Tramontata la dialettica fra progetto e sistema, rimane soltanto la guerra per la titolarità dei progetti. Nella foto, il trittico del "Giardino delle Delizie" di Hieronymus Bosch

L'eterna lotta concettuale fra il progetto e il sistema

Paul W. Kahn

Per il giurista Kahn la faglia di frattura della modernità è fra chi crede nei progetti e chi osserva i sistemi. I "progettisti" hanno vinto, ed è un problema

Ci si affanna da anni, da decenni, per capire con quali categorie concettuali leggere la politica da quando destra e sinistra sono andate in soffitta. A quale dicotomia affidarsi? Apertura contro chiusura? Radicalismo contro reazione? Moderati contro illiberali? Particolari contro universali? Normali contro mostri? Nel suo ultimo libro, Origins of Order, il giurista eclettico Paul Kahn propone la distinzione fra progetto e sistema come chiave per considerare il dibattito politico e giuridico dell’intera modernità. Il mondo è diviso fra chi crede nel progetto e chi crede nel sistema. Il progetto ha un autore ed esprime un’intenzione, mentre il sistema trae in modo induttivo leggi generali dall’osservazione dei un grande numero di casi individuali. Il primo modello crea un ordine, il secondo prende nota del suo organico emergere. Nel testo che pubblichiamo in questa pagina, Kahn sintetizza la sua tesi: nel mondo contemporaneo, il progetto ha vinto e il sistema ha perso. Anche quelli che erano sostenitori del sistema, altrimenti noti come conservatori, si sono convertiti al paradigma del progetto, accettando di sfidare gli avversari sul loro terreno. Il problema, dice Kahn, è che un mondo di soli progetti è un mondo segnato, anzi sfigurato, dalla competizione.


 

Il progetto e il sistema sono due forme narrative in competizione che organizzano il modo in cui immaginiamo la natura dell’ordine legale. Un progetto trae il suo principio ordinatore dall’atto intenzionale di un soggetto libero. Un sistema trae il suo principio ordinatore in modo immanente e spontaneo. Ad esempio, scrivere una costituzione o approvare una legge è un progetto. Il mercato è un sistema. Nessuno fonda intenzionalmente la legge della domanda e dell’offerta; piuttosto, quella legge emerge in modo immanente da un grande numero di transazioni individuali. In modo analogo, la common law è un sistema: i princìpi legali emergono da un incessante processo di decisioni particolari. Nel progetto, l’ordine è sempre la prova dell’intenzione; nel sistema, l’ordine precede l’intenzione.

 

Queste categorie hanno profonde radici teologiche: il progetto ci ha dato la prova dell’esistenza di Dio a partire dal disegno della creazione; il sistema è il cuore di ogni teodicea. Queste categorie si riconoscono anche nell’esperienza quotidiana: il progetto esprime il senso di noi stessi come soggetti liberi e capaci di intenzionalità; il sistema esprime la nostra esperienza in quanto forme di vita. Il mondo umano è pieno di progetti; il mondo naturale è pieno di organismi che mostrano un ordine senza un’intenzione. La scoperta che anche la società è un luogo di ordine senza un’intenzione ha portato allo sviluppo delle scienze sociali nel Diciannovesimo secolo.

 

Le stesse categorie possono aiutarci a capire il moderno conflitto fra progressisti e conservatori. Tradizionalmente i progressisti hanno concepito la politica come il dominio dei progetti. Hanno immaginato il compito di governare come un costante processo di riconsiderazione e riforma di regimi regolatori. Per costoro, essere politicamente liberi significava prendere la responsabilità di costituire l’ordine legale. Il giudice Holmes ha inquadrato l’idea progressista quando ha dichiarato: “E’ ripugnante non avere una ragione migliore per una legge che questa sia stata sancita ai tempi di Enrico VI. E’ anche più ripugnante se il terreno legale su cui è stata sancita nel frattempo è scomparso”. Questo è lo stesso spirito del progetto che ha informato la Dichiarazione di indipendenza, la quale annunciava che “ogni volta che una forma di governo diventa distruttiva della vita, della libertà e della ricerca della felicità il popolo ha il diritto di abolirla e di istituire un nuovo governo”.

 

I conservatori hanno controbattuto che la politica non è un progetto e che le costituzioni non si creano. La legge, invece, è una lenta crescita, un sistema organico che emerge spontaneamente e immanentemente dalle nostre pratiche. Una società è troppo complessa per essere l’oggetto di un ordine creato deliberatamente, una posizione manifestata in modo vivace dai fallimenti delle economie pianificate nel Ventesimo secolo. Invece di indicare una costituzione materiale, i conservatori si sono affidati alla common law, che emergeva da “tempi immemori”. Edmund Burke ha guidato la rivolta conservatrice contro il progetto di una costruzione costituzionale messo in atto dalla Rivoluzione francese. Quando Ronald Reagan ha proclamato che “il governo non è la soluzione, ma il problema” esprimeva lo stesso rifiuto conservatore di una politica fatta di progetti. Quell’atteggiamento ha consolidato un’agenda di conservatori moderni che ha permesso ai mercati e ad altri sistemi sociali – ad esempio, la famiglia, la religione e la comunità – di realizzare i loro ordini immanenti. Per i conservatori, il solo fine legittimo della legge è il rimedio alle falle del sistema. Come le persone si ammalano e hanno bisogno di un intervento esterno per ritornare all’ordine naturale del benessere – la salute –, così i sistemi sociali possono sviluppare delle patologie e richiedere interventi esterni per rimediare. 

 

Un intellettuale eclettico fra Schmitt e Girard 

 

Il libro “Origins of Order” è l’ultimo passo di un percorso sui limiti del liberalismo e il ritorno del sacro

 

Nel suo ultimo libro, Origins of Order: Project and System in the American Legal Imagination, Paul W. Kahn si propone di riconcettualizzare l’intero immaginario legale della tradizione americana, per ancorarlo alla distinzione fra progetto e sistema, a suo dire più profonda ed efficace di quelle che sono state usate per spiegare la dialettica interna alla potenza che domina e sovrasta tutti gli immaginari dell’umanità. La vastità del programma che Kahn si propone quadra con il personaggio. Professore alla scuola di legge di Yale, dove insegna corsi di diritto costituzionale e dirige il centro per lo studio dei diritti umani, Kahn è un intellettuale multistrato che si è cimentato negli ambiti più diversi, dalla teologia politica allo stile dell’argomentazione nelle opinioni della Corte suprema, dalle teorie costituzionali alla guerra dei droni, sempre cercando di cogliere qualcosa di essenziale e fondativo. I suoi studi sul sacrificio come fondamento della legge e del vivere comune delle società umane, fatto che limita fatalmente le capacità dell’idea liberale di spiegare il mondo, hanno suggerito accostamenti con le opere di Giorgio Agamben e René Girard.

Per spiegare alle giovani generazioni la pertinenza dell’indagine filosofica per l’oggi, ha scritto anni fa un libro in cui spiega i fondamenti filosofici su cui poggiano alcuni film che hanno contribuito a modificare l’immaginario sociale occidentale negli ultimi anni. Ha scritto della cacciata di Adamo ed Eva dal paradiso terrestre, il capostipite di tutti gli eventi dolorosi, e attraverso questa ha affrontato in modo originale il problema del male. In Putting Liberalism in its Place, del 2005, ha messo in luce l’impossibilità concettuale del liberalismo di comprendere adeguatamente le relazioni sociali, che vanno inquadrate nella dimensione del sacrifico. Una delle sue massime più note è: “Sappiamo chi siamo quando conosciamo ciò per cui siamo disposti a sacrificarci”. Nello stesso filone sacrificale si colloca anche Sacred Violence: Torture, Terror, and Sovereignty, del 2008, dove l’autore legge la guerra obliqua del terrorismo e la reazione dopo l’11 settembre alla luce delle precedenti elaborazioni, concludendo che la legge di per sé non potrà mai rendere adeguatamente ragione della violenza politica. Il suo senso va ricercato piuttosto nella teologia politica, sostiene Kahn, seguendo un filone schmidtiano che lui andava sviluppando prima che tornasse di moda, se di moda si può parlare.

 

 

Questo dibattito fra il progetto e il sistema, che risale all’era delle rivoluzioni, determina ancora la nostra politica oggi? I progressisti restano fedeli alla politica del progetto. Guardiamo ai candidati alle primarie democratiche: il grado di progressismo dei candidati è misurato dalla portata dei loro progetti. I conservatori, invece, non credono più nel sistema. Nemmeno i negazionisti del climate change credono che il sistema ambientale globale si bilancerà da sé. E nemmeno la agenda per la deregolamentazione abbracciata da questa Amministrazione americana è animata dalla convinzione che i mercati abbiano qualità sistemiche. I dazi e le guerre commerciali non fanno parte dei mercati “naturali”. E le relazioni internazionali? Lo scetticismo dell’Amministrazione verso i grandi progetti del Ventesimo secolo per creare istituzioni internazionali – l’Onu, il Wto e l’Unione europea – è animato dalla fede nella qualità sistemica del bilanciamento delle potenze? E’ assai improbabile, visto che l’Amministrazione si cura molto poco di coltivare le alleanze che la aiuterebbero a ristabilire l’equilibrio. I giudici conservatori non credono nelle virtù sistemiche della common law. Credono invece nell’originalismo, un metodo interpretativo che guarda alle intenzioni dei Padri fondatori mentre creavano il progetto americano.

 

Trascurando i successi di partiti che si presentano nominalmente come conservatori, la politica contemporanea mostra la vittoria ideologica del progetto sul sistema. Un conservatorismo di sistema sopravvive oggi soltanto in ricchi think tank e fra opinionisti sofisticati. Tutti i partecipanti più significativi nella politica, con la possibile eccezione degli evangelici, condividono un immaginario fatto di progetti. Sono divisi soltanto su chi sia il titolare del progetto. 

 

Non si può chiedere di un sistema “a chi appartiene?”. Poiché non ha un autore, la domanda non ha senso. Per un progetto si può sempre fare questa domanda. Appartiene unicamente al suo autore. I progressisti ritengono che “noi, il popolo” sia l’autore del progetto americano. Il popolo è concepito come soggetto che dà la legge a se stesso. Anche i conservatori contemporanei della destra populista credono che la politica sia un progetto con un autore identificabile. Quell’autore, tuttavia, non è “noi, il popolo”. E’ invece una élite che non rappresenta nessuno e persegue i suoi interessi.

 

I membri della destra populista credono di essere le vittime di un progetto esterno. Essere l’oggetto del progetto di qualcun altro è un modello di subordinazione che risale alla schiavitù. I rivoluzionari americani, compresi i proprietari di schiavi, si descrivevano come schiavi del parlamento inglese. Non vedevano il progetto del parlamento come loro. La svolta populista del 2016 ha lo stesso senso di una ribellione di “schiavi”. Il programma della nuova destra, una volta al potere, è stato quello di smantellare il progetto progressista non tanto perché non è stato in grado di produrre benefici, ma perché non era il loro progetto. Eppure questi populisti di destra non hanno più la convinzione conservatrice che il sistema fiorisce in assenza di progetti. Sono bloccati in un mondo di progetti, ma non hanno molti progetti di cui sono titolari. Questo porta a un cinismo autoalimentato sulla possibilità stessa di riformare la politica.

 

Ci troviamo in un’era in cui il progetto ha trionfato sul sistema. La conseguenza, tuttavia, non è l’unità ma una feroce divisione sulla titolarità dei progetti. Il progetto e il sistema potevano dialogare fra loro, perché ciascuno conteneva una verità che sfuggiva all’altro. I conflitti dell’era politica post-sistemica sembrano invece irriconciliabili, come se in gioco ci fosse la scelta fra la schiavitù e la libertà. Lo stato greve della nostra politica non è l’esito della sconfitta politica dei progressisti. E’ il frutto agrodolce della scomparsa della fede dei conservatori nel sistema.