura. In India, le donne sono spesso prive di documenti ufficiali. In molte aree rurali, i certificati di nascita non vengono compilati. La registrazione dei matrimoni è spesso discrezionale. Le donne raramente hanno proprietà immobiliari registrate a loro nome. La loro vita è quasi sempre “a cura” di qualcuno. Sono a cura del padre quando sono bambine, a cura del marito quando sono sposate. Queste donne avvertono che il registro nazionale dei cittadini costituisce per loro un pericolo. Pensano di non avere i documenti richiesti. Temono di finire nei centri di detenzione o, addirittura, di essere espulse dal paese. “Non presenteremo i documenti” dicono le donne in tutti i sit-in di protesta.

  


Il sit-in di Shaheen Bagh (foto AP/Altaf Qadri via LaPresse)


  

È la prima volta nella storia dell’India indipendente che ci si trova di fronte a un movimento politico guidato dalle donne. Giovani donne sono alla testa di tutti i cortei. È una nuova generazione che si affaccia sulla scena politica indiana. Per capire le radici di questo fenomeno, bisogna risalire al 2004. In quell’anno il neo eletto governo della United Progressive Alliance guidato da Manmohan Singh diede un forte impulso a un programma chiamato “mid-day meal scheme”, il pranzo di mezzogiorno offerto gratuitamente a tutti gli alunni delle scuole primarie indiane. Il programma ebbe un grande successo e ridusse drasticamente l’assenteismo dalle aule scolastiche delle bambine appartenenti alle famiglie indiane più povere. Oggi, quelle bambine sono cresciute. Appartengono a una fascia di età che va dai 18 ai 25 anni. Sono loro a guidare la protesta nelle strade dell’India. La loro lotta è dura, senza compromessi. Ma è rigorosamente nonviolenta. Gandhi lo ripeteva spesso: “Se riuscirò a ottenere l’aiuto delle donne, il mio esperimento con la nonviolenza sarà un istantaneo successo”. Le donne che lottano oggi in India contro la legge sulla cittadinanza e contro il registro nazionale dei cittadini hanno fatto proprio il messaggio di Gandhi della nonviolenza. C’è un video che è diventato virale nel web, in India e nel mondo. Mostra un gruppo di poliziotti che, con l’elmetto in testa e armati di bastoni, inseguono uno studente della Jamia Millia Islamia a Delhi. Il giovane cerca rifugio nel vialetto di una casa privata. I poliziotti lo raggiungono, lo trascinano in strada e lo scaraventano a terra. Iniziano a bastonarlo quando tre giovani donne si intromettono. Circondano lo studente a terra e gli fanno da scudo con i loro corpi. Le “lathi”, i bastoni di bambù dei poliziotti, rimangono sospese a mezz’aria. Poi, nel video, si vedono gli uomini in divisa abbandonare la scena. È una prova del coraggio di queste giovani donne e una applicazione concreta del “satyagraha”, la lotta nonviolenta di Gandhi.

  

Le donne – e non solo quelle musulmane – avvertono sulla propria pelle la minaccia del registro dei cittadini

Il tentativo di alterare il carattere laico e democratico dell’India e trasformarla in un Hindu Rashtra, una nazione hindu, ha trovato una forte resistenza nelle strade di tutto il paese. I simboli del neonato movimento sono la bandiera tricolore indiana, l’inno nazionale “Jana Gana Mana” composto da Rabindranath Tagore e il preambolo della Costituzione che afferma che la Repubblica Indiana garantisce a tutti i suoi cittadini uguali diritti. Nelle manifestazioni di protesta sono esposti continuamente i ritratti di B.R. Ambedkar, il padre della Costituzione indiana e del Mahatma Gandhi che pagò con la vita il suo messaggio di unità tra hindu e musulmani. La repressione nei confronti di queste manifestazioni è stata spesso brutale. Soprattutto negli stati in cui il Bjp è al potere. In Uttar Pradesh, lo stato governato dal monaco estremista hindu Yogi Adityanath, la polizia ha sparato sui manifestanti provocando 19 morti. Anche in Karnataka, un altro stato retto da un governo Bjp, le forze dell’ordine hanno aperto il fuoco sui dimostranti. Due persone sono morte a Mangaluru. Eppure, malgrado la repressione, il movimento continua a espandersi. “Voi ci dividete, noi ci moltiplichiamo” c’era scritto su un cartello tenuto in mano da un manifestante di Mumbai. È difficile prevedere se tutto questo avrà un impatto sul futuro politico dell’India. Nascerà dalla protesta in corso una nuova classe politica capace di sostituire i vecchi leader, spesso screditati e corrotti, degli attuali partiti politici indiani? Il Bharatiya Janata Party, il partito al governo nel paese, e il Rashtriya Swayamsevak Sangh, la potente organizzazione nazionalista hindu, controllano oggi l’intero apparato statale indiano: l’amministrazione pubblica, il sistema giudiziario, le forze dell’ordine, i media. A tutto questo si oppone un movimento nato spontaneamente, senza una leadership politica, in larga misura guidato dalle donne. Per ora, le forze politiche della destra hindu, hanno subìto una battuta d’arresto. Ma non rinunceranno facilmente al loro progetto. Torneranno all’attacco e ci saranno nuovi scontri. Il movimento, a partire dalle donne di Shaheen Bagh, è deciso a resistere. È in corso una battaglia decisiva per la conquista dell’“anima” dell’India.