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I libri vivono nelle mani tremanti di chi li ama, non nelle cantine delle biblioteche

Giampiero Mughini

Lasciti. Meglio vendere che donare, se non si è Philip Roth

C’è stato un tempo lungo nella storia dell’uomo dov’era impensabile che nelle abitazioni private non ci fosse una stanza adibita ai libri, alla biblioteca privata del padrone di casa. Quando nei miei vent’anni entravo in casa di uno dei miei sodali, prima o poi ci sbattevo contro una parete tappezzata di libri. E dunque non c’era catalogo di un’azienda produttrice di arredi di design che non contemplasse i mobili destinati a ospitare i libri. Per stare al nostro secondo Novecento, le bellissime librerie disegnate da Ico Parisi negli anni Cinquanta, la libreria LB7 di Franco Albini tuttora prodotta dalla Cassina, le librerie della collezione Memphis inaugurata da Ettore Sottsass nel 1980, la libreria in vetro disegnata da Renzo Piano per FontanaArte (credo l’unico oggetto di arredo da lui mai disegnato).

 

Per quel che è della mia vita, è stata scandita decennio dopo decennio dalle librerie che arrivavano via via a ospitare i vari comparti della mia biblioteca. Quando mi sono trasferito a Roma nel gennaio 1970, un tempo in cui avevo a stento di che mangiare due volte al giorno, per alcuni anni i libri rimasero ammucchiati qua e là alla men peggio. Finché nella primavera del 1974 trovai i soldi di che pagare quattro o cinque librerie in frassino naturale. Quando vennero a montarle ero talmente emozionato che mi sentii male. Era un debutto simbolicamente importante, l’arrivo delle librerie che fungevano da molecole fondanti della mia biblioteca. Che oggi occupa sette stanze della casa dove vivo.

 

Ebbene leggevo pochi giorni fa nel supplemento dedicato all’abitare di non ricordo più quale quotidiano che le aziende di design cominciano a tentennare se continuare o no a progettare e costruire librerie perché i libri vanno via via scomparendo dalla dimensione quotidiana del vivere comune. Lì dove un tempo c’erano delle librerie, oggi ci vanno altri mobili, mobili che abbiano una funzione differente. Ad esempio – ce n’erano le fotografie sul supplemento di cui vi ho detto – tre o quattro mensole orizzontali atte a contenere una pianta, due o tre vasi, tre o quattro libri. Così va il mondo, madama la marchesa. Niente più libri e niente più biblioteche private e relative librerie. E del resto mettetevi nei panni di una coppia giovane, lui che ha un lavoro irregolare e mal pagato, lei idem se non peggio, ma dove lo trovano il contante di che pagare uno spazio della casa destinato ai libri?

 

I libri, quelli di cui ancora la mia generazione non poteva fare a meno. Un regista che è stato un cantore di quella generazione, il mio amico Marco Tullio Giordana, mi ha mandato qualche giorno fa le foto di alcuni libri appartenuti a Antonio Gramsci quando era recluso in un carcere fascista, libri che adesso sono custoditi nel Fondo Visconti (Luchino) della Fondazione Gramsci, accanto a quelli di Palmiro Togliatti, Giancarlo Pajetta e altri. Ebbene tra quei libri consumati dal Gramsci condannato dal fascismo perché il suo cervello smettesse di ragionare c’erano tre libri in lingua originale del Louis-Ferdinand Céline degli anni Trenta, il Voyage au bout de la nuit del 1934, il Mort à crédit del 1936 e lo spettacolare pamphlet Mea culpa del 1937 scritto di ritorno dall’Urss staliniana, dove Céline era andato a godersi i diritti d’autore dei due precedenti romanzi. Mica male un Gramsci che poco prima di morire legge, o più probabilmente divora, il resoconto il più aguzzo e spietato dell’orrore del comunismo reale che sia stato pubblicato negli anni Trenta.

 

I libri, le biblioteche private. Ho qui in mano il ritaglio del Corriere della Sera dove raccontano che Philip Roth ha donato la sua biblioteca privata di circa 7 mila volumi alla Newark Public Library, la biblioteca pubblica della città in cui è nato, la quale però non fa quello che farebbe una corrispondente biblioteca pubblica italiana, ossia tenere i libri rinchiusi negli scatoloni in uno scantinato. No. Hanno incaricato un architetto di valore di ricostruire in una stanza della biblioteca lo studio di Roth ivi compresi la sua scrivania di lavoro, la sedia e la poltrona.

 

Per dire di una biblioteca privata italiana di cui conoscevo la leggenda, la biblioteca di 10 mila volumi del mio professore di Letteratura italiana all’Università, Carlo Muscetta, una biblioteca che lui si era trascinato appresso tutta la vita, da Parigi a Catania dov’era venuto a insegnare, lui la donò a non ricordo più quale biblioteca pubblica della sua città natale, Avellino. Voglio sperare che ne abbiano fatto un buon uso. Ma che uso si può fare di una biblioteca talmente raffinata in una città remota del meridione? O forse sono io che mi sbaglio, forse ad Avellino ci sono frotte di ragazzi che non vedono l’ora di scorrere le pagine delle prime edizioni di letteratura italiana degli anni Trenta e Quaranta, da Alfonso Gatto a Eugenio Montale. Per quanto mi riguarda, Michela ha già le mie disposizioni per quando avrò tolto il disturbo. La mia biblioteca non deve sopravvivere di un giorno alla mia morte. Ne devono venire fuori dei cataloghi di vendita antiquaria scomparto per scomparto, la letteratura italiana, i libri di Bruno Munari, le avanguardie degli anni Sessanta-Settanta, i libri di design eccetera. Cataloghi, come quello bellissimo che la Libreria Pontremoli fece dei miei libri futuristi, e ricordo ancora la gioia di un trentenne che non credo fosse ricco e che aveva pagato la bellezza di 4.000 euro una copia pressoché unica della Cucina futurista di Filippo Tommaso Marinetti. I libri vivono se vanno nelle mani tremanti di chi li ama, se qualcuno pur di comprarli rinuncia a qualcos’altro, non se vanno a marcire nello scantinato di una biblioteca pubblica.

 

Anche da questo punto di vista la cultura italiana non sa dire pane al pane, ossia vendere le biblioteche private, farci un catalogo, raccontare una passione, lasciare una traccia, sollecitare chi ama i libri a comprarli. Dappertutto è un donare libri a destra e a sinistra, libri le cui pagine non verranno mai aperte. Carmelo Bene, e tanto per fare un esempio, si vantava di avere una biblioteca privata di 20 mila libri. Ne aveva in realtà 6 mila, che anche lui ha donato. Chissà in quale anfratto staranno marcendo. Avessero fatto un catalogo, io mi sarei precipitato a comprarne qualcuno e dunque a far vivere quei libri dopo la morte del loro proprietario. Rarissimi in Italia i casi di grandi biblioteche private di cui sia stata fatta una vendita. Un collezionista e un intenditore raffinato di libri era stato il poeta Leonardo Sinisgalli, libri che misero in vendita una trentina d’anni fa in un catalogo in cui il nome del poeta non figurava affatto. Io che quei libri li conoscevo perché c’ero stato nella casa romana di Sinisgalli, mi precipitai a comprarne tre o quattro.

 

Tutt’altra cosa nella cultura che nel Novecento ha fatto da madrepatria del libro di cultura, la cultura francese, dove si susseguono i cataloghi di vendita che offrono le più belle biblioteche private francesi. Due bibliofili accaniti erano due personaggi/monstre della moda francese, Pierre Bergé e Karl Lagerfeld. Il 7 novembre scorso, alla Fondazione Pierre Bergé è andata all’asta la fenomenale collezione di letteratura francese novecentesca di Geneviève e Jean-Paul Kahn, una collezione il cui catalogo d’asta (curato dal grande libraio belga Philippe Luiggi) è forse il più bel libro mai apparso sulla letteratura francese del Novecento. Vi sono schedati 290 libri/capolavoro di ciascuno dei quali Jean-Paul Kahn possedeva una copia eccezionalmente speciale, accompagnata com’era da una dedica personalizzata, da pagine autografe dell’autore, da disegni fatti ad hoc, copie per lo più provenienti da altre e parimenti eccezionali biblioteche private. E’ un catalogo che fa da fluorescente monumento al secolo di carta, ai suoi protagonisti, ai suoi vezzi, ai suoi drammi. A quell’asta ho battuto un gioiello di cui sono ingordo da tempo, un libro di Julius Evola dadaista. Non ce l’ho fatta, dannazione.