Lyndon Johnson firma il Civil Rights Act del 1964, alla presenza di Martin Luther King Jr. (foto di Cecil Stoughton, White House Press Office)

Il fossato dei diritti civili che separa le due Americhe

Il conservatore Caldwell ritrova nelle buone battaglie degli anni Sessanta l'origine di un conflitto insanabile. Appunti per un dibattito sul presente

L’ultimo libro di Christopher Caldwell, giornalista e intellettuale americano di impronta conservatrice, è il ragionato svolgimento di un concetto che Bill Clinton ha espresso in una battuta sintetica, pronunciata poco dopo la fine del secondo mandato alla Casa Bianca: “Se guardi indietro agli anni Sessanta e pensi che tutto sommato siano stati anni che hanno prodotto più bene che male, probabilmente sei un democratico. Se pensi invece che abbiano prodotto più male che bene, probabilmente sei un repubblicano”. The Age of Entitlement, titolo-calembour ricalcato sull’espressione the age of Enlightenment è il racconto genealogico di questa divisione e delle conseguenze che ha proiettato nei decenni, fino a informare l’America di oggi, dove la presidenza senza precedenti di Donald Trump e più in generale le condizioni sociali e il tenore del dibattito pubblico testimoniano la presenza di due culture, due paradigmi di riferimento, forse addirittura due nazioni in aspro conflitto fra loro. Caldwell arriva fino a dire che ci sono due costituzioni immateriali vigenti – una concepita prima dei fatidici anni Sessanta, una successivamente – e ciascuno dei popoli che adotta una o l’altra come documento di riferimento pensa che quella seguita dagli altri non esista o sia illegittima. Ma l’autore non si ferma qui. La sua non è una fotografia del paese diviso lungo le linee di frattura ricchi-poveri, città-campagna, nazionalisti-cosmopoliti, élite-popolo, istruiti-ignoranti, secolarizzati-religiosi, scientisti-superstiziosi, coppie ampiamente esplorate in una vasta letteratura di tipo socio-antropologico che ha invaso le librerie americane (e di tutto il mondo) negli ultimi anni.

 

La tesi provocatoria di Caldwell è che sono stati i diritti civili, pinnacolo della civiltà che si è messa alle spalle l’onta della segregazione razziale, a creare i presupposti per l’aspra polarizzazione che domina lo scenario odierno e che nessuno sembra sapere come curare. È il libro di un suprematista bianco con moti di nostalgia per la segregazione? Niente di più lontano dalla verità. L’oppressione razziale era “in contraddizione con i principi costituzionali dell’America e un affronto ai suoi principi cristiani”, scrive Caldwell, e perciò era un supremo dovere degli americani quello di correggere i torti storici e tentare di sanare le ferite della schiavitù. Il problema, secondo Caldwell, è il modo in cui i giusti principi sono stati tradotti in termini legali. Le riforme condotte da quella che è passata alla storia come la Greatest Generation sono state “investite da un significato religioso”, caricate della responsabilità di cambiare il corso degli eventi dell’intero paese, non già di correggere e raddrizzare un suo aspetto, per quanto tragico e aberrante, e hanno offerto l’occasione per “reinterpretare tutta la storia e il senso dell’America”. Questo è il cuore della tesi di Caldwell: il Civil Rights Act del 1964, nello svolgere il suo compito meritorio, ha travalicato gli scopi che si era prefissato, aprendo la strada a quella infinita dialettica delle identità contrapposte che oggi manifesta tutto il suo potenziale divisivo a livello politico e sociale. Il senso più profondo di questo saggio, il suo pensiero dominante, è dunque la riflessione sulle conseguenze involontarie che anche le decisioni virtuose si trovano a produrre. Non è un attacco all’epopea dei diritti civili, ma un avvertimento intorno alla processo di assolutizzazione che ne è seguito, alla sua estensione a tutte categorie in cerca di diritti, a tutte le sensibilità offese in cerca di rivalsa. 


Il giornalista americano espone una tesi provocatoria: il Civil Rights Act ha prodotto lo scontro fra identità che divide il paese


 

La legislazione sui diritti civili, scrive Caldwell, “è stata approvata in un impeto di dolore, rabbia ed eccesso di fiducia”, condizione non ideale per immaginare tutte le ramificazioni di un atto di governo, e grazie alle successive estensioni da parte di tribunali e ordini esecutivi della Casa Bianca, “la legge è diventata il centro della più efficace campagna di trasformazione sociale nella storia americana”. La parte più complicata della trasformazione sociale è la promozione dei principi della identity politics, che a giudizio dell’autore ha manomesso l’idea dell’America come teatro di un progetto civile e politico unitario che tiene insieme una moltitudine di culture per concentrarsi su ciò che divide. E’ da quel vizio che discende tanto l’ideologia del campus, che ha portato al parossismo le recriminazioni identitarie, quanto la frustrazione dell’America bianca che ha votato Trump con speculare rabbia identitaria.

 

Sulle riforme per i diritti civili, Caldwell scrive: “Gli americani pensavano che per risolvere lo straordinario e unico problema della segregazione fosse necessario dare a Washington poteri che non erano mai stati concessi prima in tempo di pace. Su questo avevano ragione”; allo stesso tempo, “credevano che l’uso di questi poteri sarebbe stato limitato nel tempo (alcuni anni al massimo), nello spazio (nel sud) e nell’ampiezza (eliminare la segregazione). In questo si sono sbagliati, cosa che ha avuto conseguenze rilevanti per il sistema politico del paese”. La campagna per i diritti civili ha “autorizzato Washington a determinare le elezioni statali, a non elargire fondi alle scuole, a controllare le pratiche di assunzione nel settore privato e a fare causa alle aziende. Ha creato uffici per i diritti civili nelle agenzie governative, e presto questi uffici hanno iniziato a prdurre linee guida vincolanti, quote e obiettivi”. In pratica, scrive Caldwell, i diritti civili hanno “esposto ogni angolo della vita sociale, economica e politica alle direttive dei giudici” e questa struttura è rimasta intatta anche quando l’obiettivo della legislazione – abolire la segregazione – è stato raggiunto. “I diritti civili sono diventati una scorciatoia costituzionale per giudici e amministratori progressisti” e nel tempo “hanno portato a cambiamenti sociali che i leader del movimento per i diritti civili non avevano previsto e che gli elettori non hanno mai approvato: l’affirmative action, i codici del linguaggio nelle università, una serie di procedure burocratiche che hanno reso quasi impossibile il rimpatrio dei clandestini, il matrimonio gay, i bagni transgender”. 


Il recensore del New York Times ha messo il dito sul punto debole di “The Age of Entitlement”: “La sua visione è un vicolo cieco” 


Si è così compiuta quella che l’autore chiama la “rivoluzione dei diritti”, uno spartiacque di tipo culturale e politico, ma sanzionato dalla legge, che ha aperto il fossato fra i democratici, fedeli alla costituzione materiale post-1964, e i repubblicani, che si rifanno al consenso precedente, denunciando gli eccessi scatenati da un pur sacrosanto provvedimento. “Tanto l’affirmative action quanto il politicamente corretto derivano dai poteri di attuazione della legge per i diritti civili”, sostiene Caldwell, secondo il quale i ciritici di questa estensione sono stati messi proditoriamente di fronte a una equivalenza insostenibile: “Se non ti piaceva l’affirmative action, significava che non ti piacevano nemmeno i diritti civili. Nel 2013, quando gli americani hanno iniziato a discutere se un pasticcere dovesse essere costretto a confezionare una torta per un matrimonio gay, tutto questo è diventato chiaro”. Un esempio di questa traiettoria preso dalla cronaca elettorale di questi mesi è l’Equality Act, un progetto di estensione e aggiornamento dei diritti civili per coprire e proteggere quante più minoranze possibili che tutti i candidati democratici hanno promesso di portare a compimento.

 

La posizione del giornalista americano in forza alla Claremont Review of Books e occasionale opinionista per il New York Times è apertamente in contrasto con la visione progressista della vicenda americana, un’idea ben sintetizzata da Jonathan Rauch – analista della Brookings Institution – nella sua recensione del volume sul New York Times. Secondo Rauch, il percorso dell’America procede per balzi e rifondazioni, dalla guerra civile all’abolizione della schiavitù, dall’età progressista all’era del New Deal. Tutte queste rivoluzioni, scrive Rauch, “hanno generato scontri molto tesi e a volte apertamente violenti fra visioni contrastanti della Costituzione e dei diritti fondamentali, ma nella mia versione della storia queste tensioni non sono soltanto superabili, ma portano frutto, e il dibattito su questi punti di frizione è un motore di dinamismo e rinnovamento, non di distruzione e oppressione”.

 

Ciò che per Caldwell è un fossato sociale, politico e costituzionale ormai troppo ampio per essere superato, per Rauch non è che l’ennesimo scontro fra una tesi e un’antitesi destinato a partorire una sintesi più avanzata e fruttuosa. E’ forse proprio questa differenza di prospettive il punto più profondo di disaccordo fra le due Americhe che Caldwell descrive, chiaramente parteggiando per una delle due: una parte del popolo americano è convinta che ogni circostanza, anche la più avversa, sia il preludio a un passo in avanti nella traiettoria verso il progresso; l’altra ritiene invece che l’avanzamento non sia un destino ma un’opzione, che come tale può essere anche rifiutata, scegliendo in sua vece una qualche forma di suicidio. Ed è su questo punto che la tesi di Caldwell mostra il suo lato più debole e addirittura tragico, colto con arguzia dal suo recensore, che è un critico equanime dell’opera: “La sua visione è un vicolo cieco. Purtroppo è quello in cui sembra che il conservatorismo americano si sia infilato”.

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