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La notte della protesta indiana che ha unito l'opposizione contro Modi

Carlo Buldrini

I manifestanti uccisi e la repressione degli studenti hanno aperto una ferita nel paese. La democrazia contro il Citizen Act

A prima vista sembrava una buona legge. Prometteva ai rifugiati provenienti dai paesi vicini di ottenere più rapidamente la cittadinanza indiana. Nessuno poteva essere contrario al fatto che, chi è soggetto a persecuzione in un altro paese, debba essere aiutato e accolto. Il primo ministro indiano Narendra Modi, nel commentare le nuove regole sulla cittadinanza indiana, ha affermato che si tratta di uno “sforzo innocuo e umano” per mettere fine a quel “limbo legale” a cui sono costretti gli appartenenti alle minoranze religiose perseguitate nei vicini paesi musulmani. Gli ha fatto eco un parlamentare del Bharatiya Janata Party, Swapan Dasgupta, che ha detto: “Queste persone guardano all’India come a una loro madre”. Ma, come sempre, il diavolo si nasconde nei dettagli. Leggendo il testo della nuova legge chiamata Citizenship Amendment Act e approvata dal parlamento indiano l’11 dicembre scorso, si viene a sapere che regolarizza gli immigrati provenienti dal Pakistan, Afghanistan e Bangladesh, purché siano hindu, sikh, buddhisti, jainisti, parsi o cristiani. Dall’elenco mancano i musulmani e i non credenti. Eppure, in Pakistan, gli sciiti e gli appartenenti ad altre minoranze musulmane, per esempio gli Ahmadiyya, sono perseguitati. Così come, in Bangladesh, sono perseguitati gli atei. In molti si sono chiesti se, una democrazia laica quale dice di essere l’India, possa discriminare le persone su basi religiose.

 


Per Gandhi l’Università Jamia Millia Islamia di Delhi costituiva “un esempio vivente dell’unità tra hindu e musulmani”. Quando qualcuno gli suggerì di togliere “Islamia” dal nome dell’ateneo, Gandhi rispose: “Se lo togli non avrò più interesse per questa istituzione”


 

Un precedente pericoloso di tutto questo c’è stato in un paese non lontano dall’India, il Myanmar. Nel 1982 il Myanmar adottò una legge sulla cittadinanza che riconosceva otto gruppi etnici come “razze nazionali”. Solo i loro appartenenti avevano diritto di cittadinanza nel paese. Dall’elenco vennero esclusi i Rohingya, una popolazione che le autorità del Myanmar ritenevano essere costituita da immigranti illegali provenienti dal Bangladesh. Ai membri di questa comunità, le autorità birmane chiesero di presentare una documentazione che provasse che loro, o i loro antenati, vivevano in Birmania fin da prima dell’indipendenza del paese avvenuta nel 1948. I Rohingya, quasi tutti poverissimi e analfabeti, non furono in grado di presentare questi documenti. Vissero così per anni emarginati e privi di ogni diritto, fino ad arrivare alla drammatica espulsione di massa del 2017 che costrinse 700 mila di loro a cercare rifugio in Bangladesh.

 

Anche l’India, parallelamente al Citizenship Amendment Act, si appresta a compilare su scala nazionale un National Register of Citizens che costringerà tutti gli indiani a provare che loro o i loro antenati erano residenti in India fin dai tempi dell’indipendenza del paese (1947). Chi non sarà in grado di presentare questa documentazione, sarà dichiarato “immigrato illegale” e sarà passibile di imprigionamento e di deportazione. Adesso tuttavia, la nuova legge sulla cittadinanza offre agli hindu una protezione. Per loro basterà provare di essere fedeli del dio Rama per poter rimanere in India. Lo spettro di diventare improvvisamente apolidi, riguarda solo i musulmani. Per milioni di loro, spesso poverissimi, sarà impossibile presentare i documenti richiesti dal National Register of Citizens che il ministro degli Interni indiano Amit Shah si appresta a far compilare. Già nell’ultima campagna elettorale Shah aveva annunciato la compilazione di questo registro grazie al quale, aveva promesso, sarebbero stati stanati “gli infiltrati e le termiti che infestano il paese” e cioè i musulmani irregolari.

 

Questo “registro dei cittadini” è già stato sperimentato in Assam, uno stato dell’India nordorientale, con conseguenze traumatiche sull’intera popolazione. Tutti gli abitanti hanno dovuto dimostrare, documenti alla mano, di essere residenti nello stato da prima del 25 marzo 1971. Quasi due milioni di persone non sono riuscite a entrare nelle liste dei cittadini regolari. Il governo indiano ha così iniziato ad allestire dei campi di detenzione dove questi immigrati irregolari saranno ammassati. Alla tensione provocata dalla compilazione del “registro dei cittadini”, si è adesso aggiunta, in Assam, quella causata dall’entrata in vigore dalla nova legge sulla cittadinanza e, in questo stato dell’India nordorientale, è scoppiata la rivolta. Vediamo perché. Nel 1947, con la “spartizione” del subcontinente indiano da cui sono nati l’India e il Pakistan, il Bengala venne diviso in due. Una parte divenne lo stato indiano del West Bengal e l’altra divenne il Pakistan orientale. Un milione di rifugiati bengali, la maggior parte di fede hindu, si trasferirono in India e si stabilirono a Calcutta e in Assam. Una nuova ondata di profughi si riversò negli stati dell’India nordorientale in seguito alla guerra di liberazione del Bangladesh. I massacri della giunta militare pakistana nel Pakistan orientale costrinsero dieci milioni di bengali a trovare rifugio in India. Fu questo il pretesto, per Indira Gandhi, per dichiarare guerra al Pakistan. La guerra si concluse con la resa dell’esercito pakistano e la nascita del Bangladesh. Ma, un milione e mezzo di rifugiati bangladeshi, rimasero in India. Sono queste le “termiti” che Amit Shah, il ministro dell’Interno indiano, vuole “stanare”. Oggi, la popolazione del Bangladesh conta 12 milioni di abitanti di fede hindu, l’8 per cento della popolazione. In Assam si teme che, con la nuova legge sulla cittadinanza approvata dal governo indiano, molti di questi hindu del Bangladesh si possano trasferire in Assam provocando ulteriori tensioni etniche. Per questo l’Assam è insorto. La sua città principale, Guwahati, è stata il teatro di violente manifestazioni di protesta. Per reprimerle, il governo indiano ha trasferito cinque contingenti militati dal Kashmir all’Assam. Ci sono state finora sei vittime tra i manifestanti.

 

Dall’Assam, la protesta contro la nuova legge sulla cittadinanza, si è spostata in alcune università indiane. Tra queste c’è la Jamia Millia Islamia di Delhi. I suoi studenti, per la maggior parte musulmani, si oppongono con forza a una legge che ritengono dividere i cittadini indiani in due categorie: i desiderabili e i non desiderabili, violando così il principio di uguaglianza sancito dalla Costituzione indiana. A Delhi, il 13 dicembre, due giorni dopo l’approvazione della legge sulla cittadinanza, gli studenti della Jamia Millia Islamia hanno organizzato una marcia di protesta. Erano diretti verso il parlamento. La polizia ha interrotto la marcia caricando gli studenti, colpendoli con i bastoni e cercando di disperderli con i gas lacrimogeni. La mattina del 15 dicembre, più di duemila studenti della Jamia hanno preso parte a una grande manifestazione di protesta contro la legge, assieme agli studenti delle altre università della capitale indiana. Si sono verificati degli incidenti. Ma il Jamia Millia Islamia Body, l’amministrazione dell’università, con un comunicato ufficiale ha condannato gli episodi di violenza e ha assicurato che nessuno studente o insegnante della Jamia ha preso parte a questi incidenti. La sera di quello stesso 15 dicembre, la polizia ha sfondato i cancelli e ha fatto irruzione nel campus universitario della Jamia Millia Islamia. Le scene del brutale attacco della polizia contro gli studenti hanno fatto il giro dei social media di tutta l’India. Studenti caduti a terra e presi a bastonate. I lacrimogeni lanciati fin dentro l’edificio che ospita la biblioteca centrale. Le ragazze, terrorizzate, che fuggono verso i bagni. Gli studenti arrestati che, con le mani alzate, vengono condotti verso i veicoli della polizia. Ci sono stati più di cento feriti. Molti, gravi. Uno studente, Minhauddin, ha perso l’occhio sinistro.

 

Per capire gli eventi successivi a questo attacco della polizia, va spiegato cos’è la Jamia Millia Islamia. L’università fu fondata nel 1920 da un gruppo di leader nazionalisti musulmani, dopo che Gandhi, in quello stesso anno, aveva chiesto di boicottare le istituzioni scolastiche e universitarie del governo britannico dell’India. Gandhi rimase per tutta la vita profondamente legato a questa università. Quando, nel 1925, venne a conoscenza delle difficoltà economiche che la Jamia Millia Islamia stava avendo, disse di essere “pronto a mendicare pur di poterla aiutare”. Per Gandhi questa università costituiva “un esempio vivente dell’unità tra hindu e musulmani” e, quando qualcuno gli suggerì di togliere “Islamia” dal nome dell’università, Gandhi rispose: “Se si togli la parola Islamia non avrò più interesse per questa istituzione universitaria”. Il termine “Islamia” non deve essere male interpretato. Chi scrive, per un intero anno accademico, ha insegnato alla Jamia Millia Islamia di Delhi ed è testimone dei valori laici e progressisti che ispirano l’università. Tutto questo per spiegare perché l’attacco della polizia alla Jamia ha provocato in India una profonda ferita nella coscienza di ogni persona autenticamente democratica e abbia costituito un punto di svolta nell’opposizione alle forze della destra hindu che governano il paese. La notte stessa dell’attacco alla Jamia, a mezzanotte, centinaia di cittadini di Delhi hanno circondato la vecchia sede centrale della polizia nel quartiere di I.T.O. Hanno lanciato slogan. Uno diceva: “Delhi police Jamia choro” (polizia di Delhi, vattene dalla Jamia). I dimostranti hanno interrotto l’assedio solo quando alcuni ufficiali di alto grado della polizia hanno assicurato che i 52 studenti della Jamia arrestati e tenuti in fermo nelle stazioni di polizia di Kalkaji e New Friends Colony, sarebbero stati rilasciati quella notte stessa.

 

L’attacco della polizia alla Jamia è stato la scintilla che ha dato fuoco a tutta la prateria. Sessantacinque istituti universitari di tutta l’India hanno manifestato per esprimere la loro solidarietà alla Jamia Millia Islamia e contro la nuova legge sulla cittadinanza. I partiti di opposizione, numericamente deboli in Parlamento, e deboli anche a causa delle loro leadership prive di forti personalità, dopo l’attacco alla Jamia e spinti dalla protesta degli studenti che ormai dilaga in tutta l’India, hanno finalmente dato segni di vita. Il giorno dopo l’irruzione della polizia alla Jamia, sei partiti di opposizione, il partito del Congresso, i due partiti comunisti indiani, il Rashtriya Janata Dal, il Loktantrik Janata Dal e il Samajwadi Party, hanno tenuto a Delhi una conferenza stampa con cui hanno espresso “solidarietà agli studenti della Jamia costretti a subire il brutale attacco della polizia”. Il 17 dicembre una delegazione composta dai leader di 12 partiti di opposizione e guidata da Sonia Gandhi, si è fatta ricevere dal presidente della Repubblica indiana Ram Nath Kovind. La delegazione ha espresso la propria preoccupazione per la repressione violenta della polizia nei confronti delle pacifiche manifestazioni di protesta degli studenti. Nel memorandum presentato al presidente della Repubblica dai partiti di opposizione si legge: “Facciamo appello di salvaguardare la nostra Costituzione e di impedire che essa venga violata. Chiediamo anche l’immediato ritiro del Citizenship Amendment Act”.

 

Ma è difficile che tutto questo, nell’immediato, porti a risultati concreti. Il duo Modi-Shah, il primo ministro dell’India e il suo ministro dell’Interno, tirano dritto per la loro strada. Il giorno dopo l’approvazione della legge sulla cittadinanza, Amit Shah ha annunciato che “nel giro di quattro mesi porteremo a termine ad Ayodhya la costruzione di un grande tempio in onore del dio Rama”. La marcia verso la trasformazione dell’India in un “Hindu Rashtra”, una nazione hindu, procede più spedita che mai.

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