I manifestanti di Hong Kong si rifanno alla bandiera a stelle e strisce, presa a simbolo di valori universali, mentre Stati Uniti e Cina si sfidano in una logica nazionalista (foto Reuters)

La grande illusione dell'egemonia liberale

John Mearsheimer

Dal sogno unipolare al nazionalismo di Trump. Il politologo Mearsheimer racconta l'autodistruzione dell'ideale che aveva messo fine alla storia

Il "Pensiero dominante" di questa settimana è uno stralcio dell'ultimo libro di John Mearsheimer, "La grande illusione. Perché la democrazia liberale non può cambiare il mondo", da oggi in libreria per Luiss University Press. La tesi che il politologo americano espone in questo estratto è chiara: non solo il paradigma liberale nelle relazioni internazionali non garantisce pace e stabilità, ma viene inevitabilmente fagocitato da nazionalismo e realismo. Segue articolato svolgimento. Professore alla University of Chicago e promotore di una visione definita "neorealismo offensivo", Mearsheimer ha articolato la sua critica alla dottrina liberale in diversi libri e innumerevoli ricerche. In Italia sono stati pubblicati "Verità e bugie nella politica internazionale" (Luiss University Press, 2018) e "La Israel Lobby e la politica estera americana" (Mondadori, 2007), controverso saggio scritto assieme al politologo di Harvard Stephen Walt che ha suscitato all'epoca della pubblicazione molte polemiche per un presunto pregiudizio anti-israeliano tinto, a detta di alcuni, di antisemitismo. Il commentatore Bret Stephens, allora al Wall Street Journal, aveva sintetizzato così: "Non intendo insinuare che i signori Mearsheimer e Walt siano antisemiti. Ma come ha notato una volta il presidente uscente di Harvard, Larry Summers, alcune cose che non sono antisemite nelle intenzioni posso essere antisemite nei loro effetti. Offrendo aiuto e conforto a persone che non hanno problemi a sostituire l'espressione 'la lobby israeliana' con 'gli ebrei', l'articolo di Mearsheimer e Walt è antisemita negli effetti". 

 


L’egemonia liberale è una strategia ambiziosa per mezzo della quale uno stato mira a trasformare il maggior numero possibile di paesi in democrazie liberali ricalcate sul proprio modello, promuovendo nel contempo un’economia internazionale aperta e costruendo istituzioni internazionali. In buona sostanza, lo Stato liberale cerca di diffondere universalmente i propri valori. L’obiettivo che mi prefiggo in questo libro è descrivere ciò che accade quando uno Stato potente persegue l’egemonia liberale a spese di una politica incentrata sull’equilibrio di potere. Molti in Occidente, specie nelle élite della politica estera, considerano l’egemonia liberale una politica saggia che gli stati dovrebbero adottare assiomaticamente. Si dice che diffondere la democrazia liberale in tutto il mondo sia estremamente sensato dal punto di vista morale e dal punto di vista strategico. Tanto per cominciare, la si ritiene un mezzo eccellente per tutelare i diritti umani, che a volte vengono violati gravemente dagli stati totalitari. E siccome postula che le democrazie liberali non vogliano farsi la guerra, questa politica mette a disposizione una formula per trascendere il realismo e promuovere la pace internazionale. Infine, i suoi sostenitori affermano che contribuisce a proteggere il liberalismo in patria tramite l’eliminazione di stati autoritari che altrimenti potrebbero sostenere le forze illiberali costantemente presenti all’interno dello Stato liberale.

 

Questa logica convenzionale è sbagliata. Le grandi potenze non sono quasi mai in condizione di perseguire una politica estera veramente liberale. Se ce ne sono almeno due, non possono fare altro che preoccuparsi della propria posizione nell’equilibrio mondiale del potere e agire in base ai dettami del realismo. Le grandi potenze di tutti gli orientamenti politici pensano in primis alla propria sopravvivenza, e in un sistema bipolare o multipolare c’è sempre il rischio che vengano attaccate da un’altra grande potenza. In tali circostanze, le grandi potenze liberali ammantano regolarmente il proprio comportamento pragmatico di retorica liberale. Parlano da liberali e agiscono da realisti. Se dovessero adottare politiche liberali in contrasto con la logica realista, finirebbero invariabilmente per pentirsene.

 

Ma di tanto in tanto una democrazia liberale incontra un equilibrio di potere così favorevole da consentirle di puntare sull’egemonia liberale. E’ più probabile che succeda in un mondo unipolare, dove l’unica superpotenza non deve preoccuparsi di essere attaccata da un’altra grande potenza, per il semplice fatto che non esiste. Allora l’unico polo liberale abbandonerà quasi certamente il realismo e adotterà una politica estera liberale. Gli Stati liberali hanno per natura una mentalità da crociati che è difficile da accantonare. Poiché il liberalismo enfatizza il concetto di diritti inalienabili o naturali, i veri liberali si preoccupano profondamente per i diritti di praticamente tutti gli individui che vivono sulla Terra. Questa logica universalista crea per gli Stati liberali un incentivo fortissimo a lasciarsi coinvolgere nelle vicende politiche di paesi che violano gravemente i diritti dei propri cittadini. In effetti, il miglior modo per assicurarsi che i diritti degli stranieri non vengano calpestati è farli vivere in una democrazia liberale. La conseguenza naturale è promuovere attivamente un cambiamento di regime, con l’obiettivo di rovesciare i dittatori e di insediare al loro posto democrazie liberali. I liberali non si sottraggono a questo compito, soprattutto perché credono spesso nella capacità del proprio stato di fare ingegneria sociale sia in patria sia all’estero. La creazione di un mondo popolato da democrazie liberali dovrebbe anche essere una formula per la pace internazionale, che non si limiterebbe a eliminare la guerra ma ridurrebbe sensibilmente, quando non rimuoverebbe del tutto, le piaghe gemelle della proliferazione nucleare e del terrorismo. E ultimo ma non ultimo, sarebbe anche il sistema ideale per proteggere il liberalismo in patria.

 

Ad onta di tutto questo entusiasmo, l’egemonia liberale non raggiungerà i suoi obiettivi, e il suo fallimento comporterà inevitabilmente costi enormi. Lo stato liberale finirà probabilmente per combattere infinite guerre, che innalzeranno anziché ridurre il livello del conflitto sullo scacchiere internazionale e quindi aggraveranno i problemi della proliferazione nucleare e del terrorismo. Inoltre, il comportamento militaristico dello stato finirà quasi certamente per minacciarne i valori liberali. Il liberalismo all’estero conduce all’illiberalismo in patria. Infine, anche se lo Stato liberale dovesse realizzare i suoi scopi – diffondere la democrazia vicino e lontano, promuovere i rapporti economici e creare istituzioni internazionali – essi non produrrebbero la pace.

 

La chiave per capire i limiti del liberalismo è studiarne la relazione con il nazionalismo e con il realismo. La grande illusione mira sostanzialmente ad analizzare questi tre ismi e le modalità con cui interagiscono per influenzare la politica internazionale. Il nazionalismo è un’ideologia politica potentissima. Si impernia sulla divisione del mondo in un’ampia varietà di nazioni, che sono unità sociali formidabili, ognuna delle quali ha una sua cultura specifica. Praticamente tutte le nazioni preferirebbero avere il proprio stato, anche se non tutte sono in grado di averlo. Eppure viviamo in un mondo popolato quasi esclusivamente da Stati nazionali; significa che il liberalismo deve coesistere con il nazionalismo. Anche gli stati liberali sono stati nazionali. E’ fuor di dubbio che liberalismo e nazionalismo possano coesistere, ma quando si scontrano, vince quasi sempre il nazionalismo. L’influenza del nazionalismo compromette spesso una politica estera liberale. Per esempio, il nazionalismo mette un’enfasi molto forte sull’autodeterminazione; vuol dire che quasi tutti i paesi resisteranno ai tentativi di una grande potenza liberale di interferire nella loro politica interna – è, naturalmente, il primo e più visibile effetto dell’egemonia liberale.

 

Questi due ismi si contrappongono anche sui diritti individuali. I liberali sono convinti che tutti abbiano gli stessi diritti, indipendentemente da quella che è la loro patria. Il nazionalismo è un’ideologia particolaristica che promana dall’alto; vale a dire che non considera i diritti inalienabili. In pratica, la stragrande maggioranza degli abitanti del pianeta non si preoccupano più di tanto dei diritti di cui godono o non godono i cittadini degli altri paesi. Si preoccupano molto maggiormente dei diritti dei propri concittadini, e anche quella sensibilità ha dei limiti. Il liberalismo sopravvaluta l’importanza dei diritti individuali.

 

Il liberalismo non si concilia nemmeno con il realismo. Assume, di base, che a volte i membri di qualunque società abbiano profonde divergenze su ciò che si dovrebbe intendere per “una buona vita”, e che queste divergenze possano portarli a tentare vicendevolmente di uccidersi. Dunque occorre uno stato per mantenere la pace. Ma non c’è stato al mondo che possa tenere a bada dei paesi quando sono divisi da gravi dissensi interni. La struttura del sistema internazionale è anarchica, non gerarchica; in altre parole, il liberalismo non può funzionare in politica internazionale. Di conseguenza, se vogliono sopravvivere, i paesi non possono che agire in base alla logica dell’equilibrio di potere. Ci sono casi particolari, tuttavia, in cui un paese è così stabile da potersi affrancare temporaneamente dalla Realpolitik e perseguire politiche veramente liberali. I risultati sono quasi sempre negativi, soprattutto perché il nazionalismo avversa il crociato liberale.

 

La mia tesi, ridotta ai minimi termini, è che il nazionalismo e il realismo prevalgono quasi sempre sul liberalismo. Il nostro mondo è stato plasmato in buona parte da questi due potentissimi ismi, non dal liberalismo. Tenete presente che cinquecento anni fa l’universo politico era straordinariamente eterogeneo: includeva città-stato, ducati, imperi, principati e tante altre forme di comunità politica. Quel mondo ha lasciato il posto a un pianeta suddiviso pressoché esclusivamente in stati nazionali. Anche se questa trasformazione è dovuta al concorso di tanti fattori diversi, due delle forze principali che hanno dato origine al nuovo sistema degli Stati nazionali erano il nazionalismo e la politica di equilibrio di potere.

L’adozione dell’egemonia liberale da parte dell’America

La grande illusione nasce anche dal desiderio di capire la politica estera americana degli ultimi decenni. Gli Stati Uniti sono un paese profondamente liberale, uscito dalla guerra fredda con i galloni di prima superpotenza planetaria. Nel 1991, il tracollo dell’Unione Sovietica li ha messi nella condizione ideale per perseguire l’egemonia liberale. L’establishment che orientava di fatto la politica estera americana ha adottato quella politica ambiziosa senza esitazione, e con un grandissimo ottimismo sul futuro degli Stati Uniti e del mondo. Quantomeno inizialmente, l’opinione pubblica condivideva in gran parte quell’entusiasmo. Lo spirito dei tempi fu colto molto bene dal celebre articolo di Francis Fukuyama “The End of History?”, pubblicato proprio quando la Guerra fredda stava per finire. Il liberalismo, affermava l’autore, aveva sconfitto il fascismo nella prima metà del XX secolo e il comunismo nella seconda, e ormai non c’erano più alternative possibili. Il mondo, alla fine, sarebbe stato popolato interamente da democrazie liberali. Secondo Fukuyama, queste nazioni non avrebbero più avuto praticamente dispute significative, e le guerre tra grandi potenze sarebbero cessate. Il più grosso problema per gli abitanti di questo nuovo mondo sarebbe stato la noia.

 

All’epoca si pensava anche che la diffusione del liberalismo avrebbe messo fine alla politica dell’equilibrio di potere. La dura competizione per la sicurezza che ha sempre caratterizzato le relazioni tra le grandi potenze sarebbe venuta meno, e il realismo, storicamente il paradigma intellettuale dominante nelle relazioni internazionali, sarebbe finito tra i rottami della storia. “In un mondo nel quale avanza la libertà, non la tirannia”, proclamò Bill Clinton durante la campagna elettorale del 1992, “il calcolo cinico della politica del potere non funziona più. Non si addice a una nuova era in cui idee e informazioni vengono trasmesse in tutto il mondo prima che gli ambasciatori riescano a leggere i loro cablogrammi”. Probabilmente nessuno degli ultimi presidenti ha adottato la missione di diffondere il liberalismo più entusiasticamente di George W. Bush, che disse in un discorso pronunciato nel marzo 2003, due settimane prima dell’invasione dell’Iraq, “Il regime iracheno attuale ha dimostrato la capacità della tirannia di seminare la discordia e la violenza nel medio oriente. Un Iraq liberato può dimostrare la capacità della libertà di trasformare quella regione strategica, infondendo speranza e progresso nella vita di milioni di persone. Gli obiettivi di sicurezza dell’America, e l’amore dell’America per la libertà, vanno nella stessa direzione: verso un Iraq libero e pacifico”. Sei mesi dopo, il 6 settembre, proclamò: “L’avanzata della libertà è la missione della nostra epoca; è la missione del nostro paese. Dai Quattordici punti alle Quattordici libertà, al Discorso di Westminster, l’America ha messo la propria forza al servizio del principio. Noi siamo convinti che la libertà sia il progetto della natura; crediamo che la libertà sia la direzione della storia. Siamo convinti che l’appagamento e l’eccellenza degli esseri umani derivino dall’esercizio responsabile della libertà. E crediamo che la libertà – la libertà che apprezziamo sopra ogni altra cosa – non sia solo nostra, ma sia il diritto e la capacità di tutto il genere umano”.

 

Qualcosa è andato per il verso sbagliato. Oggi, nel 2018, l’opinione prevalente sulla politica estera degli Stati Uniti è molto diversa da quella che prevaleva nel 2003, per non parlare dei primi anni Novanta. E’ il pessimismo, non l’ottimismo, che domina quasi tutti i giudizi sui risultati conseguiti dall’America durante la sua “vacanza” dal realismo. Sotto i presidenti Bush e Barack Obama, Washington ha contribuito a seminare morte e distruzione in tutto il medio oriente allargato, e nulla fa immaginare che il caos possa finire in tempi ragionevolmente brevi. La politica americana nei confronti dell’Ucraina, ispirata da una logica liberale, è la responsabile principale della crisi in atto tra la Russia e l’occidente.

 

Gli Stati Uniti hanno combattuto due anni su tre dal 1989, su sette fronti diversi. E’ un dato che non dovrebbe sorprenderci. Diversamente da quanto si pensa comunemente in occidente, una politica estera liberale non è una formula per la cooperazione e la pace; è una formula per l’instabilità e per il conflitto. In questo libro mi concentro sul periodo che va dal 1993 al 2017, quando le amministrazioni Clinton, Bush e Obama, ognuna delle quali ha controllato la politica estera americana per otto anni, erano totalmente impegnate a perseguire l’egemonia liberale. Anche se il presidente Obama aveva delle riserve in proposito, esse contavano poco ai fini della linea seguita effettivamente dalla sua amministrazione all’estero. Non considero l’amministrazione Trump per due ragioni. Primo, quando stavo ultimando le bozze del libro era difficile immaginare come sarebbe stata la politica estera del presidente Trump, anche se dalla retorica della sua campagna elettorale appare evidente che riconosce il fallimento totale dell’egemonia liberale e vorrebbe abbandonarne alcuni elementi critici. Secondo, ci sono valide ragioni per pensare che l’ascesa della Cina e la resurrezione politico-militare della Russia abbiano rilanciato il confronto tra le grandi potenze. Alla fine Trump non potrà fare altro che adottare una strategia complessiva basata sul realismo, anche a costo di affrontare una resistenza considerevole sul fronte interno.