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Modi, il populista indiano

Carlo Buldrini

Il presidente uscente ha stravinto le elezioni, ma ha iniettato di veleno la vita politica dell’India

In queste ore l’India color zafferano, il colore dell’“hindutva”, l’induismo politico, festeggia nelle strade dell’India. Narendra Modi ha trionfato nelle diciassettesime elezioni generali indiane e sarà per altri cinque anni il primo ministro del paese. La National Democratic Alliance (Nda), con alla testa il Bharatyia Janata Party (Bjp), il partito di Modi, ha ottenuto 341 seggi e la maggioranza assoluta nella Lok Sabha, la camera bassa del Parlamento di New Delhi. La United Progressive Alliance (Upa), guidata dall’Indian National Congress (il “Partito del Congresso”), ha ottenuto un risultato deludente e, con i suoi soli 88 seggi sommati ai 113 conquistati dai partiti del “Terzo fronte”, ha fallito nel tentativo di dar vita a una maggioranza alternativa in Parlamento.

    


Una delle candidate del Bjp, il partito di Modi, è stata accusata di terrorismo e ha detto che l’assassino di Gandhi era un “patriota”


       

Il sistema politico indiano, fatto di alleanze, tradimenti e giravolte di partiti politici nazionali, regionali e castali, è di difficile lettura. Ma, per capire cosa sia successo nelle elezioni che si sono appena concluse, basta forse esaminare i risultati elettorali di due importanti stati dell’Unione Indiana: l’Uttar Pradesh e il West Bengal. L’Uttar Pradesh elegge ben 80 deputati – su un totale di 543 – nel Parlamento di New Delhi. Nelle elezioni del 2014 il Bjp, assieme alla National Democratic Alliance, aveva conquistato 73 seggi degli 80 disponibili. In vista di queste elezioni, tre partiti regionali – il Samajwadi Party (Sp), Il Bahujan Samaj Party (Bsp) e il Rashtriya Lok Dal (Rld) – hanno formato un’alleanza (“mahagathbandhan”) per contrastare lo strapotere del Bjp nello stato. L’esperimento non ha dato i risultati sperati. L’Alleanza ha ottenuto solo 17 seggi contro i 59 del Bjp. Troppo pochi per poter sperare di rovesciare un verdetto favorevole a Modi su scala nazionale. Clamorosa in Uttar Pradesh è stata la sconfitta di Rahul Gandhi nella circoscrizione elettorale di Amethi.

   

In West Bengal il partito di maggioranza è il Trinamool Congress (Aitc) di Mamata Banerjee, la donna che nel 2011 ha messo fine a 35 anni di governo ininterrotto delle sinistre in questo stato dell’India orientale. Fino a pochi mesi fa il Bjp, in West Bengal, era praticamente inesistente. Nelle elezioni di quest’anno, le cose sono radicalmente mutate. Il Trinamool Congress ha ottenuto 23 seggi, ma il Bjp, con i suoi 18 seggi, ha fatto un prepotente ingresso nella vita politica dello stato. Negli anni ’60, nel “rosso” Bengala, in solidarietà con la lotta del popolo vietnamita, si gridava: “Tomar naam, amar naam, Vietnam, Vietnam” (Il tuo nome è il mio nome: Vietnam, Vietnam). Oggi, le strade di Calcutta sono percorse da giovani con i vestiti color zafferano che urlano: “Tomar naam, amar naam, jai Shri Ram, jai Shri Ram” (Il tuo nome è il mio nome: viva il dio Rama, viva il dio Rama). Molti militanti del Partito comunista indiano (marxista) – Cpi(m) – pur di andare contro il Trinamool Congress di Mamata Banerjee hanno votato per il Bjp. E in questo passaggio da Marx a Modi c’è tutta la nuova India emersa dalle elezioni di quest’anno.

   

Dopo la vittoria di Narendra Modi nelle elezioni nazionali del 2014, in pochi capirono che l’India era il primo grande paese del mondo a entrare nell’èra del “populismo”. Tutti vollero vedere invece nella vittoria di Modi il riflesso del successo economico ottenuto dal “modello Gujarat”, lo stato indiano che Modi aveva governato per tre mandati consecutivi. Modi venne salutato come il “vikash purush”, l’eroe dello sviluppo della Nuova India e in molti credettero alle sue promesse di una forte crescita economica e della creazione di centinaia di migliaia di nuovi posti di lavoro in tutto il paese. Ci si dimenticò rapidamente che, parte integrante di quel “modello Gujarat”, erano stati i duemila morti nel pogrom anti musulmano che si abbatté sul Gujarat nei primi mesi del 2002 quando Modi era a capo del governo dello stato.

   


Mai prima d’ora, in India, le persone erano state trascinate fuori dalle loro case e picchiate a morte per quello che dicevano o mangiavano   


   

Nei cinque anni di governo nazionale di Modi, il promesso “big bang” nell’economia indiana non c’è stato. I posti di lavoro in India sono diminuiti dai 406,7 milioni del 2017 ai 406,2 milioni del 2018 per poi scendere ancora a soli 400 milioni nel febbraio 2019. La crescita nel settore agricolo, nel periodo 2014-17, è stata pari al 2,51 per cento. Nel decennio precedente era stata del 3,7 per cento. A partire dal 2014, le esportazioni indiane sono cresciute dell’1,6 per cento. Nelle due decadi precedenti erano cresciute del 13 e del 14 per cento.

   

Nell’India di oggi le disuguaglianze sembrano essersi ingigantite. La ricchezza della metà più povera della popolazione è pari al 6,4 per cento della ricchezza complessiva del paese, mentre l’1 per cento al vertice della scala sociale ne possiede il 30 per cento. Queste disuguaglianze, in India, sono probabilmente sempre esistite. Ma, come osserva l’indiano Amartya Sen, premio Nobel per l’economia, “una volta di queste disuguaglianze ci si vergognava; oggi, nell’India di Narendra Modi, non ci si vergogna più”.

  

Con alle spalle questi scarsi risultati sul piano economico, Modi si è presentato agli elettori calcando la mano sull’ideologia dell’“hindutva”, l’induismo politico. Negli “anni di Modi” il nazionalismo hindu ha avvelenato la vita politica e sociale dell’intera India. Mai prima d’ora, in India, le persone erano state trascinate fuori dalle loro abitazioni e picchiate a morte per quello che dicevano, per quello che mangiavano – gli odiati “beefeaters”, i mangiatori di carne bovina: musulmani, cristiani e “dalit” – o semplicemente perché appartenevano a una casta o a una religione sbagliata. Nessuno era mai stato giudicato anti nazionale, un traditore, per avere idee diverse da quelle del partito al potere. In questo torbido clima politico, le poche voci dissidenti dei media indiani sono state bollate come “presstitute”, giornalisti prostitute. La democrazia moderna è stata vista sempre più come un qualcosa di “importato”, di estraneo all’ethos indiano. Si sono così moltiplicati gli attacchi alla figura di Jawaharlal Nehru, il primo premier dell’India indipendente, messo sotto accusa per il suo “laicismo”.

   

Nelle elezioni di quest’anno il Bjp ha presentato come candidata nella circoscrizione elettorale di Bhopal una donna, Pragya Thakur, accusata di terrorismo per l’esplosione di un ordigno collocato nei pressi di una moschea a Malegaon, in Maharashtra, nel 2008. L’attentato provocò la morte di sei persone. Pragya Thakur, una nota estremista hindu, fu condannata a nove anni di carcere per essere stata una dei “principali cospiratori dell’atto terroristico”. Nel 2015, il governo Modi la fece uscire di prigione e, quest’anno, il Bjp l’ha presentata candidata alle elezioni. Durante la campagna elettorale, Pragya Thakur ha definito “deshbhakt”, un patriota, Nathuram Godse, l’assassino del Mahatma Gandhi. Le ha fatto eco un altro membro del Bjp, Anil Sharma, capo della comunicazione del partito nello stato del Madhya Pradesh. Ha detto: “Il Pakistan è nato con la benedizione di Bapu (Gandhi). Gandhi può dunque essere considerato il padre del Pakistan, non certo dell’India”.

   

Con questi ripetuti attacchi alle figure di Nehru e di Gandhi, la destra hindu mostra tutta la sua insofferenza nei confronti dei padri dell’India moderna fondata sulla partecipazione inclusiva ed egualitaria di tutti i suoi cittadini indipendentemente dalla fede professata. Negli “anni di Modi” il veleno è penetrato in profondità nella vita politica e nel tessuto sociale indiano. Adesso sarà molto difficile eliminarlo.

    

Conquistata la maggioranza in Parlamento e dopo aver ricevuto l’incarico di formare un nuovo governo, Modi mostrerà un volto moderato e farà appello alla pacificazione del paese e all’unità nazionale. Ma dovrà fare i conti con i militanti del Sangh Parivar, la “Famiglia dell’Associazione”, il fronte militante dell’ortodossia hindu. Questa “famiglia” ha al suo centro il Rashtriya Swayamsevak Sangh (Rss), l’Associazione dei volontari nazionali, la potente organizzazione nazionalista che, dietro le quinte, controlla e tira le fila del Bjp e di tutti i gruppi dell’induismo militante. La vittoria di queste forze politiche nelle elezioni indiane del 2019 lascia presagire scenari inquietanti. L’Rss e i suoi affiliati pretenderanno adesso dal secondo governo Modi di accelerare i tempi verso la realizzazione dell’“Hindu rashtra”, lo stato hindu. La loro prima richiesta sarà la costruzione del grande tempio in onore del dio Rama ad Ayodhya sulle macerie della Babri Masjid, la moschea di Babur rasa al suolo nel 1992 dai fanatici hindu. Modi non sarà in grado di sottrarsi a questa richiesta. Le mai sopite tensioni fra hindu e musulmani potrebbero allora tornare in superficie e il futuro dell’India apparirà ancora una volta incerto.

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