
Le misure emergenziali imposte dal coronavirus hanno amplificato il dibattito sullo smart working, pratica amata a parole ma ambigua nella concezione e nei risultati
L'entusiasmo equivoco sullo smart working
Il lavoro smart è davvero intelligente? Breve indagine, anche etimologica, su una parola decisiva del nostro tempo e sulla sua fuorviante traduzione
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Il Pensiero dominante di questa settimana nasce da una suggestione via Twitter, al solito arguta, del grande linguista e neuroscienziato Andrea Moro: “Interessante notare che il lavoro a distanza non venga più chiamato ‘telelavoro’ ma ‘smart working’: ‘lavoro intelligente’. L’implicazione è imbarazzante”. Poiché questa pagina ha l’ambizione, puntualmente delusa, di mettere a fuoco qualche idea fissa dietro alla superficie mobile dei fenomeni, lo spunto offre un buon punto di partenza. Non tanto e non solo per interrogarsi sull’efficacia della pratica dello smart working , che con questa epidemia si è assai rafforzata, ma per capire meglio di cosa parliamo, esattamente, quando adoperiamo questo bell’anglicismo e soprattutto quando ne proponiamo la sua traduzione più comune nel dibattito giornalistico e nella chiacchiera quotidiana: “lavoro intelligente”. È nata così una breve esplorazione socio-etimologica (?) intorno a smart, l’aggettivo onnipresente, il lemma che pretende forse più di ogni altro di qualificare il nostro tempo. Un’epoca sempre più smart, ma non necessariamente più intelligente.
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