Un giovane critico, minimalista "di default", smaschera le insidie del mantra "less is more", una ricetta conformista travestita da liberazione
La voglia di sbarazzarsi delle cose inutili accumulate in casa, nel garage, negli armadi, negli sgabuzzini che non apriamo mai, in macchina, nella cloud, segnala un desiderio di tornare a una vita autentica, essenziale, fatta di pochi oggetti accuratamente scelti e intensamente vissuti, custoditi, amati. Buttare ciò che eccede è dunque un gesto di riappropriazione. Forse è questo, suggerisce il critico americano Kyle Chayka, il motore profondo dell’istinto minimalista che ciclicamente si manifesta nel mondo civilizzato, in questo frangente storico con una pletora di santoni del riordino che vendono tecniche di riorganizzazione degli spazi personali come se fossero libri di self-help. Fra i due generi, in effetti, non c’è differenza. Chayka osserva che si tratta di una degenerazione, una banalizzazione seriale di un concetto – sintetizzato con la formula “less is more” – che nel suo ambito originario, quello artistico, conteneva un afflato rivoluzionario. Si trattava della liberazione dalle cose futili per andare alle cose ultime. Oggi è la riproduzione di tecniche seriali per il ritrovamento automatico del proprio io.
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