Gurmeet Ram Rahim Singh

In India il populismo spirituale di Rockstar baba ha fatto già decine di morti

Giulia Pompili

La condanna di Gurmeet Ram Rahim Singh

Roma. Rockstar Baba è stato condannato a vent’anni. Secondo i giudici di Panchkula, capoluogo del distretto nello stato dell’Haryana, Gurmeet Ram Rahim Singh, attuale maestro della setta Dera Sacha Sauda, è colpevole di violenza sessuale nei confronti di due donne, ma ci sarebbero altre quarantotto donne pronte a testimoniare contro di lui per altre violenze subite dopo il 2002. Il fatto è che l’annuncio della sentenza, venerdì scorso, ha provocato violenze e scontri nell’area intorno al quartier generale della setta, che vanno avanti da giorni. Decine di migliaia di persone, seguaci della Dera Sacha Sauda, sono scese in strada per difendere il proprio guru e leader spirituale, e durante i vari incidenti sarebbero morte almeno 38 persone. Nel fine settimana è intervenuto perfino il primo ministro Narendra Modi, che ha definito “inaccettabili” le violenze, e dopo la lettura della sentenza, lunedì, il carcere della città di Rohtak dove Singh sarebbe detenuto sotto controllo strettissimo, lo stato di Haryana e quello di Punjab sono attualmente in stato d’allerta, e secondo i media indiani misure di sicurezza straordinarie sono state istituite perfino nella capitale Delhi. Come riportava Quarz lunedì, negli ultimi quattro giorni per via degli scontri e a causa delle possibili conseguenze della sentenza, in alcune aree calde il servizio di trasporto pubblico è stato ridotto, se non fermato, gli hotel hanno subìto cancellazioni, le scuole sono state chiuse, internet sospeso, la Borsa ha subìto perdite.

 

Duemilacinquecento persone arrestate. Tutto per via di una setta di cui probabilmente non avete mai sentito parlare. La Dera Sacha Sauda, nata nel 1948, è ufficialmente un culto religioso che fa attività no profit e ha il suo quartier generale a Sirsa (che lunedì, secondo il corrispondente della Bbc, era una “città fantasma”). Secondo il sito ufficiale, la Dds avrebbe almeno 60 milioni di seguaci nel mondo. Il suo leader, però, è piuttosto controverso. In passato Singh è stato accusato di aver provocato violenti scontri tra i suoi follower e la comunità sikh, che è stata spesso oggetto di derisione da parte del guru.

 

Lui, del resto, è un personaggio: cinquantenne, su Twitter si definisce “un santo, un filantropo, cantante versatile, sportivo, regista, attore” eccetera. Sposato e con tre figli, barba e capelli lunghi, Singh è famoso anche per la sua passione per le motociclette modificate e per i soldi che tira su con gli spot pubblicitari e come testimonial. “Si trasforma senza sforzo da leader spirituale ad appariscente intrattenitore”, scrive di lui Soutik Biswas della Bbc, “Ma la sua presa sociale è altrettanto affascinante. Singh gestisce fondi di beneficenza, e un movimento per promuovere la donazione degli organi e di sangue. E’ un attivista vegetariano. Ma fa anche firmare una dichiarazione agli omosessuali che promettono di ‘abbandonare gli istinti’ sotto la sua ‘santa guida’, ed è stato accusato di promuovere la castrazione tra i suoi seguaci per essere ‘più vicini a Dio’”. A parte l’ilarità che possono provocare le sue foto online, c’è qualcosa di molto più serio dietro alla figura di Singh. Secondo Biswas in India ci sono sempre stati guru di questo tipo, basterebbe ricordare negli anni Sessanta il rapporto tra Maharishi Mahesh Yogi e i Beatles – ma Singh rappresenta altro: “Molti pensano che milioni di persone aderiscono a dozzine di gruppi religiosi come quelli Singh perché ritengono che la politica e la religione mainstream abbiano fallito. Quello che vedono è un mondo sempre più ingiusto, si sentono abbandonati dai politici e dai sacerdoti, e si rivolgono a guru e sciamani per trovare conforto”. In un’India divisa e con un’opinione pubblica sempre più polarizzata, secondo Biswas i guru riescono a controllare il territorio più dei politici. Una sorta di populismo applicato alla spiritualità, che può portare a conseguenze gravi, perfino violente.

Di più su questi argomenti:
  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.