Meno non è più. Le aporie dell'ideologia minimalista
Un giovane critico, minimalista "di default", smaschera le insidie del mantra "less is more", una ricetta conformista travestita da liberazione
La voglia di sbarazzarsi delle cose inutili accumulate in casa, nel garage, negli armadi, negli sgabuzzini che non apriamo mai, in macchina, nella cloud, segnala un desiderio di tornare a una vita autentica, essenziale, fatta di pochi oggetti accuratamente scelti e intensamente vissuti, custoditi, amati. Buttare ciò che eccede è dunque un gesto di riappropriazione. Forse è questo, suggerisce il critico americano Kyle Chayka, il motore profondo dell’istinto minimalista che ciclicamente si manifesta nel mondo civilizzato, in questo frangente storico con una pletora di santoni del riordino che vendono tecniche di riorganizzazione degli spazi personali come se fossero libri di self-help. Fra i due generi, in effetti, non c’è differenza. Chayka osserva che si tratta di una degenerazione, una banalizzazione seriale di un concetto – sintetizzato con la formula “less is more” – che nel suo ambito originario, quello artistico, conteneva un afflato rivoluzionario. Si trattava della liberazione dalle cose futili per andare alle cose ultime. Oggi è la riproduzione di tecniche seriali per il ritrovamento automatico del proprio io.
"Less is more” è un mantra che riaffiora ciclamente almeno dal 1947, quando l’architetto Ludwig Mies van der Rohe ha coniato la sintesi per descrivere, in tre parole, la sua filosofia minimalista. L’idea che togliere è in realtà aggiungere, che la diminuzione degli oggetti in uno spazio abitativo è un arricchimento, che accumulare cose significa distrarsi dall’essenziale, che affollare è un po' soffocare, mentre il vuoto schiude una dimensione più profonda dell’esistenza è stato ampiamente interepretato e dibattuto da correnti artistiche, letterarie, architettoniche, musicali. Da Donald Judd a Frank Stella, le arti visive hanno interpretato in modo anche radicalmente conflittuale la filosofia minimalista; Yves Klein aveva concepito le sinfonie “monotono” in cui venti minuti di un singolo accordo musicale erano seguiti da venti minuti di silenzio, esperimento che aveva ispirato 4’33’’ di John Cage, in cui i musicisti dell’orchestra si erano trovati sullo spartito l’istruzione di non suonare i loro strumenti. Ne era nata una sinfonia in tre movimenti fatta soltanto di discreti rumori di fondo. Le influenze esplicite o subliminali del minimalismo hanno dato origine agli esperimenti più diversi in letteratura, da Raymond Carver a Bret Easton Ellis. Le scienze sociali hanno trasvalutato il minimalismo in critica al consumismo, che si è arricchita di ulteriori significati sullo sfondo del senso di colpa ambientalista, dove ogni azione genera un impatto e ogni impatto distrugge il pianeta, cosa che suggerisce di abbracciare l’ethos dell’astinenza e della rinuncia. Rinuncia alle automobili, alla plastica, alle carni, ai viaggi intercontinentali, barca a vela esclusa.
Nell’evo contemporaneo “less is more” ha travalicato di molto la disputa filosofico-artistica attorno al minimalismo e alle sue ragioni più profonde, ed è diventata una specie di posizione di default che almeno le generazioni più giovani si trovano addosso come postura interiorizzata, veicolata dai criteri organizzativi di Marie Kondo, dal culto del decluttering, dai condomini senza arredamento, dall’estetica del vuoto, della necessità di liberarsi del sovrappiù per affermare la propria esistenza. Il giovane critico culturale americano Kyle Chayka ha scritto un saggio in cui esplora le ragioni del continuo emergere del minimalismo come ideale della vita contemporanea. S’intitola The Longing for Less. Living With Minimalism e muove dal presupposto che il carattere oppressivo che viene solitamente attribuito alla presenza eccessiva di oggetti, specie nello spazio domestico, sia un fatto ormai caratteristico della cultura contemporanea. In quanto millennial nella parte più bassa della traiettoria generazionale, quella che tende verso la generazione Z, Chayka ha inconsapevolmente assorbito i precetti dominanti della cultura degli anni Duemila, che secondo una vaga tenenza alla meditazione orientaleggiante valuta il possesso delle cose come ostacolo al raggiungimento di una vagheggiata “dimensione essenziale” e teorizza la preminenza delle esperienze sugli oggetti (una cena in un ristorante stellato è meglio di un capo firmato che si indossa tre volte). E qui Chayka vede gli indizi di un inganno. La sua tesi è che il minimalismo, nella sua dimensione artistica, nasceva da un atto di ribellione verso le stratificazioni di pensieri convenzionali, era una “sfida alle proprie convinzioni più profonde per tentare di entrare in relazione con le cose per ciò che sono, non per fuggire da una realtà che non dà risposte”. La scelta di liberarsi dalle zavorra era dettata dal desiderio di sollevarsi, alla ricerca del significato. Questo istinto di “liberazione”, la necessità di sbarazzarsi del vecchio e dell’onusto, sostiene Chayka, è penetrato nella cultura, cristallizandosi in un atteggiamento diffuso, ma ha perso il suo intento originario e si è messo al servizio di un processo di omologazione.
Il metodo organizzativo di Kondo è un caso di scuola. La grande ripulitrice giapponese del superfluo, seguita con piglio religioso da decine di milioni di adepti in tutto il mondo, a parole sostiene di vole aiutare le persone a trattenere soltanto ciò che dà gioia e a buttare il resto, ma nella realtà propone un modello organizzativo standard programmaticamente privo di elementi creativi. Chi abbraccia il minimalismo come atto di resistenza alla cultura consumista, trova nella filosofia di Kondo un nuovo protocollo consumista, semplicemente ispirato a criteri di efficienza, semplicità e minimizzazione dello stress, nella convinzione che la “gioia”, parola centrale nella liturgia kondista, consista nello scaricare le angosce associate all’opprimente disordine che regna nei nostri spazi vitali.
Una dimanica simile vale anche per lo stile degli arredi dei boutique hotel per millennial, per l’organizzazione degli spazi domestici promossa dai marchi minimalisti, per i centri di coworking che si assomigliano tutti, il design tendente all’invisibile di Apple, per gli spazi di lavoro nati dall’industria tecnologica e poi estesi a qualunque settore, che Chayka ha ribattezzato “AirSpace”, luoghi seriali che ammontano a “esercizi di narcisismo”. L’ossessione per questa versione in tono minore della filosofia “less is more” ha dato origine a diverse pratiche, come il “minimaslismo digitale”, che impone la riduzione del proprio bagaglio di dati, o la creazione di veri percorsi per diventare minimalisti affermati. Da anni Joshua Fields Millburn e Ryan Nicodemus – due ex manager di successo “solo apparente” dell’Ohio che hanno lasciato la vita remunerativa e agiata di prima per ritrovare se stessi, e hanno finito per trovare un’altra vita remunerative e agiata – insegnano come diventare minimalisti con guide pratiche, podcast, articoli, libri, documentari dapprima autoprodotti e poi acquistati da Netflix e adunate in stile megachurch battista. Hanno anche messo a punto un piano per diventare minimalisti in 21 giorni. Avrebbero potuto comprimere il percorso in soli dieci giorni, ma sarebbe stato troppo stressante per un aspirantre minimalista, che del resto s’avvicina allo stile di vita prorio alla ricerca di una diminuzione del carico problematico dell’esistenza. Milburn e Nicodemus hanno una ricetta per diventare minilamisti, che è l’opposto concettuale degli artsiti che si rivolgevano al minimalismo come rifiuto di tutte le ricette.
Si può rigettare in toto l’argomentazione del giovane autore di The Longing for Less, come ha fatto il recensore del Wall Street Journal, secondo cui il critico si muove secondo “l’assunto falso che i minimalisti di oggi, domando il proprio consumismo, stiano esprimendo una visione della vita. Alcuni vogliono soltanto mettere i calzini in ordine”. Ma proprio il pregio del saggio di Chayka, che è piuttosto amibizioso e quindi inevitabilmente lacunoso, è di ricercare il motore segreto che spinge le giovani generazioni a tentare di scovare il più nel meno, finendo per adagiarsi poi sull’uguale.
Pubblichiamo un breve estratto dal libro The Longing for Less: Living with Minimalism di Kyle Chayka, uscito da poco negli Stati Uniti
L’insoddisfazione verso il materialismo e i tradizionali incentivi della società non sono nuovi, ma il minimalismo è un’idea che non ha una storia cronologicamente lineare. E’ più simile a un sentimento che si ripropone in diversi tempi e luoghi nel mondo. E’ definito dal senso che la civilizzazione che ci circonda è eccessiva e ha perciò perso la sua autenticità originaria, che va riconquistata. In questi momenti il mondo materiale ha meno significato, e perciò l’accumulo di cose perde il suo fascino. Ho iniziato a pensare a questo sentimento universale come alla brama per il meno. E’ un desiderio astratto, quasi nostalgico, un richiamo versi un mondo diverso, più semplice. Né passato né futuro, né utopico né distopico, questo mondo più autentico è sempre al di là della nostra esistenza attuale, in un luogo che non possiamo mai raggiungere. Forse la brama per il meno è l’ombra che sempre accompagna un dubbio dell’umanità: e se fossimo più felici senza tutto ciò che la società moderna ha conquistato? Se le trappole della civiltà ci lasciano così indosddisfatti, forse la loro assenza è preferibile e dobbiamo abbandonarle per cercare una verità più profonda. Il desiderio del meno non è né la malattia né la cura. Il minimalismo è soltanto un modo in cui concepiamo cosa significa una vita buona.
Per alcuni devoti, il minimalismo è una terapia. L’emozione di sbarazzarsi di tutto assomiglia a un esorcismo del passato che apre la strada verso un futuro di immacolata semplicità. Rappresenta uno stacco decisivo. Non dipenderemo più dall’accumulo degli oggetti che danno felicità, ma ci accontenteremo invece delle cose che abbiamo consapevolmente deciso di tenere, le cose che rappresentano il nostro io ideale. Possedendo meno cose, saremo capaci di costruire nuove identità attraverso la selezione degli oggetti, invece di soccombere al consumismo.
Questo è almeno il modello reso popolare dai libri, dai social media e dalla instantaneamenta famosa serie di Netflix di Marie Kondo. Il metodo KonMari, descritto nel suo libro The Life-Changing Magic of Tidying Up è stranamente rigido, animato da un fascino ritualistico per il processo con cui si decide se ciascun oggetto deve essere buttato o tenuto. Soltanto seguendo i disciplinati comandamenti di Kondo il lettore può davvero avere successo. A dispetto del principio dichiarato secondo cui ognuno dovrebbe trovare la propria versione dell’ordine, critica quelli che seguono “approcci sbagliati” nell’atto di ripulire. Si deve iniziare dai vestiti, poi passare ai libri, alle carte e agli oggetti vari. Gli oggetti con valore affettivo, come fotografie e cimeli, devono essere affrontati per ultimi, perché soltanto alla fine del percorso uno avrà sviluppato una sensibilità per la gioia adeguata alla valutazione di oggetti tanto potenti.
Kondo promette l’illusione della scelta. Tu decidi cosa resta nella tua casa, ma lei ti dice esattamente come deve essere piegato, conservato e mostrato, ciò in che modo ti ci devi relazionare. Quando hai tolto ogni cosa da tutti gli anfratti e le fessure, ti rendi conto di quante cose possiedi e di quanto non ne hai veramente bisogno [...]. I lettori barattano l’ortodossia del consumismo con l’ortodossia dell’ordine. La filosofia di KonMari sarà anche vagamente anti-capitalista, ma poi ti tocca comprare una valigia di libri della Kondo per metterla in pratica. E’ stata ocmpletamente trasformata in un brand: la sua azienda vende scatole di Kondo per archiviare le cose, certificati per aspiranti adepti e anche “diapason terapeutici”.