"Sconfiggi Washington, libera il sogno americano" recitava uno slogan del senatore libertario Rand Paul. Secondo l'analista Michael Strain, il sogno americano non è mai stato così libero

La morte del sogno americano è fortemente esagerata

Michael Strain

Il racconto del disastro della classe media, agitato da Trump e Sanders, alla prova dei fatti è fragile. Analisi contromano di un ottimista

Le speranze e le illusioni dell’America sono state spesso al centro del Pensiero dominante, da ultimo con la radiografia della disillusione fatta dallo storico Andrew Bacevich. Prima ancora questa pagina ha dato conto della lacerante polarizzazione descritta da Ezra Klein e del divario culturale che attraversa un paese spezzato, secondo l’analisi di Christopher Caldwell. Il controcanto è affidato a Michael Strain, intellettuale del conservatorismo riformista e analista dell’American Enterprise Institute. Strain ha scritto un libro, in uscita oggi negli Stati Uniti, che è una dichiarazione ottimistica sullo stato di salute del sogno americano. E’ un inno in prosa, fatto di dati, tabelle e numeri che tendono a mostrare la discrasia fra la percezione del grande tradimento della middle class e la realtà, assai più promettente. Nell’estratto pubblicato qui sotto Strain non dice che va tutto bene, ma dice che non va tutto così male. Non è una differenza da poco. 

 


 

Cos’hanno in comune il presidente Trump e Bernie Sanders? O l’anchorman di Fox news Tucker Carlson, il premio Nobel per l’economia e funzionario nell’Amministrazione Clinton Joseph Stiglitz e l’investitore miliardario Ray Dalio? Fra molti altri eminenti funzionari, commentatori, intellettuali pubblici e imprenditori, tutti loro hanno dato voce all’idea della morte del sogno americano. E non sono certo i soli. Le preoccupazioni per il declino del sogno americano sono molto diffuse, e sono state pesantemente influenzate dall’ascesa del populismo. La frustrazione verso le “élite” ha saturato il dibattito. Il sistema è viziato, sentiamo dire spesso, contro tutti tranne quelli che sono ai vertici. Ci dicono che gli stipendi sono stagnanti da decenni. La classe media è indebolita in modo permanente. Non c’è più mobilità verticale nella società americana. Il capitalismo è fallato. Ma questa narrazione ha un problema: il sogno americano è vivo. Il senatore Joshua Hawley, repubblicano del Missouri e astro nascente del populismo conservatore, in un discorso ha detto che la maggior parte degli americani “non ha avuto un reale incremento nei salari negli ultimi trent’anni”. L’argomento sviluppato dal senatore, secondo il quale gli stipendi sono stagnanti da decenni è assai comune, ed è citato frequentemente come prova del fatto che il sogno americano è morto. Ma sono più gli elementi falsi di quelli veri in questa analisi.

 

Consideriamo gli stipendi dei lavoratori “normali”, quelli che non sono manager né supervisori. Circa quattro lavoratori su cinque nell’economia americana sono in questa categoria. I loro stipendi sono rimasti stagnanti per decenni? No. Dall’estate del 1990 (un momento alto del ciclo economico) i loro salari sono cresciuti del 33 per cento, tenendo conto dell’inflazione. E’ un aumento notevole del potere d’acquisto per una famiglia media. Certo, è inferiore all’incremento sperimentato dall’1 per cento dei più ricchi, e gli americani non dovrebbero accontentarsi di questo ritmo di crescita. La politica dovrebbe fare di più per aiutare il mercato del lavoro a produrre salari più alti. Ma gli stipendi non sono rimasti stagnanti per decenni. La narrazione stagnante è persistente in parte perché è stata vera per un periodo considerevole. Il mercato del lavoro dal dopoguerra può essere diviso in tre periodi. Dalla fine degli anni Quaranta alla metà degli anni Settanta, gli stipendi aggiustati all’inflazione hanno avuto una crescita molto rapida. Sono seguiti poi due decenni di stagnazione e perfino di declino. Dalla metà degli anni Novanta, sono cresciuti per i lavoratori “normali”, anche se a un ritmo più lento rispetto agli anni Sessanta.

 

Lo stipendio è la forma di compenso più rilevante, ma è ben lontana dall’essere la sola componente degli introiti, cioè della quantità di risorse complessive disponibili per le spese e i risparmi di una famiglia. Il Congressional Budget Office fa un calcolo complessivo delle entrate che include il compenso derivante dal lavoro, il valore dell’assicurazione sanitaria fornita dal datore di lavoro e le rendite da investimenti finanziari. L’unità abitativa media ha avuto un aumento del 21 per cento fra il 1996 e il 2016, l’ultimo anno per il quale abbiamo dati disponibili. Lo stesso istituto bipartisan del Congresso calcola anche le entrate al netto delle tasse e dei versamenti allo stato, che sono cresciute del 44 per cento per l’unità abitativa media durante lo stesso periodo. Le famiglie nel 20 per cento più basso fra le entrate hanno visto i loro guadagni netti aumentare del 66 per cento. Come per gli stipendi, si tratta di guadagni solidi. Non sono aumenti spettacolari, ma le entrate per la famiglia media non sono rimaste allo stesso livello per decenni. Benché sia vero che le famiglie più ricche hanno goduto di una crescita più rapida di quelle povere, è meno vero di quanto ci suggerisce la versione comune dei fatti. Usando la misura standard della disuguaglianza, il coefficiente di Gini, l’ufficio budget del Congresso ha scoperto che il gap delle entrate fra i ricchi e i poveri è cresciuto soltanto del 2 per cento fra il 2007, quando, in concomitanza con l’inizio della Grande Recessione, le preoccupazioni per le disuguaglianze si sono consolidate, e il 2016. Calcolando le entrate al netto delle tasse, l’ufficio budget ha calcolato che la disuguaglianza è calata del 7 per cento. Oppure consideriamo che fra il 2007 e il 2019 la differenza nei guadagni settimanali medi fra il 90 per cento della popolazione e il dieci per cento dei più ricchi, una misura più diretta della disuguaglianza, è cresciuta solo del 2 per cento. Se il livello della disuguaglianza è relativamente alto, la sua crescita per almeno un decennio è stata piuttosto lenta, o addirittura in calo. Quando Elizabeth Warren ha lanciato la sua campagna elettorale, un anno fa, ha detto che la “classe media americana è stata deliberatamente svuotata”. I populisti conservatori offrono di frequente variazioni sullo stesso tema. Ovviamente la classe al centro del mercato del lavoro non è stata deliberatemente svuotata nel modo descritto dai populisti di destra e di sinistra, cioè dalle elite votato al libero commercio per arricchire se stesse a spese dei meno abbienti. Ma lo svuotamento è un fenomeno reale, e ha causato cambiamenti significativi. Una ricerca dell’economista del Mit David Autor mostra che nel 1970 l’occupazione complessiva era divisa in parti quasi uguali fra lavori a basso, medio e alto reddito, rispettivamente il 31, 38 e 30 per cento. Oggi, l’occupazione nella fascia media è calata al 23 per cento.

 

La causa principale di questo cambiamento drammatico è la tecnologia, non il libero scambio. Con il crollo dei costi per la computazione, le aziende si sono affidate sempre di più a robot e software per svolgere compiti procedurali. I posti di lavoro più colpiti, quelli che cioè erano più proni all’automazione, includono mansioni di produzione, operatori di macchinari e ruoli nell’assemblaggio. Sono esattamente i tipi occupazionali la cui scomparsa ha un particolare significato politico oggi. Questo cambiamento è un esempio della distruzione creatrice causata dal dinamismo economico. Ma il dibattito pubblico si è concentrato sulla distruzione, non sulla creazione che si accompagnava ad essa. Il calo in questi posti di lavoro tradizionalmente legati alla middle class ha generato una crescita in nuovi settori di impiego di medio reddito. Usando i dati del Bureau of Labor Statistics ho calcolato che i lavori che crescono di più in questo “nuovo centro” includono figure commerciali, manager di servizi personali, specialisti nel supporto dei sistemi di software, organizzatori di eventi, specialisti tecnologici nel settore sanitario, tecnici audiovisivi, cuochi e manager nel settore alimentare. Questi lavori richiedono più adattabilità alle situazioni, intelligenza sociale, competenze amministrative e di comunicazione rispetto ai loro corrispettivi tradizionali. Le politiche pubbliche dovrebbero migliorare nel fornire ai lavoratori gli skills che servono per accedere a salari migliori nell’economia del Ventunesimo secolo. E i lavoratori dovrebbero avere la disponibilità a fare ciò che è necessario per approfittare delle nuovo opportunità. Anche le aziende dovrebbero prendere iniziativa, e forse scopriranno che investire di più sui propri lavoratori aumenta il loro valore nel lungo periodo. Questa è la soluzione, non cercare di tornare indietro nel tempo costruendo muri protezionisti o promuovendo riforme industriali per favorire il settore manifatturiero. Politiche in questo senso danneggiano gli stessi lavoratori che dicono di voler aiutare.

 

Un altro pezzo di questa storia è spesso trascurato: lo svuotamento di cui si parla svela una tendenza verso la mobilità verticale. L’occupazione ad alta specializzazione è cresciuta, mentre quella nelle mansioni di medio livello è calata. La fetta del mercato del lavoro a bassa specializzazione non è aumentata.

 

I dati del Census Bureau dal 1967 al 2018 mostrano un calo di 12 punti percentuali nella quantità di unità familiari con un reddito fra i 35 mila e i 100 mila dollari l’anno. La fetta delle famiglie con basso reddito – sotto i 35 mila dollari – è anch’essa diminuita nello stesso periodo, da 36 a 28 per cento. La quota delle famiglie che superano i 100 mila dollari è triplicata: dal 10 al 30 per cento. A dispetto delle preoccupazioni sulla tenuta del sistema capitalista, l’economia di oggi è positiva per i lavoratori americani. Il tasso generale di disoccupazione è ai minimi da cinquant’anni. Nel picco della Grande recessione c’erano sei disoccupati per ogni nuovo posto di lavoro. Oggi ci sono più richieste di lavoro che persone disoccupate. L’autunno scorso il tasso di occupazione per le persone fra i 25 e i 54 anni ha sorpassato il picco dell’era pre recessione. L’economia di oggi è eccellente nell’assicurare che ogni lavoratore alla ricerca di un’occupazione possa trovarla. Dopo anni di performance deludenti, gli economisti di Goldman Sachs hanno calcolato, usando una misura che tiene conto di diverse statistiche pubbliche, che gli stipendi crescono a un ritmo del 3,4 per cento annuo. E’ un tasso di crescita più rapido di quello suggerito dalla crescita della produttività e dall’inflazione. Con i prezzi al consumatore in crescita a un ritmo inferiore al 2 per cento annuo, questo rappresenta un incremento reale del potere d’acquisto. L’economia non sta andando bene soltanto per i ricchi. I dati dicono che il salario settimanale medio per il dieci per cento dei lavoratori meno abbienti è cresciuto del 19 per cento negli ultimi quattro anni, una crescita tre volte più rapida di quella dei lavoratori della classe media. Il tasso di disoccupazione fra i lavoratori senza un diploma superiore è calato di più del 10 per cento dal picco raggiunto durante la recessione. E’ ancora più al di sotto della sua media storica se si considerano i laureati. E il mercato del lavoro in contrazione ha dato benefici a uno spettro di lavoratori vulnerabili. L’occupazione per le persone con disabilità è cresciuta del 20 per cento dal 2014. Nel 2018 la compagnia Burning Glass Technologies, che analizza il mercato del lavoro, ha dichiarato che sempre meno offerte di lavoro richiedono un controllo dei precedenti penali. Come ha sintetizzato un titolo del Wall Street Journal: “Il mercato del lavoro in contrazione apre le porte agli ex criminali”.

 

Niente è più importante per il sogno americano dell’aspettativa che i nostri figli stiano meglio di noi. Attraverso il Panel Study of Income Dynamics, un database che raccoglie informazioni su famiglie nel tempo e nei passaggi fra generazioni, ho calcolato che circa tre quarti delle persone che oggi hanno fra i 40 e i 50 anni hanno un reddito più altro di quello che avevano i genitori alla loro età. L’86 per cento delle persone cresciute nel venti per cento dei redditi più bassi guadagna più di quanto facevano i loro genitori al tempo. Ben più della metà degli uomini americani guadagna di più dei padri, e questo vale per il 79 per cento nel gruppo dei più poveri e per il 72 per cento della working class. Queste statistiche testimoniano una notevole mobilità sociale. L’America ha ancora davanti importanti sfide economiche e sociali, come il declino della forza lavoro fra gli uomini all’inizio dell’età professionale, il subbuglio causato dall’automazione, cittadine e comunità lasciate indietro, crescita della produttività ancora troppo lenta, scuole inadeguate, ridotta energia e dinamismo, l’epidemia degli oppiacei e una inquietante crescita dei suicidi, tanto per fare alcuni esempi. Ma è importante non scambiare questi problemi per l’immagine generale della vita americana. L’America sta meglio dei suoi problemi. Il recente passato dimostra che un’economia dinamica porta benefici a tutti i lavoratori, inclusi quelli meno pagati, meno qualificati e più vulnerabili. Il duro lavoro continua a pagare, e i lavoratori possono ancora godere dei frutti del proprio lavoro e possono migliorare la propria condizione e quella delle proprie famiglie. E questo è esattamente il motivo per cui è così dannoso continuare a dire che il capitalismo americano è al collasso. I messaggi contano. Se tutti si sentono continuamente dire che l’economia li ha traditi, che il sistema è contro di loro, questo deprime le aspirazioni e prosciuga le energie, mortificando le loro prospettive di crescita. La narrazione populista secondo cui i lavoratori sono vittime senza responsabilità o capacità di azione potrà avere presa in questi tempi turbolenti, ma è profondamente demoralizzante e pericolosa. Il mio non è un invito ad adagiarsi. Il sogno americano ha sempre bisogno di essere rinnovato, perché ogni generazione si trova di fronte a nuove sfide. Il sogno deve essere rafforzato, anche attraverso limitate ma energiche iniziative pubbliche per dare opportunità a a chi ne ha più bisogno. Ma il sogno non è morto, e non dobbiamo lasciare che le urla dei populisti ci convincano del contrario. Gli americani di oggi hanno buone ragioni per essere ottimisti e grati. 

 


 

Il sogno americano non è morto, ma i populisti possono ancora ucciderlo: Michael Strain ha scelto un titolo senza equivoci per il suo ultimo libro, pubblicato oggi negli Stati Uniti da Templeton Press. Strain è un intellettuale conservatore di impostazione riformista, studioso attento del mercato del lavoro in America e responsabile delle ricerche sull’economia politica dell’American Enterprise Institute, cosa che lo qualifica come avversario del trumpismo e più in generale della narrazione populista, che è imperniata sul fulcro della distruzione del sogno americano.