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L'inganno dell'illuminismo radicale al tempo delle masse analfabete

Antonio Gurrado

Il popolo non legge, ma Eugenio Scalfari dialoga con Voltaire

Si porta molto l’illuminismo, di questi tempi, ma dipende da come lo si indossa. Per alcuni è il vessillo dell’ottimismo e la migliore incitazione al progresso, come nel caso di Steven Pinker: il docente di Harvard ha pubblicato lo scorso anno “Illuminismo adesso. In difesa della ragione, della scienza, dell’umanesimo e del progresso” (Mondadori) a cui il Foglio ha già dedicato lo spazio che meritava. Per altri l’illuminismo è invece la barricata dietro cui ripararsi dalla degenerazione del presente. Credo si tratti dell’onda lunga del fenomeno descritto da Michele Battini, che ha dedicato “Necessario illuminismo” (Edizioni di Storia e Letteratura) alle figure che nel Dopoguerra italiano hanno cercato di combattere l’irrazionalismo che aveva causato le grandi dittature, da Momigliano a Diaz, da Prosperi a Ginzburg. “Tendenze divenute ancora più pericolose in un contesto dominato dalla rete e dalle procedure di falsificazione dei linguaggi politici”, scrive addirittura nel risvolto la compassata casa editrice.

  

Questo bisogno di illuminismo come antidoto si è agevolmente popolarizzato, come dimostra la recente riedizione in edicola di un classico di Eugenio Scalfari, “Alla ricerca della morale perduta”, in cui il fondatore di Repubblica dialoga con Voltaire coniugando di fatto illuminismo e spiritismo. Contro il logorio della vita moderna si è diffusa dunque l’identificazione dell’illuminismo con una militanza basata sul presupposto che i fautori dei mali del mondo contemporaneo – il sovranismo, certo, il populismo ma anche l’inquinamento, il machismo o il capitalismo tout court – siano tali per un difetto di razionalità o almeno di ragionevolezza. Ostentare il contrario, autocertificandosi philosophes o dialogando con Scalfari che dialoga con Voltaire, è sia un modo di affermare di appartenere a una resistenza puramente teorica sia, scaricando ogni responsabilità sull’irragionevolezza altrui, un ottimo collutorio per la coscienza. Come sempre, quando un fenomeno si diluisce diventando pop si verifica un contraccolpo che lo riconduce in maniera brusca al suo nocciolo più hard. E’ il caso del saggetto di una filosofa catalana, Marina Garcés, “Il nuovo illuminismo radicale” (Nutrimenti). La Garcés nota che viviamo in un mondo “radicalmente anti-illuminato”, specie nella “pulsione autoritaria” che viene fraintesa per populismo, nelle “identità difensive e offensive”, nella “fascinazione per il premoderno” di cui la politica e la società attuali forniscono di continuo esempi roboanti, dallo sventolio di rosari al sospetto verso i vaccini. Questi fattori sono tutti basati su una “credulità volontaria” delle masse, vittime di “analfabetismo illuminato” a causa della gran mole di informazioni indistinguibili immediatamente a disposizione. Il pamphlet propone un nuovo illuminismo radicale che “riprenda la lotta alla credulità e affermi la libertà e la dignità dell’esperienza umana nella sua capacità di apprendere da se stessa”, riportandoci “alle radici dell’illuminismo, come atteggiamento e non come progetto, come confutazione dei dogmi e dei poteri che se ne beneficiano”.

   

L’eco di Kant, e della sua “Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo?” che tutti abbiamo letto al liceo, è piuttosto chiara, anche se qua e là bisogna farsi strada fra l’occasionale supercazzola; la Garcés parla di “progetto storico concreto delle classi dominanti europee, vincolato allo sviluppo del capitalismo industriale tramite la colonizzazione” come se fosse antani, e vuole “un illuminismo planetario, più geografico che storico e più mondiale che universale” con scappellamento a destra. Più significativo è invece che, per farci mirare all’uscita dell’uomo da un nuovo stato di minorità, ripeschi il concetto di “illuminismo radicale”: categoria storiografica recentissima, travagliata e controversa. E’ stata coniata nel 1981 da Margaret C. Jacob che, nel saggio “Radical Enlightenment”, la ravvisava nel sottobosco di panteisti, massoni, repubblicani il cui fermento sarebbe stato sconfitto dalla prevalenza del compromesso fra philosophes e sovrani (quello di cui parla Franco Venturi in “Settecento riformatore” e che a scuola ci è stato spiegato con la formuletta del “dispotismo illuminato”). Sotto lo stesso titolo, nel 2001 Jonathan Israel definì invece il brulichio di manoscritti clandestini anonimi, di stampo sovversivo e/o materialista, sovente frutto di più mani che ne stratificavano i contenuti.

   

E’ rilevante che entrambi abbiano cercato di riassestare la definizione di illuminismo, spostandone le radici dalla Francia all’Olanda e che Israel ne abbia addirittura anticipato l’inizio al 1650 (quando nessun illuminista celebre era ancora nato) e la fine al 1750 (quando ancora né Voltaire né Rousseau né Diderot avevano scritto alcunché di rilevante). L’illuminismo radicale è un tentativo di sottrarre l’illuminismo agli illuministi, ed è infatti la stessa operazione della Garcés: la quale si colloca in una prospettiva antistoricista che intende svincolare la corrente filosofica dal suo contesto sociopolitico e consegnarla all’empireo delle teorie astratte; trasformarla da procedimento in atteggiamento, che in soldoni coinciderebbe con ciò che Kant definiva critica, ovvero la “libertà di sottoporre qualunque sapere e qualunque convinzione a un esame, da dovunque esso provenga, chiunque lo abbia formulato, senza premesse e argomenti d’autorità che tengano”. L’ambizione della Garcés è dunque il ritorno a un illuminismo collettivo immaginario, in cui ai manoscritti anonimi clandestini si sostituisca presumibilmente il samizdat militante online: “Poter dire ‘non vi crediamo’ è l’espressione più egualitaria della comune potenza del pensiero”. Ma così non si rischia di tramutare l’illuminismo, da procedimento di istruzione progressiva dell’élite produttiva di uno stato, in contestazione un tanto al chilo da parte di masse che la Garcés stessa reputa analfabete? Quelle masse che Voltaire (quando ancora non dialogava con Scalfari) non aveva nessuna intenzione di illuminare, poiché “il popolo non legge affatto: lavora per sei giorni e il settimo va all’osteria”.

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