Nel tragico Novecento europeo la morte non ebbe affatto paura di Leningrado

Giampiero Mughini

Il freddo, la fame e un mucchio di noci nell’armadio

All’inizio del settembre 1941, quando le punte delle 32 divisioni nazi che formavano il Gruppo d’armate nord erano arrivate a quindici chilometri dal cuore di Leningrado, l’esito finale della battaglia apparve questione di pochi giorni. Avvilite da una ritirata che per oltre due mesi era stata incessante, le truppe sovietiche erano ridotte a brandelli. Non fosse per i 338 cannoni di grosso calibro montati sulle navi da guerra e sulle batterie costiere che eruttavano una tempesta di fuoco contro l’assalto dei panzer tedeschi, probabilmente l’ultimissima linea difensiva sovietica sarebbe stata schiantata. I reparti scelti delle SS già lambivano i quartieri meridionali della città, e seppure dal lato dei russi non un soldato, non un volontario o una volontaria, non un ragazzo di 15 anni cui fosse stato dato in mano un fucile, erano disposti ad accettare che su una qualche pietra della città simbolo dell’orgoglio russo sventolasse il drappo uncinato. L’esercito nazi, fosse penetrato in città, avrebbe incontrato solo macerie. Un unico pulsante avrebbe fatto esplodere contemporaneamente gli stabilimenti industriali Kirov, i viadotti della ferrovia, i ponti e tutti i grandi edifici che facevano da marchio di Leningrado. Hitler se lo poteva sognare di festeggiare l’eventuale vittoria nel celebre Hotel Astoria. Al posto dell’Hotel avrebbe trovato solo dei sassi fumanti dopo l’esplosione. Circolava tra le truppe sovietiche il motto “Leningrado non ha paura della morte. La morte ha paura di Leningrado”.

 

A inizio settembre Hitler aveva chiesto ai suoi comandanti l’ultimo balzo in modo da liberare le forze corazzate impegnate sul fronte di Leningrado e dirottarle nella manovra volta a conquistare Mosca e chiudere la guerra prima che arrivasse il “generale inverno”, il migliore dei generali sovietici sopravvissuti alla strage dell’alto comando perpetrata dal “compagno Stalin” fra il 1937 e il 1939. Forse Hitler valutò che non valeva la pena subire le perdite notevolissime che avrebbe comportato la conquista della città palazzo dopo palazzo, fatto sta che il 17 settembre il gioiello dell’attacco tedesco, il 41esimo Corpo Panzer, venne ritirato dal fronte di Leningrado e dirottato su Mosca. Gli informatori di cui disponeva l’esercito sovietico fecero sapere che i tedeschi stavano caricando i carri armati sui treni merci. “Leningrado aveva vinto”, scrive Harrison Evans Salisbury, uno dei più grandi giornalisti americani del secondo Dopoguerra, nel suo I 900 giorni pubblicato nel 1969 e al quale aveva lavorato più di vent’anni. Un libro che impressionò fra i tanti il regista cinematografico Sergio Leone, che volle trarne uno dei suoi film maestosi, e del resto a fare da comparse Michail Gorbaciov gli avrebbe fornito gratis tutti i soldati dell’Armata Rossa di cui abbisognava. Di carri armati Leone ne chiese ai russi duemila, gliene promisero cinquecento: altri millecinquecento Leone li avrebbe costruiti di cartapesta. Protagonista del racconto un cineoperatore americano, impersonato da Robert De Niro, chiuso anche lui nella città assediata e che si innamora di una ragazza russa. Non fosse che un infarto uccise Leone poco dopo l’avvio del progetto, il 30 aprile 1989, quando lui ne aveva ideato solo la sequenza iniziale, il primissimo piano di due mani al pianoforte, la camera da presa che si trae indietro a svelare la figura di Dmitri Šostakovic che suona la sua celeberrima sinfonia detta “Leningradese”, per poi uscire dalla stanza e planare sui tetti di Leningrado e via via sugli uomini e donne che stanno scavando una trincea. Il testimone caduto dalle mani di Leone lo impugnò Giuseppe Tornatore, che al progetto ci lavorò cinque anni finché non glielo dissero tutti che il film era impossibile da realizzare e non solo per i suoi costi lunari.

 

E anche se mai più i nazi sarebbero stati lì lì per irrompere a Leningrado, nella città assediata la tragedia del settembre 1941 era appena al debutto e sarebbe durata fino al gennaio 1944, quando le truppe russe espulsero i tedeschi dai dintorni della città. Per i circa due milioni e mezzo di civili rimasti lì intrappolati cominciò l’inferno su questa terra, e difatti con il suo milione di civili morti Leningrado ha pagato il prezzo di sangue più alto fra tutte le città della Seconda guerra mondiale. Il nemico assoluto, più ancora che le bombe magari da una tonnellata fatte piovere dai bombardieri tedeschi o dalle sei postazioni di artiglieria pesante disseminate intorno alla città, sarebbero stati la fame, il gelo dell’inverno russo. “La fame sarà la nostra migliore alleata”, pronunciavano quelli dell’alto comando tedesco dopo avere desistito dall’attacco frontale.

 

Tra soldati delle varie guarnigioni e civili, nella Leningrado assediata vivevano inizialmente tre milioni di persone. I viveri giungevano in città a spizzichi e bocconi su chiatte e battelli attraverso il Ladoga, il più grande lago d’Europa, sempre che gli aerei tedeschi non li affondassero prima. Se le truppe al fronte ricevevano razioni pressoché normali, a partire dal 1° ottobre la razione per i bambini di Leningrado e per chi non lavorava era un terzo di pagnotta al giorno e, pane a parte, ciascuno di loro doveva sopravvivere con mezzo chilo di cibo a settimana. A novembre e poi a dicembre le razioni vennero ulteriormente ridotte. A partire da fine novembre a Leningrado morivano tremila civili al giorno. La gente cadeva per strada, uccisa dalla fame. Oppure si sedeva su una panchina, sussurrava qualche parola e poco dopo finiva di vivere. C’era chi adorava il proprio cane e che finì per ucciderlo e mangiarlo. “A Leningrado i cadaveri avevano talvolta una bara, talvolta no”, ha scritto l’americano William T. Vollmann nel suo pirotecnico Europe Central, dove le combustioni politiche del Novecento europeo la fanno da immane scenario romanzesco. L’8 novembre Hitler parlò a Monaco: “Leningrado è condannata a morire di fame”. Ovvero Leningrado sarebbe caduta senza che i nazi perdessero un solo uomo nell’assalto.

 

Nel frattempo il Ladoga s’era ghiacciato e i viveri arrivavano su autocarri dopo avere percorso lentamente una strada tortuosissima, lungo la quale i veicoli si fracassavano a centinaia. E tanto per rendere più perfetta la scena, la temperatura media a Leningrado in dicembre scese a 12 gradi sotto zero, in gennaio a 20 gradi sotto zero, le temperature più basse degli ultimi decenni. Già scavare una fossa era un’impresa. Nell’inverno 1941-1942, scrive Salisbury, vennero scavate più di 662 fosse comuni per una lunghezza complessiva di 20 chilometri. Mancava la corrente elettrica. Niente tram. Niente acqua. A Leningrado erano spariti gli uccelli: avevano spiccato il volo verso le linee tedesche, dove di cibo ne raccattavano. Tornatore, che ha perlustrato centinaia di libri e testimonianze, racconta di una ragazza che trovò un mucchio di noci in un armadio e sopravvisse mangiandone una al giorno, metà al mattino e metà al pomeriggio. “Abbiamo conosciuto ogni cosa”, dirà più tardi il figlio del grande scrittore Leonid Andrejev. Mai nella storia dell’uomo una città aveva sperimentato tali supplizi. Ad assedio finito, nel gennaio 1944, i civili morti a Leningrado saranno dieci volte i morti di Hiroshima.

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