La biblioteca di Michelstaedter che svela la topografia culturale di Trieste e Gorizia

Giampiero Mughini

L’eredità lasciata da un giovane artista ebreo

Era il 17 ottobre del 1943, il giorno successivo alla razzia tedesca di 1000 ebrei romani, quando la sessantaquattrenne Elda Michelstaedter valutò che la minaccia dei nazi nei confronti di loro ebrei goriziani s’era fatta cogente, che da un momento all’altro ne sarebbe potuto venire un colpo “grave” a lei e alla madre ottantanovenne, Emma Luzzatto Coen Michelstaedter, e che c’era da salvare il salvabile ma non più di questo. Per lei, devota alla memoria del geniale fratello Carlo Michelstaedter, suicidatosi ventitreenne alle due del pomeriggio del 17 ottobre 1910 con un colpo di pistola alla tempia, al primo posto del salvabile stavano i libri di suo padre Alberto (una sorta di bibliomane dai vasti interessi, morto settantanovenne nel 1929) e quelli del fratello magari da lui appuntati, tra le poche tracce per iscritto che lui aveva lasciato durante il breve tragitto di vita – quanto di più intenso, di più drammatico – che lui aveva percorso all’incrocio tra cultura italiana e cultura mitteleuropea. Elda li prese uno a uno quei libri che stavano in una casa dove i libri avevano qualcosa di sacro, ne fece una lista, il tutto lo mise in una cassa che affidò a una famiglia di cui si fidava e che non temeva di star aiutando i suoi vicini ebrei. Assieme ai libri Elda lascia un foglio su cui sta scritto: “Da tenere con cura e in grave caso da dare a mia sorella Paula”.

 

E del resto nella famiglia Michelstaedter i “casi gravi” erano di casa: l’anno prima del suicidio di Carlo, nel 1909, s’era dato la morte il maggiore dei quattro fratelli e sorelle, Gino (nato nel 1877), di dieci anni più grande di Carlo, uno che aveva scelto di vivere a New York. Delle due sorelle Michelstaedter, Elda (nata nel 1879) era la maggiore, mentre sua sorella Paula (nata nel 1885) e il figlio Carlo Winteler dopo il 1941 erano andati in Svizzera a ripararsi dalle minacce nazi che avevano a bersaglio gli ebrei italiani. E in effetti Elda riuscì a mettere in salvo i libri dei suoi cari giusto in tempo. Pochi giorni dopo, nella prima decade del novembre 1943, i nazi rastrellarono tutti gli ebrei che abitavano a Gorizia, ivi compresa Elda e la madre che è probabile sia morta durante il viaggio sul treno che dalla Risiera di San Sabba, il 22 novembre 1943, le avrebbe portate ad Auschwitz. Elda morì un anno dopo, il 26 dicembre 1944, nel campo di Ravensbrück, il più grande lager femminile del Reich.

 

Ebbene nell’agosto del 2018 i libri contenuti nella cassa amorosamente preservata da Elda, un complesso che secondo l’elenco da lei stilato avrebbe dovuto essere di poco più di 200 volumi di cui 56 appartenuti a Carlo (ma non tutti sono stati ritrovati), li ha scovati un formidabile libraio antiquario triestino, Simone Volpato (“un bracco librario”, lo chiamano a Trieste), uno che con i suoi ritrovamenti sta contribuendo a riscrivere la storia culturale di quello spicchio di mondo che non ha l’eguale al mondo, Trieste e i suoi annessi e connessi geografici e sentimentali. Tra i libri contenuti nella cassa ritrovata e appartenuti a Carlo c’erano o avrebbero dovuto esserci una biografia di Dante Alighieri scritta da Giovanni Boccaccio, la seconda edizione in tedesco del 1909 dell’“Interpretazione dei sogni” di Sigmund Freud, due edizioni ottocentesche di Ugo Foscolo (in una lettera alla madre, Michelstaedter scrive di “aver passato la nottata” con gli amici a leggere “I sepolcri”), una silloge teatrale di Victor Hugo in francese, un Omero tradotto da Vincenzo Monti, libri di Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini, gli “Aforismi” di Arthur Schopenhauer editi da Bocca nel 1909 e altri quattro libri del filosofo tedesco, talmente prediletto da Michelstaedter fin dall’epoca del Ginnasio. E ancora. Il numero 44 della “Voce” di Prezzolini con numerose sottolineature a matita rossa dell’articolo di Scipio Slataper dedicato al Friedrich Hebbel di cui lui aveva tradotto in italiano la bellissima pièce del 1839 dal titolo “Giuditta”, ben sei libri di Lev Tolstoj, ben quattro fra testi e libri che avevano come tema il suicidio, due massicci dizionari per tradurre dal tedesco rispettivamente in greco e in latino. La storia di queste carte abbandonate e poi ritrovate, che è come se grondassero sangue (oggi stanno alla Biblioteca statale isontina), è raccontata al dettaglio da un libro appena uscito, “La casa dei libri. La famiglia Michelstaedter e la Shoah”, Antiga Edizioni, Treviso.

 

Nella topografia culturale della diade novecentesca Trieste/Gorizia c’è “un caso Michelstaedter” così come c’è “un caso Svevo”, “un caso Slataper”, “un caso Saba”, e del resto l’inesauribile Simone Volpato annuncia per il prossimo aprile “La libreria fu il luogo della mia morte. Confessioni temerarie di Umberto Saba”, un libro di cui mi ha raccontato qualcosa e che quanto a suggestioni inedite non scherza davvero. Sergio Campailla – più ancora che il massimo studioso italiano di Michelstaedter è il sacerdote autorevolissimo che ne amministra il culto – ha scritto nella versione definitiva della sua biografia di Michelstaedter (“Un’eterna giovinezza”, Marsilio, 2019) che tutto quanto attiene al giovane goriziano suicida a 23 anni è una sorta di “festa dell’intelligenza”. Carlo non aveva nemmeno sostenuto l’esame per la tesi di laurea quando si diede la morte. Per un paio di decenni tutto del suo talento e della sua memoria s’era conservato in una toccante edizioncina postuma in due volumi che aveva curato nel 1912-1913 un suo ex compagno di studi universitari fiorentini, il napoletano Vladimiro Arangio-Ruiz, ed erano i due successivi volumetti dal titolo “Dialogo sulla salute: poesie” e “La persuasione e la retorica”, rispettivamente 83 e 163 paginette in tutto e per tutto. Nei brevissimi anni della sua esistenza, Michelstaedter aveva avuto il tempo di essere un poeta, uno scrittore, un filosofo ma anche un pittore, e il solito Campailla ne ha curato un paio di mostre avvincenti, se si pensa che il materiale offerto altro non era che i primissimi schizzi di un artista che si stava cercando.

 

E a proposito dei due volumetti dell’edizione Formiggini, un’edizione tutt’altro che impeccabile dal punto di vista filologico, è interessantissimo il lavoro di un ricercatore universitario (Fabrizio Meroi, “Persuasione ed esistenza”, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2011) il quale ha frugato a lungo nell’Archivio modenese dell’editore ebreo morto suicida. Arangio-Ruiz si batté invano perché la successione editoriale dei due libri fosse inversa a quella effettivamente realizzata. Arangio-Ruiz argomentava invano che il corpo ideale e filosofico di Michelstaedter veniva prima delle poesie, le quali andavano lette in ragione dell’esistenza di quell’assieme di idee e tensioni ideali (quando una ventina di anni fa ho comprato da un libraio antiquario milanese i due volumi Formiggini, il primo che ho letto è stato “La persuasione e la retorica”. Le poesie di Michelstaedter ai miei occhi ne erano in un certo modo la filiazione.) Ma Formiggini, che non era particolarmente incantato dalle opere dello scrittore goriziano, tenne duro. Secondo lui nel 1912 un libro di poesie aveva più pubblico di un libro di argomentazioni filosofiche e perciò, trattandosi di un autore sconosciuto, era meglio cominciare da quelle.

 

Un’edizione comunque fatale dopo la quale, nel 1958, ne sopravvenne una seconda edita da Sansoni e molto più accurata filologicamente dovuta all’altro compagno di studi universitari di Michelstaedter, il professor Gaetano Chiavacci. Finché, in anni più recenti, le opere dello scrittore goriziano sono entrate a far parte del reame il più prelibato dell’editoria italiana, l’Adelphi, e dunque sottoposte alle cure di Campailla. Notevole l’“Epistolario”, più e più volte riedito e aggiornato da Adelphi fino all’ultimissima edizione del 2010. Dov’è integrale la terribile lettera al padre del 31 maggio 1908, quella in cui Carlo gli indica le sofferenze e i guai dell’“altro affare”, ossia dell’aver contratto la sifilide in un bordello. Una sofferenza e un’umiliazione, tanto più grande per uno che proveniva da una famiglia ebraica di stretta osservanza, che non dové essere senza conseguenze. Su una plaquette dov’era la commemorazione di Michelstaedter, che Carlo Bo tenne nel 1960 a Gorizia, c’era una foto di Carlo di cui è andato smarrito l’originale e che risale a quei mesi tra la fine del 1908 e l’inizio del 1910. Un volto dov’era visibile la devastazione del “vivere o non vivere”, la pista che per Michelstaedter era divenuta non più un enigma, bensì una tragedia.

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