Aldo Buzzi, durante le riprese del film "Il mulino del Po" di Alberto Lattuada - Mantova, 1949 foto di Saul Steinberg (dominio pubblico)

Non solo uova “alla kok” nella mirabolante cucina letteraria di Aldo Buzzi

Giampiero Mughini

Nei primissimi giorni di febbraio arriverà un volume interamente dedicato alle opere dello scrittore, figura tra le più originali e ragguardevoli della cultura italiana del secondo Novecento

Cari amici che leggete il Foglio, scattate in piedi e accorrete nelle librerie italiane. Dove nei primissimi giorni di febbraio arriverà, per i tipi de La nave di Teseo di Elisabetta Sgarbi, un volume interamente dedicato alle opere di Aldo Buzzi, lo scrittore nato a Como nel 1910 e morto novantanovenne a Milano nell’ottobre 2009, figura tra le più originali e ragguardevoli della cultura italiana del secondo Novecento. Lo so, lo so, che alcuni di voi a stento lo hanno sentito nominare dato che lui vivente i suoi libri smilzi e succulenti editi per lo più da Vanni Scheiwiller non arrivavano a vendere 1.000 copie ciascuno, con l’eccezione del mirabolante “L’uovo alla kok”, pubblicato da Adelphi nel 1979. Appunto, è ora di recuperare quello che vi siete persi in fatto di grazia intellettuale, di libertà sconfinata nell’oltrepassare i recinti usuali della letteratura, di un’intelligenza che non si negava nulla quanto allo scovare e illuminare i particolari i più imprevedibili e del vivere quotidiano e della storia culturale. In fatto di uno che aveva come insegna intellettuale questa: “In genere purtroppo è difficile che mi sbagli, dico purtroppo perché avere ragione non è una buona cosa come sembra e si potrebbe aggiungere scherzando che la vita è di chi ha torto”.

    

E difatti quelli che di noi amano Buzzi non è che lo amano, lo adorano. Il mio amico Francesco De Gregori uno di loro. Antonio Gnoli un altro, lui che ha curato e cucito assieme l’imminente libro di cui sto dicendo. Il sottoscritto ovviamente, che i librini di Buzzi è andato via via cercandoli uno a uno nelle loro prime edizioni, e al quale brucia ancora il rimorso di non avere conosciuto lo scrittore comasco de visu. Era la tarda primavera del 2009 ed era appena uscito un mio libro in cui tessevo l’elogio il più sperticato possibile di Buzzi. In una libreria milanese mi dissero che in quel momento erano tanti i clienti che chiedevano un libro di Buzzi. Non ricordo più se fui io a telefonargli o se fosse lui a farlo. Gli dissi che in giugno o in luglio sarei stato a Milano e lo avrei cercato per incontrarlo. Accadde poi che il mio soggiorno a Milano fosse più breve e che io non riuscissi a trovare il tempo per andare a bussare alla casa di Buzzi a Lambrate. Tornato a Roma, gli telefonai senza successo. Pensavo che erano questione di settimane e che sarei tornato a Milano, imbecille che sono stato: a non pensare che per un uomo di 99 anni il tempo s’è fatto stretto stretto. Il 9 ottobre Buzzi morì di un’emorragia cerebrale. Nel 2005 era morta Laura Lattuada, sorella del regista cinematografico Alberto Lattuada, quella di cui Buzzi diceva che per sessant’anni era stata “la sua compagna di vita, molto più che una moglie”.

   

Nella Milano degli anni Trenta Buzzi aveva studiato e poi si era laureato in Architettura al Politecnico. Era solito dire che studiare architettura ti aiuta non soltanto a fare la punta a un lapis, ti aiuta a capire le cose della città e del mondo, salvo poi lasciar perdere e a meno che tu non ne abbia il dono. In quella Milano Buzzi bazzica i Lattuada, Bruno Munari, Leonardo Sinisgalli ma soprattutto quello che diventerà l’amico e l’interlocutore di una vita, un ebreo rumeno di nome Saul Steinberg, destinato a diventare un cartoonist dei più famosi del Novecento. (Buzzi racconta che frugando nella biblioteca newiorchese di Steinberg, trovò un libro di Pablo Picasso con la seguente dedica “Au maître Steinberg”). Buzzi l’architettura l’ha lasciata, come successivamente tante altre cose della sua vita. Per la via del rapporto con Lattuada si avvicina al cinema, tanto da scrivere in combutta con lui il film del 1942 “Giacomo l’idealista”. Di quei suoi anni da “cinematografaro” resta una traccia luccicante, il librino del 1944 “Taccuino dell’aiuto-regista” messo in pagina nientedimeno che da Munari. (Troverete anche questa primizia nel volume de La nave di Teseo.) E comunque a partire dagli anni Sessanta anche il cinema è un’esperienza che Buzzi si lascia alle spalle. Diventa caporedattore presso la Rizzoli libri, dove resterà dieci anni. E’ uno che raccomanda brevità, essenzialità agli autori di cui passa al vaglio le opere. Una volta il suo caro amico Mario Soldati lo chiama a sé per giudicare il dattiloscritto di un libro che intende pubblicare. Buzzi gli raccomanda un bel po’ di tagli e di accorciamenti, solo che il direttore della collana in cui il libro sarà pubblicato – ossia Giorgio Bassani – è di parere opposto, e cioè che quei tagli impoverirebbero la materia narrativa del libro. Soldati segue il parere di Bassani, e Buzzi un tantino se ne offende. Lo racconta molto bene un giovane ricercatore universitario, Luca Gallarini, in un libro da lui dedicato ad Aldo Buzzi (“Le molte vite di Aldo Buzzi”, Edizioni Ets, 2018).

    

Fatto è che dal 1944 al 1972, per quasi trent’anni, il poligrafo Buzzi non scrive un solo libro. E’ come se stesse cercandosi, se tastasse il terreno a piccoli passi. Di certo non ha alcuna voglia di scrivere dei romanzi che siano spiaccicati dei romanzi, o dei saggi che siano spiaccicati dei saggi. Quello che gli brucia dentro è tutt’altra cosa, tutt’altro groviglio, libri (anzi librini) come non ne erano stati scritti mai. E’ il caso del suo secondo libro, il “Quando la pantera rugge” che nel 1972 gli pubblica Vanni Scheiwiller in un’edizione di 1.000 copie e io dubito che ne siano state vendute al tempo più di 300-400, com’era del resto di tutti i meravigliosi “pesciolini” di Scheiwiller, destinati non ad essere venduti ma ad esistere, a testimoniare una qualità altra della letteratura, a strafottersene del “mercato” e del “successo”. Né saggio né raccolta di racconti (ce ne sono un paio memorabili), piuttosto una costellazione di frammenti ciascuno diverso dall’altro. Scritti da uno che il prossimo suo, ossia la gente che gli scorre accanto per le strade di una grande città, lo descrive così: “Il cielo era rosso, il fumo degli autobus nero, l’aria irrespirabile. I passanti avevano tutti un’aria equivoca, complottavano furti, truffe con la patacca, circonvenzioni di incapaci, salivano in moto per uno scippo, entravano dal tabaccaio a comprare cambiali alle quali non avrebbero mai fatto onore”. Preferite uno che i nostri conterranei li descrive così, ossia più o meno come sono davvero e come li incontriamo giorno dopo giorno, oppure uno dei tanti Sacerdoti del Bene che non perde occasione per raccomandarci i poveri, le donne sempre e comunque, quelli che nella scala sociale sono restati in basso?

  

Ancora un librino per Scheiwiller e poi nel 1979 il libro/mito, “L’uovo alla kok”, il libro consacrato all’unica religione professata dal laico Buzzi, quella religione del cibo che dà lustro alla vita di tutti i giorni, ai momenti della vita quotidiana che sono poi gli unici momenti reali. Il momento in cui ti siedi, e deve essere giusto ogni particolare della stanza o della sala in cui stai mangiando, e scegli una pietanza, e scegli quale vino accordare a quella pietanza badando bene che se un vino lo hai portato su dalla cantina, allora devi portarlo lentamente soffermandoti quasi a ogni gradino della scala. E se scegli un uovo sodo deve avere “il rosso molle” e guai a farselo sbucciare dall’eventuale cameriere (“Non voglio vedere ditate sul bianco! E checcacchio! L’uovo sodo è un cibo immacolato: Non c’è ragione di sporcarlo”).

   

Dal 1972 e sino alla fine del secolo, Buzzi pubblica sette o otto libri, fra cui il bellissimo “Cechov a Sondrio” che negli Usa – dove a promuovere Buzzi c’è il fidatissimo Steinberg – giudicheranno “libro notevole” dell’anno. I periodici viaggi a New York dall’amico Steinberg e gli scambi epistolari fra i due fanno da canovaccio della vita dell’ottantenne Buzzi. Al quale l’amico americano scrive incredulo che i suoi libri vendano così poco in Italia. Inutile dire che il più delle volte è proprio lo stesso Steinberg ad arricchire con i suoi fulminanti disegni i libri di Buzzi. Bellissimo è il libro della Adelphi dove sono pubblicate le lettere che si scambiavano i due amici. Nato nel 1914, Steinberg muore nel 1999, dieci anni prima di Buzzi. Mi chiedo quanto sia stata aspra la sua solitudine, dopo la morte di Steinberg e quella successiva della “compagna” Laura Lattuada, una solitudine che l’imbecille che sono stato non ha saputo interrompere un attimo tra la primavera e l’estate del 2009.

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