Militari al voto in Thilandia (foto LaPresse)

Le elezioni in Asia, tra populismo e identità

Giulia Pompili

Il voto in India, Indonesia, Thailandia, Filippine ha qualcosa in comune col mondo occidentale: la polarizzazione tra i vari candidati, alimentata dai social network

Roma. Gli ultimi mesi nel sud-est asiatico sono stati caratterizzati da importanti e strategiche elezioni. Paesi diversi, con sistemi sociali diversi, ma a guardarle da qui c’è qualcosa che lega il processo democratico asiatico di realtà così differenti tra loro con quello che succede nel mondo occidentale. Tutte le ultime elezioni, dalla Thailandia all’Indonesia, dalle Filippine fino all’India, sono state caratterizzate dalla polarizzazione delle posizioni dei candidati. Populismo e identità, infiammati dalla velocità della diffusione delle notizie tramite social network, hanno determinato i risultati – o comunque le conseguenze delle elezioni.

 

A Manila Rodrigo Duterte, presidente dal 2016, ha vinto le elezioni di metà mandato che erano state proposte dal governo come un referendum sulle sue politiche più autoritarie: la guerra alla droga, per esempio, che dal 2016 ha ucciso migliaia di persone tra spacciatori e consumatori; la repressione dell’opposizione; il ritorno della retorica nazionalista e autoritaria.

 

In India Narendra Modi è entrato nella storia: ha stravinto le elezioni e si appresta a iniziare un nuovo mandato di cinque anni, ma è stato definito dal New York Times uno “dei leader più potenti e divisivi che l’India abbia prodotto da decenni”, “la sua è oggi una propaganda identitaria, settaria, modellata intorno alla paura e al sospetto”, ha scritto Matteo Miavaldi sul manifesto. “Potrebbe sembrare fuorviante mettere a confronto le recenti elezioni in Thailandia e quelle in Indonesia”, ha scritto sul Nikkei Asian Review Michael Vatikiotis, uno dei più autorevoli commentatori di cose asiatiche, diplomatico internazionale e scrittore. “I due paesi sembrano essere su traiettorie divergenti: la Thailandia, sotto un governo militare, sta andando verso una democrazia a maglie larghe; l’Indonesia invece è una democrazia, seppure instabile, dopo soltanto quattro elezioni presidenziali dirette. In entrambi i paesi le elezioni sono state portate a termine in modo efficace.

 

I thailandesi hanno votato a fine marzo, le prime elezioni dal 2014. I partiti di opposizione sono stati ostacolati da una Costituzione restrittiva riscritta sotto la supervisione della giunta militare. Eppure il 66 per cento dei 52 milioni di elettori ha votato pacificamente. I giovani hanno mostrato un particolare entusiasmo al voto”. In Indonesia, scrive Vatikiotis “le elezioni di metà aprile potevano sembrare una sfida scoraggiante: 193 milioni di persone hanno votato per il presidente e per un quarto di milione di legislatori del governo centrale, provinciale e distrettuale – tutti nella stessa mattinata, con i seggi che hanno chiuso all’ora di pranzo. Eppure l’affluenza ha superato l’80 per cento e sia la campagna elettorale sia il voto si sono svolti pacificamente, nonostante la tragica perdita di vite umane tra i funzionari elettorali stremati e poco addestrati. In entrambi i casi, le campagne elettorali hanno sfruttato argomenti provocatori, generando tensioni nella società e avvelenando la politica del post-voto. La lezione è che anche quando durante la giornata elettorale tutto va bene, quello che succede prima e dopo ha un enorme impatto – e richiede attenzione”. Secondo Vatikiotis, la Thailandia è un paese che soffre ancora le divisioni sociali che sono sistematicamente sfruttate dalle forze conservatrici e populiste. “La spaccatura riflette una profonda diseguaglianza dovuta a forti disparità di reddito e di opportunità tra le province centrali e più prospere – che hanno votato per lo più per il partito conservatore pro-giunta militare – e le aree rurali più povere del nord e del nord-est, che hanno votato di più per il Pheu Thai, il partito dell’ex primo ministro Thaksin Shinawatra e dei suoi alleati.

 

In Indonesia, il presidente Joko Widodo ha vinto con un margine di 11 punti, e ha vinto facilmente in alcune parti del paese che condividono un approccio più tollerante all’etnia e all’identità religiosa; il suo avversario, Prabowo Subianto, ha ottenuto altrettanto ampio sostegno nelle aree in cui sta crescendo il supporto ad aspetti più esclusivi e intolleranti dell’identità islamica. Certe divisioni sono nette e potenzialmente destabilizzanti. Per affrontarle, le élite al potere sembrano essere disposte a considerare i rimedi sbagliati: approcci duri e autoritari che minacciano di logorare il processo democratico”. 

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.