Uffa!

Il fumus delle Procure che offuscò anche l'ultima indagine su Piazza Fontana

Giampiero Mughini

Il giudice Salvini, la ricerca della verità e il nemico Casson

Ci sono libri la cui lettura è obbligatoria per un cittadino repubblicano. Come dire altrimenti di questo La maledizione di piazza Fontana (Chiarelettere editore, novembre 2019), pagine su cui il sessantacinquenne magistrato milanese Guido Salvini è come se scaraventasse drammaticamente tutto il senso della sua vita e della sua passione professionale, spesa a partire dagli ultimi Ottanta a indagare frammento per frammento la tragedia per eccellenza dell’ultimo mezzo secolo di storia italiana, il chi e il come della bomba esplosa a piazza Fontana nel primo pomeriggio del 12 dicembre 1969. Cinquant’anni fa.

 

Una tragedia che dal punto di vista giudiziario è rimasta irrisolta, dato che non c’è un solo colpevole ufficialmente riconosciuto come tale dalle sentenze prodotte da tre successivi megaprocessi. L’ultimo quello avviato da un’indagine del giudice istruttore Salvini e che in primo grado, nel 2001, si chiuse con la condanna all’ergastolo di due militanti di Ordine nuovo di Mestre, Carlo Maria Maggi (nato nel 1934, morto nel dicembre 2018) e Delfo Zorzi (nato nel 1947), successivamente assolti prima in appello e poi il 3 maggio 2005 in Cassazione. Con una sentenza che addossava ai familiari delle 17 vittime della Banca nazionale dell’agricoltura il pagamento delle spese processuali. Nel frattempo Salvini non ha arrestato le sue indagini, non ha smesso di tentare di arrivarci ai nomi di quelli le cui mani azionarono l’ordigno letale, ha collezionato testimonianze ulteriori e particolari rilevanti che se ci fosse un quarto processo sarebbero probabilmente decisivi nel far condannare alcuni famigerati estremisti di destra. Il magistrato milanese c’è andato in Sudafrica dove dal 1981 vive indisturbato il generale Gianadelio Maletti, che oggi ha 98 anni e che nel 1969 era il capo del Sid, il servizio di controspionaggio. Accusato di avere favorito la fuga di due agenti doppi quali Guido Giannettini e Marco Pozzan, nel 1987 era stato condannato definitivamente a due anni. Salvini lo descrive così: “E’ un uomo di grande pragmatismo e di pochi rimorsi”.

 

Nel parlare con Salvini che lo sta interrogando su chi ha agito a piazza Fontana, Maletti non fa lo gnorri, tutt’altro. “C’era un piano di attentati che non doveva limitarsi a piazza Fontana, erano in programma altri attacchi: contro le sedi politiche, le strutture industriali e le vie di trasporto. Solo che la bomba di piazza Fontana doveva esplodere a banca chiusa, quei morti non ci dovevano essere. Gli esecutori violarono le direttive e uccisero diciassette persone. Il piano dovette essere annullato”. Un piano a sovvertire le strutture politiche e istituzionali della nostra Repubblica, continua Maletti di cui probabilmente Richard Nixon sapeva e di cui sapeva tutto Giulio Andreotti e anche l’allora presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat. Lei sa chi c’era quel giorno a piazza Fontana? gli chiede ancora Salvini. Maletti indugia un attimo prima di rispondere: “I neofascisti erano in quattro e certamente avevano un’auto di supporto. Due entrarono in banca, altri due rimasero di guardia”. I nomi? Maletti ne fa due, quello di Ivano Toniolo (nato nel 1946), un ordinovista che nessuno tranne Salvini aveva mai cercato e che già nel 1972 s’era rifugiato in Angola dov’è morto nel 2015, e quello di Delfo Zorzi, che da alcuni decenni vive in Giappone dov’è divenuto un imprenditore di successo.

 

Eppure l’importanza del libro di Salvini sta altrove. Che io sappia è il primo libro che racconta in ogni particolare e dettaglio la “guerra civile” tra due magistrati italiani, una guerra scoppiata nel 1995 e durata sette anni, ossia lo scontro frontale tra Salvini, giudice istruttore a Milano, e il pubblico ministero di Venezia e suo coetaneo Felice Casson. Uno scontro la cui posta in gioco era se Salvini potesse restare a fare il suo lavoro a Milano o dovesse essere esiliato in qualche procura di provincia da quanto era “incompatibile” con la materia di cui si stava occupando. Una guerra che ha immensamente nuociuto all’efficacia dell’azione della magistratura che indagava sulla “pista nera” connessa a piazza Fontana. Una guerra fratricida la cui intensità di accuse e controaccuse (in buona sostanza Salvini era accusato da Casson di star dando una mano ai delinquenti neri col “depistare” le indagini) getta una luce sinistra su quel comparto a sé della vita pubblica italiana che è la magistratura e il suo funzionamento gerarchico. I particolari di questa lotta raccontata in dettaglio da Salvini sono agghiaccianti, al confronto i “telescazzi” televisivi in cui un paio di esagitati se ne dicono di tutti i colori sono litigi da infanti. Qui sono in campo accurate e implacabili strategie volte a distruggere la credibilità morale, l’identità professionale del magistrato sotto schiaffo – in questo caso Salvini – e di cui è il Consiglio superiore della magistratura che deve decidere il destino. E’ da brividi il pensiero che il funzionamento della giustizia in Italia possa essere intaccato da tali e squallide rivalità, un magistrato che si avventa contro un altro perché vuole lui la primazia dell’azione giudiziaria e il risalto delle prime pagine dei giornali.

 

Da questa “guerra civile” Salvini è uscito perfettamente indenne nel senso che tutte le accuse contro di lui sono state archiviate perché insussistenti, ma per sette anni consecutivi è stato “come in una cella della morte”. E tanto più che l’azione di Casson nei suoi confronti ebbe il conforto di due magistrati milanesi autorevolissimi, il capo della Procura Francesco Saverio Borrelli e l’altrettanto celebre Ferdinando Pomarici, una cui intervista al Corriere della Sera del 15 novembre 1995 ha per titolo La Procura: piazza Fontana, illegittime le indagini di Salvini. Un’intervista che lasciò stupefatto l’avvocato che assisteva i famigliari delle vittime del 12 dicembre, Federico Sinicato, il quale disse che la Procura di Milano stava buttando al macero un anno di indagini di Salvini.

 

E qui cade l’asino. Il fatto è che la solitudine di Salvini in quel momento talmente delicato del suo iter professionale ha una spiegazione lampante. Salvini è uno dei pochissimi magistrati italiani che non aderisce a nessuna delle correnti in cui è divisa o meglio spaccata la magistratura. A queste condizioni è stato per lui impossibile o quasi trovare qualcuno che stesse dalla sua parte, che irridesse all’accusa di “incompatibilità ambientale” che gli era stata mossa. Alla pagina 306, in una nota, Salvini ha parole accorate e pesanti come il piombo nei confronti del suo mondo professionale, un mondo talmente decisivo per la qualità della democrazia italiana: “Sarebbe venuto anche per me il momento in cui molti si dedicano alla ‘carriera’, puntando agli incarichi direttivi. Ci si autosponsorizza presso il Csm, si frequentano riunioni e convegni spesso inutili, si tessono relazioni, si mostra piaggeria verso i magistrati più potenti, si prendono posizioni secondo l’onda di quel momento. Soprattutto si fa ‘vita associativa’, cioè si frequenta una corrente attendendo pazientemente il proprio turno per diventare, grazie alla militanza, un capo […] Fare il dirigente significa spesso costituire una cerchia nel proprio ufficio e portare in alto i propri colleghi preferiti, destinati a succedere al capo”.

 

Nel mio piccolo, di uno che passa le sue giornate racchiuso nel suo studio/biblioteca e che esce di casa solo per andare a comprare i giornali, credo di sapere apprezzare queste parole dell’“indipendente” Salvini contrapposto al Felice Casson che più tardi sarebbe stato eletto al Senato in una lista di partito, il che suona così e così per uno che di mestiere avrebbe dovuto volare altissimo sopra le parti.

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