Nella penna di Elias Canetti scorre tutta l'esperienza del Novecento

Giampiero Mughini

Un maestro inarrivabile nella costruzione del racconto

Leggi Elias Canetti ed è come se ti scorresse innanzi agli occhi il nastro tutto intero dell’esperienza novecentesca la più intensa. Era nato in Bulgaria nel 1905 da una coppia di ebrei sefarditi, lui un commerciante di origini spagnole dal nome originario Cañete, lei la discendente da una ricca famiglia di origini italiane di nome Arditti. Nella sua città natale si parlavano sette o otto lingue – il tedesco, il ladino, l’yiddish, lo spagnolo – e tutti capivano qualcosa di ciascuna di quelle lingue. Agli occhi di Canetti bambino divenne subito particolarmente prezioso il tedesco, la lingua con cui comunicavano tra loro i suoi genitori, la lingua in cui scriverà i suoi tanti libri. Nel 1911 la sua famiglia si trasferisce a Manchester, dove Canetti impara l’inglese e soprattutto “il sentire inglese”. I libri che si ritrova a casa comincia a leggerli voracemente, qualcuno lo rilegge 40 volte. Nel 1912, quando Elias ha sei anni, suo padre muore di botto, il tempo che la madre emetta un grido lancinante: “Con quel suo grido la morte di mio padre entrò dentro di me e non mi ha più abbandonato”, scrive Canetti ne La lingua salvata, il primo dei quattro tomi della sua autobiografia. Nel 1913 la famiglia Canetti si trasferisce a Vienna e due anni dopo a Zurigo, dove rimarrà fino al 1921. D’ora in poi per Elias il termine di confronto umano più immediato, ma anche l’occasione di squassanti gelosie reciproche, sarà la madre, una donna colta e raffinata. Solo 23 anni dopo la morte del padre, la madre gli confesserà che cos’era avvenuto tra loro due prima che il padre si schiantasse a terra morto. Gli aveva confessato che un uomo l’aveva in un certo qual modo corteggiata e che lei non lo aveva respinto di brutto.

 

Leggi Elias Canetti e a poco a poco ne sei ipnotizzato da quanto è ammaliante ogni volta la costruzione del racconto, la messa in scena dei personaggi. Come ha scritto Davide D’Alessandro (Potere e & Morte. Le matite di Canetti, Morlacchi editore), ci sono autori che a leggerli è come se te ne servissi, li usassi, e che con Canetti è tutt’altra cosa. Lui fa di te uno dei suoi personaggi, ti ci mette dentro i suoi incontri, ad esempio con le donne con cui avvia una comunicazione intellettuale, lui che pure si autodefinisce “un misogino accanito”. La sua giovinezza e dunque la sua formazione intellettuale è un piroettare tra una città europea e un’altra, tra una lingua e un’altra, dalla reiterata lettura in inglese dei libri di Charles Dickens, all’ascolto religioso delle conferenze viennesi in cui Karl Kraus prendeva a manrovesci il mondo, agli incontri berlinesi con lo scrittore russo Isaac Babel’ da lui amatissimo, ma anche con un Bertolt Brecht con il quale è impagabile un dialogo raccontato ne Il frutto del fuoco, secondo tomo dell’autobiografia: “Una volta dissi – nella Berlino di allora dev’essere suonato buffo – che un poeta deve isolarsi se vuol fare qualcosa di buono. Un poeta ha bisogno di periodi dentro il mondo e di periodi fuori dal mondo, nel più stridente contrasto fra loro. Brecht disse che teneva sempre il telefono sul tavolo e che riusciva a scrivere soltanto se lo sentiva squillare in continuazione. Una grande carta geografica del mondo era appesa alla parete di fronte a lui, ed egli la guardava sempre, per non essere fuori dal mondo. Io non cedetti, e benché annichilito dalla consapevolezza che le mie poesie erano assolutamente inutili e insignificanti, perseverai nel dare i miei consigli all’uomo che scriveva quelle poesie bellissime. La morale era una cosa, i fatti un’altra: davanti a Brecht che teneva conto soltanto dei fatti, per me contava solo la morale. Me la presi coi manifesti pubblicitari che infestavano Berlino. Brecht replicò che lui non ne era affatto disturbato e che la pubblicità aveva il suo lato positivo. Aveva scritto una poesia sulle automobili Steyr, disse, e in cambio gli avevano dato un’automobile”. Mai Brecht mi era apparso così grande, così necessario.

 

Negli anni tra il 1928 e il 1931, trascorsi prima a Berlino e poi a Vienna, Canetti cova l’impresa somma della sua giovinezza, il libro di cui è una puerilità dire che fosse un romanzo. E’ un congegno intellettualmente prepotente che al lettore non lascia scampo, l’apologo più surreale del Novecento quanto alla tirannia che i libri esercitano su chi li ama, ovvero l’Auto da fé che nella sua prima edizione in lingua tedesca del 1935 aveva come titolo Die Blendung, “L’accecamento”. Il Canetti degli anni a cavallo tra i Venti e i Trenta s’era invasato di otto personaggi esemplari tutti ai limiti del fare e del desiderare, il collezionista, lo scialacquatore, l’avversario della morte, B. ovvero l’Uomo dei libri. Su ciascuno di essi aveva scritto interi spezzoni di libro. Di quegli otto personaggi fantasticati sopravvisse l’Uomo dei libri cui Canetti aveva dato originariamente per nome Brand, che in tedesco vuol dire “incendio”. In definitiva il protagonista dell’Auto da fé si chiamerà Kien, un quarantenne allampanato che nella vita altro scopo non ha se non la custodia e la lettura dei libri della sua immensa biblioteca, distribuita su quattro stanze di una casa dove a parte i libri c’è solo un divano su cui Kien dorme. Finché in quella casa non arriva una governante di cui lui crede che sarà un’accorta e disinteressata custode dei suoi tesori. La sposa, pensando di poterle riservare un cantuccio della sua casa e men che questo della sua vita. Sotto le remissive spoglie con cui si era presentata, la quarantaseienne Therese è una iena che va via via impossessandosi e delle stanze e dei libri di Kien. Non è un duello, è il massacro di un imbelle (“La centesima parte di un uomo”) e finirà con il rovinio della biblioteca e con la morte di Kein. E’ un “auto da fé”, parafrasi della solenne e atroce messa a morte dei condannati dal Tribunale dell’Inquisizione. E’ un libro con cui deve fare i conti chiunque ami i libri e ne sia posseduto alla follia. Ci volle non poco a convincere un editore viennese a pubblicarlo e ci volle poco meno di un trentennio perché quel libro risaltasse finalmente in tutta la sua unicità. Insignito del Premio Nobel per la letteratura nel 1981, Canetti è morto nel sonno a Zurigo il 14 agosto 1994. Nel cimitero zurighese di Fluntern la sua tomba dista poco da quella di James Joyce, di cui Canetti aveva scritto che in vita non si erano risultati simpatici.

 

Dovessi scegliere una frase quale insegna dell’opera di Canetti, indicherei questa: “Ben poco del male che si può dire dell’uomo e dell’umanità io non l’ho detto. E tuttavia l’orgoglio che provo per essa è ancora così grande che solo una cosa io odio veramente: il suo nemico, la morte”. E difatti per oltre cinquant’anni Canetti prese appunti destinati a comporre quel libro contro la morte cui teneva più di tutti gli altri. In realtà non lo scrisse mai, forse perché sapeva che era un libro destinato allo scacco. E seppure le duemila possenti pagine di appunti che aveva preso sull’argomento siano confluite postume ne Il libro contro la morte, pubblicato in Germania nel 2014 e tradotto da Adelphi nel 2017.

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