I signori delle ferrovie spadroneggiano nel Senato del "Rail-road States of America" in un vignetta di Thomas Nast del 1886

La lezione di Brandeis contro gli eccessi di big tech

La lotta ai monopoli non vive di sole ragioni economiche. La libertà dell'individuo è il cuore del problema, diceva il giudice americano un secolo fa

In America il movimento antimonopolista sta vivendo da qualche anno una fase di rinnovato splendore, spinto soprattutto dal Grande Ripensamento dell’opinione pubblica intorno ai giganti della tecnologia, passati, in un lasso di tempo piuttosto breve, da titani che eroicamente donano connettività e potere di esprimersi alle masse senza voce ad avidi protettori di un potere illimitato costruito monetizzando i dati degli utenti. Lo smantellamento di “big tech” è uno dei pochi punti programmatici sui quali progressisti e conservatori sembrano potersi incontrare, anche se animati da scopi e argomentazioni diversi. Occasionalmente Donald Trump ha tuonato contro gli agglomerati della Silicon Valley, ma la sua preoccupazione è più dettata dall’astio verso un ambiente a lui politicamente ostile che da accorti ragionamenti intorno alla natura dei monopoli. Fra i candidati alle primarie democratiche in vista delle presidenziali del 2020, Elizabeth Warren e Bernie Sanders sono quelli che con più pervicacia battono la carica per spezzare il triangolo formato da Amazon, Google e Facebook: “Oggi le grandi compagnie tecnologiche hanno troppo potere – troppo potere sulla nostra economia, sulla nostra società e sulla nostra democrazia. Hanno raso al suolo la competizione, usato le nostre informazioni private per fare profitti e reso l’ambiente svantaggioso per tutti gli altri. Nel farlo, hanno danneggiato le piccole imprese e bloccato l’innovazione”, ha scritto Warren qualche mese fa annunciando la sua proposta per mettere un freno al tentacolare gigante in espansione. Intere biblioteche digitali – disponibili su Amazon, Google e Facebook – sono state scritte su come contenere il potere eccessivo di aziende che, come ha incautamente confessato una volta Mark Zuckerberg, si concepiscono più come stati che come soggetti privati alla legittima ricerca di profitto. Ma la questione, nei suoi fondamenti economici e filosofici, non riguarda soltanto il caso specifico (benché macroscopico) del consolidamento del potere digitale. Quattro aziende si dividono il mercato dell’accesso a internet e dei servizi via cavo, limitando al minimo la competizione fra loro. La fusione fra At&T e Time Warner ha legato i provider di servizi ai distributori di contenuti. L’acquisizione di Monsanto da parte di Bayer ha concentrato in pochissime mani il mercato delle sementi. Il mercato dei dentifrici in America è essenzialmente controllato da due aziende. Quello degli occhiali da sole da una soltanto. L’Open Markets Institute è il think tank che più di ogni altro ha contribuito a mappare l’insalubre eccesso di concentrazione del potere economico e dei suoi effetti sulla politica.

 

Questa tendenza all’aggregazione monopolistica ha generato conseguenze negative per i consumatori in termini di qualità dei servizi e prezzi, cosa ampiamente studiata da economisti come Thomas Philippon della New York University, soltanto per citare un nome particolarmente in vista. Ma la disputa tocca alcuni temi che sono profondamente legati all’origine dell’esperimento americano, alla sua concezione della libertà e alle promesse di realizzare uno spazio in cui celebrare la supremazia dell’iniziativa individuale su quella dello stato. Oltre un secolo fa, quando gli Zuckerberg e i Bezos dell’epoca erano i Rockefeller e i Carnegie, che dominavano il mercato di petrolio e acciaio, un’ondata di regolamentazioni ha bloccato l’eccessivo potere dei conglomerati. La Sherman Antitrust Law del 1890 è stata la prima iniziativa legislativa in questo senso, confermata dal Clayton Antiturst Act del 1914, dalla formazione della Federal Trade Commission, del Federal Reserve System e infine sancita dal Robinson-Patman Act del 1936. Una serie di sentenze della Corte suprema ha nel tempo puntellato queste riforme.

 


Elizabeth Warren e Bernie Sanders traducono in politica la battaglia antimonopolista del movimento “neobrandeisiano”. “Se Dio avesse voluto le cose grandi, avrebbe fatto l’uomo più grande”, diceva Brandeis nella sua “maledizione” della grandezza


 

Queste iniziative sono state di fatto smantellate negli anni Settanta da una nuova filosofia antitrust espressa principalmente dalla scuola di Chicago e condensata nel testo The Antitrust Paradox del giurista Robert Bork (che poi passerà alla storia per la bocciatura del Senato dopo la sua nomina alla Corte suprema), che aveva indicato come sua principale influenza Aaron Director, misterioso e leggendario padre della scuola giuridica di Chicago. L’idea fondamentale di questa corrente minimalista era che le regolamentazioni antitrust dovevano avere come unico scopo la tutela dei consumatori: le pratiche di consolidamento delle aziende dovevano essere permesse, e anzi incentivate, nella misura in cui non danneggiavano i consumatori. Questa è diventata l’ortodossia negli anni di Reagan ed è rimasta sostanzialmente intatta negli anni dell’Amministrazione Clinton, che ha promosso alcuni strumenti di deregolamentazione che hanno permesso in modo decisivo la successiva proliferazione dei giganti della Silicon Valley (oltre a quella delle banche d’affari).

 

Oggi il vento soffia dalla parte opposta, ed è curioso che uno dei centri propulsori della rivoluzione sia proprio Chicago, dove il professore Luigi Zingales, con il suo George Stigler Center, è uno dei catalizzatori del nuovo movimento antitrust. Quando a settembre Zingales ha tenuto un infiammato discorso ai laureati della University of Chicago contro gli agglomerati tecnologici, dicendo che non è una causa democratica o repubblicana, ma “una battaglia americana”, il New York Times ha notato che l’aspetto sorprendente del discorso non era tanto il contenuto, quanto il luogo in cui veniva pronunciato. “Il mondo è cambiato, e inevitabilmente anche la posizione di Chicago deve cambiare”, ha detto l’economista.

 

Zingales è uno dei più attivi rappresentanti di un movimento che è stato definito “neobrandeisiano”, dal nome di Louis Brandeis, giurista e giudice della Corte suprema americana che più di ogni altro ha contribuito a formare il movimento antimonopolistico dell’inizio del secolo scorso. La posizione di Brandeis, aggiornata alle problematiche concrete del presente, è stata ben ricostruita da Tim Wu, professore della scuola di Legge della Columbia, nel suo The Curse of Bigness: Antitrust in the New Gilded Age, un denso libretto che riprende già nel titolo la “maledizione della grandezza” che Brandeis aveva lanciato con una frase diventata celebre in un’audizione al Senato del 1911: “Se Dio avesse voluto cose grandi, avrebbe fatto l’uomo più grande, nel cervello e nella personalità”. La parte più tecnica, e dunque superficiale, della critica neobrandeisiana dice che l’ortodossia libertaria che si è affermata a Chicago nel secolo scorso tradisce il suo scopo dichiarato, non rispetta più i suoi stessi criteri: i nuovi monopoli danneggiano i consumatori, e il confronto fra i prezzi di alcuni servizi – la telefonia mobile, ad esempio – in America e in Europa mette in luce il baco nel sistema. Inoltre, nella questione tecnologica la falla si fa più complicata da trovare, perché molti dei prodotti offerti sono gratuiti (Google e Facebook) o assai convenienti per le tasche degli utenti (Amazon), quindi per quantificare i danni occorre un lungo, paziente percorso di ricognizione delle conseguenze indirette.

 

Nella critica di Brandeis ai monopoli emergeva però una preoccupazione più profonda, legata alla concezione della libertà individuale che i Padri fondatori avevano tradotto in un sistema repubblicano messo al riparo dalla “bigness”. Quello che Brandeis aveva a cuore, ha scritto Wu, “erano le condizioni economiche in cui i singoli uomini vivono, e gli effetti dell’economia sulla personalità e sull’anima della nazione”, e dunque la concentrazione del potere economico era un problema in termini di corruzione della personalità umana. Un ambiente economico segnato da monopoli e cartelli tende a formare un “popolo inerte”, che è la “più grande minaccia alla libertà”. Vociante difensore della libertà di parola e di espressione, il giurista temeva non solo la coercizione esplicitamente autoritaria da parte di un potere senza contrappesi, ma soprattutto la perversione, lo svuotamento di una libertà che poteva essere mortificata anche in nome di benintenzionati progetti di crescita e progresso. Sapeva bene che la libertà, per essere esercitata pienamente, andava limitata: “Abbiamo imparato molto tempo fa che la libertà può essere preservata soltanto limitando la libertà d’azione degli individui; e che altrimenti la libertà porterà necessariamente all’assolutismo; e allo stesso modo abbiamo imparato che se non c’è una regolamentazione della competizione, i suoi eccessi porteranno alla distruzione della competizione, e i monopoli prenderanno il suo posto”, ha detto nel 1912.

 

Il problema dei monopoli non era riducibile a una questione di inefficienza dei mercati o alle possibili ripercussioni in termini di disuguaglianze socio-economiche che i conglomerati potevano indurre: era una faccenda di spessore antropologico imperniata sul “right to be alone”, il diritto ad essere lasciati in pace, espressione da lui resa popolare in un articolo apparso sulla Harvard Law Review che ha fondato il concetto di privacy nell’epoca contemporanea. Quel diritto è “il più esteso e il più amato dagli uomini civilizzati”, secondo Brandeis. La minaccia profonda che i conglomerati industriali rappresentavano – detenendo un potere così vasto da minacciare anche quello dello stato – consisteva nell’invasione di uno spazio inviolabile dell’individuo, valore che il giurista metteva al di sopra di ogni altro. Per questo era critico verso la cultura consumista, non amava il potere manipolatorio della pubblicità e ed era assai scettico che il modello di business dei giornali fosse fondato sugli introiti delle inserzioni, che giudicava una minaccia per la libertà di stampa, questione vitale per la democrazia. Per Brandeis la “maledizione della grandezza” non era un fallimento del mercato, era una minaccia a quella libertà individuale che l’America aveva custodito e coltivato, facendone il principio fondativo della nazione. Preservarla richiedeva misura e senso del limite, della fragilità della condizione umana, non una sbrigliata ed entusiastica tendenza verso la grandezza. Perché se Dio avesse voluto le cose grandi, avrebbe fatto l’uomo più grande.

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