(foto LaPresse)

Le lettere scontrose di Giovanni Arpino, vittima di ogni attualità possibile

Giampiero Mughini

Il parto giornalistico di un fuoriclasse fin troppo snobbato

Fossi stato Vittorio Gassman e avessi letto la lettera che Giovanni Arpino mi aveva dedicato su un settimanale italiano dei primi anni Sessanta, il Tempo diretto da Arturo Tofanelli (adesso in Giovanni Arpino, Lettere scontrose, minimum fax, 2020), sarei andato ad aspettarlo sotto casa. Più o meno quel che fece Gassman, il quale in televisione minacciò chi lo aveva criticato e in certo modo deriso. Quello di Arpino era difatti un testo crudele, scritto a raschiar via l’anima dell’attore ancor più che la sua pelle. Il fatto è che non gli era piaciuto il nuovo Gassman cinematografico battezzato dal magnifico “Il sorpasso” del 1962. Gli sembrava che lui “piluccasse” le briciole di un cinema fatto per divertire in cui erano maestri Ugo Tognazzi e Alberto Sordi. Arpino rinfacciava a un Gassman che “s’era addottorato in pretese da grande interprete tragico” di essere “disceso poi a zappettare nel terreno dei guitti”. E dunque prendeva una cantonata gigantesca nell’addentare un attore che nel film di Dino Risi s’era inventato una nuova postura rispetto a quella sua originaria, ossia ricreare a perfezione il bullo convinto di dominare tutto e tutti a forza di volgarità.

 

Niente di scandaloso che per una volta il men che quarantenne Arpino avesse fallito il bersaglio, lui che “vittima di ogni attualità possibile” s’era messo a rovistare in modo non piacione fra i tanti e le tante che frullavano la scena pubblica dei Sessanta. Le cinquantadue “lettere scontrose” le aveva difatti inviate a mezzo mondo, ad Amintore Fanfani come a Brigitte Bardot (bellissima lettera, lo dice un veterano della bardottomania), a Omar Sivori come al Tommaso Landolfi “che esiste per pochi”, a Charles De Gaulle come a Federico Fellini, ad Aldo Moro (“Lei è il premier fantasma di un paese chiamato Limbo dove i contorni della realtà sfuggono…”) come a Juliette Gréco, al calciatore Ezio Pascutti (una lettera originalissima) come al gruppo musicale detto The Beatles, a Helenio Herrera come a Totò, l’unico che gli avesse risposto, commosso dalle parole di Arpino. Il quale al principe Antonio De Curtis di Griffo Focas s’era rivolto così: “Lei ci ha raccolti appena usciti dalle pappette dei telefoni bianchi, ci ha accompagnati attraverso il neorealismo cinematografico, non ha perso colpi durante i tempi di Helzapoppin, ha scavalcato i Gianni e Pinotto, ha proseguito oltre Jerry Lewis, ha tenuto botta a Danny Kaye, ha marciato sul suo binario ai tempi migliori di Alberto Sordi, ha mille volte contraffatto gli altri e se stesso, ovunque spandendo energie, magari ripetendosi, magari obbligandosi a tenere in piedi pellicole da quattro soldi”.

 

Meritoriamente ripubblicate oggi in volume dalla minimum fax quelle missive appaiono quale il parto giornalistico di un fuoriclasse. Uno scrittore e un personaggio nei cui confronti mi sento come in debito per averlo frequentato – ossia letto con partecipazione – molto meno di quanto meritasse, e tanto più che il suo destino era stato brevissimo. Nato nel 1927 a Pola, morì di un carcinoma a Torino nel 1987, quando aveva appena sessant’anni. Tanto più grave è stata la mia “distanza” dall’Arpino di allora perché non ne avevo afferrato la latitudine morale e intellettuale, quella di un borghese liberale che non si intruppava con niente e con nessuno, ossia la latitudine che oggi giudico la migliore al mondo. Dopo aver letto (divorato) le Lettere scontrose, sono andato a vedere negli scaffali della mia biblioteca riservati agli scrittori italiani del secondo Dopoguerra in prima edizione. Dei trenta e più libri di Arpino ce n’era uno solo, quello che Elio Vittorini aveva inserito nella sua collana “I gettoni”, un libro che non ho mai letto e al quale lo stesso Arpino era disaffezionato. Quattro o cinque altri suoi libri li avevo sì ma non in prima edizione, e nella mia scala di valori sentimentali è tutt’altra cosa. Ho immediatamente telefonato alla Libreria Pontremoli di Milano. Dopo pochi giorni mi sono arrivate quattro sacrali prime edizioni di Arpino, l’einaudiano e secondo suo libro Gli anni del giudizio del 1958, La suora giovane del 1959 che gli valse l’entrata in finale nel Premio Strega, L’ombra delle colline con cui lo Strega lo vinse nel 1964, il fatidico Azzurro tenebra del 1977 ed era la prima volta che lo sport (il calcio) faceva da tema portante di un romanzo italiano del Novecento. Perché anche questo c’è di speciale nella biografia di Arpino, che lui amasse particolarmente lo sport e ne volesse scrivere a tutti i costi, e lo fece a iosa nell’ultimo segmento della sua attività giornalistica, al Giornale diretto da Indro Montanelli.

 

E dunque partiamo da Azzurro Tenebra, dal romanzo dedicato al campionato del mondo di football del 1974, che Arpino aveva seguito giorno dopo giorno per conto della Stampa, e dov’erano alte le ambizioni della nazionale italiana, reduce dal secondo posto dei campionati del mondo del 1970. In quella nazionale giocano il bomber Gigi Riva, un Dino Zoff che in nazionale non prendeva gol da oltre mille minuti, Sua Maestà Gianni Rivera, difensori insuperabili quali Tarcisio Burgnich e “capitan” Giacinto Facchetti, “Baffo” (Sandro Mazzola), il Petruzzu Anastasi campione europeo del 1968, e altre celebrità ancora. Il coach è l’uomo che ci ha portato alla finale del 1970 a Città del Messico, lo “Zio” Ferruccio Valcareggi. Purtroppo gli anni passano e cancellano ogni stemma. Sarà la più grande disillusione della nostra storia calcistica. Arpino giornalista sportivo e scrittore ci prova a raccontare lo stentato 2-1 contro i misirizzi di Haiti, il grigio pareggio 1-1 con l’Argentina, il calcio in culo con cui la Polonia ci caccia fuori dal Mundial, gli strepiti nello spogliatoio azzurro tra il primo e il secondo tempo contro la Polonia con qualcuno che grida ai giocatori “Vi ammazzo tutti!”, il can can di titoli fiammeggianti sui giornali, le invettive dei tifosi imbestialiti, la patria tutta in ambasce come forse solo dopo Caporetto, il “Grangiuán” (alias Gianni Brera) che ci va giù garbato “Non habemus squadram. Questa è merda liquida”. Solo che non è facile estrarre letteratura dallo sport se giocato mediocremente.

 

Ho deposto l’Azzurro Tenebra dopo la sua ultima pagina e ho cominciato L’ombra delle colline, il romanzo con cui l’Arpino trentasettenne si guadagnò il Premio Strega nel 1964. Ne è protagonista Stefano, uno che c’era nato nelle colline piemontesi per poi andare a lavorare a Roma e che ha qualche anno in meno dell’Arpino in carne e ossa. Figlio di un ufficiale della Prima guerra mondiale che negli scaffali della sua libreria teneva a ricordo una lunga baionetta austriaca, a quattordici anni aveva assistito alla fuga disordinata dei soldati italiani alla notizia dell’armistizio e a quindici aveva sparacchiato e ucciso un tedesco che si trovava a passare. Immaginato e scritto un millennio fa è un romanzo centrato su un italiano che ci assomiglia, un borghese che tentenna e non si dà pace, un personaggio “privo della necessaria perizia che consente a un uomo di destreggiarsi e sopportarsi entro i limiti della sua stessa disordinata materia”. Un gran bel romanzo.