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il pensiero dominante

La carità come forma suprema della politica

La Charta Caritatis dei cistercensi ha novecento anni, ma li porta bene. Le lezioni laiche di un testo monastico per le democrazie in crisi d'identità

Cosa può dire all’uomo contemporaneo un testo scritto novecento anni fa da un monaco, per giunta indirizzato ad altri monaci e orientato alla disciplina interna di un ordine monastico? E ancora: cosa può dire a un politico di oggi una carta con queste caratteristiche, piena di riferimenti religiosi inaccettabili per uno stato laico e assurdi per un ambiente culturale quasi completamente secolarizzato? Il “Pensiero dominante” di questa settimana si propone di mettersi di traverso rispetto al pensiero dominante – con la lettera minuscola – in materia, riprendendo in mano la Charta Caritatis, documento essenziale dell’ordine cistercense che quest’anno festeggia i novecento anni dall’approvazione. L’ipotesi che qui si sostiene è che gli estensori della carta di carità non abbiano trasmesso soltanto alcuni elementi devozionali della spiritualità cristiana medievale, ma nel delineare le modalità di convivenza all’interno della federazione, per così dire, delle abbazie del tempo, abbiano posto un’idea di società civile e politica che è pertinente anche nel contesto dell’organizzazione democratica del mondo contemporaneo. E soprattutto nel contesto della disorganizzazione democratica di oggi, dove la democrazia liberale vive un momento di crisi e sembra brancolare nel buio, alla ricerca di principi condivisi e ideali sui quali rifondare una nuova stagione. Il gesuita Jean Danielou parlava della preghiera come atto politico, e sul filo di un paradosso analogo si potrebbe definire la carta di carità come un documento di governance, gravido di idee laicamente ricevibili perché orientate a una concezione caritetevole dei rapporti fra le persone e le istituzioni. La democrazia prenda appunti.

 


 

Esiste un interessante filone di riflessione, in ambito economico, sul contributo virtuoso che il modello dell’organizzazione monastica può offrire alle aziende secolarizzate, un rapporto analizzato, per citare tre testi rappresentativi, in L’organizzazione perfetta (Guerini) di Massimo Folador, La regola di San Benedetto per il successo negli affari (Hermes) dello storico americano Quentin Skrabec, e Business Secrets of the Trappist Monks (Columbia Business School Publishing) dell’ex dirigente d’azienda August Turak. Ciascuno di questi autori individua le proficue lezioni che l’economia monastica può offrire alle aziende non solo in materia di sostenibilità e social responsibility ma anche di profitto, trattamento dei dipendenti, armonia fra i segmenti produttivi, ricerca della giusta mission aziendale. È molto meno sviluppata, invece, la riflessione intorno a cosa l’organizzazione monastica possa insegnare alle società democratiche, questione particolarmente delicata e rilevante in un momento in cui la struttura stessa della democrazia appare fragile, i suoi valori di riferimento appannati – o addirittura difficili da reperire – e i suoi presupposti messi sotto accusa da forze illiberali che invocano niente meno che un cambio del paradigma politico e sociale di riferimento.

  

L’occasione per iniziare questa riflessione la offre l’anniversario dell’approvazione della Charta Caritatis, nota anche carta della carità anteriore, il documento che ha formalizzato lo statuto dell’ordine cistercense. E’ stata promulgata, con l’approvazione di Papa Callisto II, nel dicembre del 1119, novecento anni fa, quasi un secolo prima della Magna Charta. La carta della carità è quasi certamente il frutto del lavoro di più autori, ma è generalmente attribuita a santo Stefano Harding, monaco inglese che fondò il nuovo monastero di Citeaux nel 1098 assieme a Roberto di Molesme e Alberico di Citeaux, i cofondatori dell’ordine. Una delle peculiarità della carta è che non si tratta di un testo spirituale o teologico. O meglio, il testo è illuminato dalla luce della trascendenza e radicato nella tradizione religiosa, secondo la particolare sensibilità cenobitica che naturalmente lo caratterizza, ma è in sé un testo giuridico, che infatti ha assunto una particolare rilevanza presso gli esegeti del diritto. Si potrebbe dire che è un testo politico, intendendo il termine come “forma più alta di carità”, secondo la definizione che Paolo VI non ha mai davvero pronunciato – il copyright è di Pio XI – ma che certamente ha condiviso nella sostanza. La Charta Caritatis si occupa di regolare i rapporti fra l’abbazia-madre e le abbazie-figlie, sancisce costumi e leggi comuni, chiarisce l’autorità, e i suoi limiti, delle varie cariche coinvolte, regola i processi di successione, i regolamenti delle riunioni e delle visite, mette per iscritto i meccanismi di elezione degli abati, le reprimende e le punizioni previste per le trasgressioni, delineando una particolare forma di federalismo monacale che regola la vita di questa comunità transnazionale allora in espansione. La stella polare è la carità, che secondo l’apostolo Giovanni qualifica la natura stessa di Dio e che san Paolo pone come la più importante fra le virtù teologali. Il principio della carità detta una condizione fondamentale della convivenza fra i monasteri che viene esposta nel primo articolo della carta: “Non imponiamo alcuna tassa né sui beni materiali né sulle cose temporali ai nostri abati e monaci confratelli”. Il motivo del decreto è evitare che, arricchendosi a spese della povertà delle abbazie più indigenti, “noi ci rendiamo colpevoli del vizio dell’avarizia che, secondo l’Apostolo, è una vera idolatria”. Ma la ragione più profonda del divieto di tassare è spiegata con la comune coscienza di essere “servi, benché inutili, di un unico vero Re, Signore e Maestro”. La riconosciuta dipendenza dal Dio-Carità, che si è donato gratuitamente, rende iniqua l’imposizione di gabelle ai fratelli. L’uso dei termini “madre” e “figlie” in riferimento alle abbazie dell’ordine sottolinea la concezione organica, famigliare che la carta registra. In termini laici, si potrebbe dire che è il valore che fonda la comunità, il presupposto su cui si regge, a dettare ciò che è giusto o ingiusto chiedere ai vari membri: se una comunità di stati si unisce ad esempio nel nome del principio di solidarietà, sarà la comune adesione a quel principio a suggerire il confine fra il lecito e l’illecito nell’imporre dazi e vincoli.

 

Nel secondo articolo della carta si stabilisce che tutti i monaci devono vivere “con la stessa Regola e con le medesime consuetudini”, non per un formale desiderio di uniformità ma perché “viviamo nella carità”, cosa che sarebbe compromessa in un’organizzazione fatta di discordanze e autonomie. Questo spirito di carità permea tutte le prescrizioni previste dalla carta. L’abate dell’abbazia-madre, si legge nel terzo articolo, deve visitare con regolarità gli altri monasteri, ma deve evitare di “intromettersi nel regolare e disporre dei beni di quel monastero che verrà visitato, contro la volontà dell’abate del luogo e dei monaci”; nel caso di abusi si raccomanda di “riprendere caritatevolmente” i colpevoli con la collaborazione dell’abate del luogo. Nel caso che un’abbazia si trovi in una situazione di povertà, si legge nella carta, “ciascun abate, acceso dalla più grande carità, si affretti a risollevare l’indigenza di quella abbazia con i beni concessi da Dio a ciascuno, secondo le proprie risorse”.

 

Per gli abati che disprezzano la regola o l’ordine sono previsti fino a quattro ammonimenti da parte dei superiori, nella speranza che questo si emendi. Se non accade ci si rivolgerà allora all’autorità del vescovo e dei chierici della chiesa locale, i quali dovranno “chiamare l’accusato e, discutendo diligentemente la causa con l’abate suddetto, o lo inducano ad emendarsi oppure, se risulterà incorreggibile, lo rimuovano dalla cura pastorale”. La carta della carità arriva a prevedere “la spada della scomunica” per chi rifiuta risolutamente ogni correzione, ma contempla e anzi anela al perdono e alla riconciliazione, tanto da prevedere la possibilità di reintegro per chi si ravvede. Anche questo è descritto in termini di maternità e figliolanza: “Se in seguito, qualcuno di questi perversi, rinsavendo e volendo evitare la morte della propria anima desiderasse cambiare in meglio la propria vita e venisse ad abitare da sua madre, cioè al Nuovo Monastero, sia accolto come un monaco, figlio di quella abbazia”. Se la cura delle anime è dunque il cuore del documento attribuito a Stefano Harding, la cura delle relazioni umane e dei giusti rapporti fra le varie autorità ne costituisce l’ossatura, rendendolo un testo sulla governance alquanto attuale e per nulla limitato al contesto della religiosità medievale nel quale è stato concepito. Le democrazie in crisi potrebbero trarre un laico giovamento dalla rilettura di questa costituzione caritatevole scritta novecento anni fa.

 


 

Pubblichiamo qui alcuni stralci della Charta Caritatis, attribuita a santo Stefano Harding e approvata nel 1119. In occasione del novecentesimo anniversario della carta, il Centro Culturale di Milano organizza un incontro pubblico il 18 ottobre alle 20.45 dal titolo “Dalla convivenza alla democrazia: la scrittura della carità”, con Padre Mauro Giuseppe Lepori, abate generale dell’ordine cistercense, e Stefano Zamagni, presidente della pontificia accademia per le scienze sociali.


Capitolo primo
Poiché noi tutti ci riconosciamo servi, benché inutili, di un unico vero Re, Signore e Maestro, non imponiamo alcuna tassa né sui beni materiali né sulle cose temporali ai nostri abati e monaci confratelli che Dio, nella sua bontà, vorrà riunire in diversi monasteri sotto una stessa disciplina regolare per mezzo di noi che siamo i più indegni degli uomini. Desiderosi infatti di giovare a loro e a tutti i figli della santa Chiesa, non vogliamo né aggravarli con le imposte, né diminuire le loro risorse, cosicché arricchendoci a spese della loro povertà, noi ci rendiamo colpevoli del vizio dell’avarizia che, secondo l’Apostolo, è una vera idolatria [...].


Capitolo secondo
Ora noi vogliamo e comandiamo loro di osservare in tutto la Regola di San Benedetto come è osservata nel Nuovo Monastero. Essi non mutino il senso nella lettura della santa Regola, ma come la interpretarono e l’osservarono i nostri predecessori, cioè i santi padri, monaci del Nuovo Monastero, ed oggi noi la interpretiamo e la osserviamo, così essi pure la interpretino e l’osservino.


Capitolo settimo
Tutti gli abati di questi monasteri una volta all’anno, nel giorno che avranno concordemente stabilito, si recheranno al Nuovo Monastero. Qui tratteranno della salute delle loro anime e delle loro comunità. Daranno disposizioni circa l’osservanza della santa Regola o (le consuetudini) dell’Ordine, nel caso che ci fosse qualcosa da correggere o da aggiungere, e ristabiliranno tra loro la pace e la carità fraterna [...]. Se poi, per caso, qualche abbazia fosse venuta a trovarsi in estrema povertà, l’abate di quel luogo faccia presente il caso a tutto il capitolo. Allora ciascun abate, acceso dalla più grande carità, si affretti a risollevare l’indigenza di quella abbazia con i beni concessi da Dio a ciascuno, secondo le proprie risorse.

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