Il sacrificio di Isacco dipinto da Rembrandt nel 1635, oggi conservato all'Hermitage di San Pietroburgo (Wikipedia)

Il Dio del sovrappiù

Nella sua missione biblica, Roberto Calasso illumina l’idea asimmetrica dell’elezione divina. Appunti sul "libro di tutti i libri"

La decima parte della multilogia di Roberto Calasso porta un titolo goethiano spaventosamente definitivo: Il libro di tutti i libri. Significa che tutti gli altri libri, quelli già scritti e quelli ancora da scrivere, sono contenuti o in qualche modo riconducibili a un unico libro che li pre-scrive tutti, la Bibbia. Questo libro primigenio è a sua volta il precipitato terrestre della “Torah in cielo”, figlia unigenita di Iahvè, scritta “novecentosettantaquattro generazioni prima che il mondo venisse creato” con “fuoco nero su fuoco bianco”, come annota Calasso in un incipit che rimanda a un tempo anteriore alla creazione. Dio non si può separare dalla figlia, ma allo stesso tempo non può rifiutare il re straniero che vuole prenderla in sposa. Ingiunge dunque: “Concedimi solo questo: che ovunque andiate ci sia una stanza per me”. La legge della Torah celeste informa la scrittura del libro di tutti i libri, la pietra angolare su cui si erge l’architettura imponente della civiltà ebraica, questione ancestrale e in ultima analisi misteriosa che genera conseguenze dirompenti per la storia del mondo. Non c’è libro che non contenga una traccia del libro su cui Dio scrive dritto anche sulle righe storte degli uomini, come diceva in tutt’altro contesto Jacques Bénigne Bousset, predicatore di Luigi XIV.

 

Che al cuore della vicenda del popolo di Israele ci sia un libro non è di poco conto. Nel mondo cristiano la sapienza della parola è superata e compiuta nell’incarnazione. Cristo è il verbo incarnato, è logos eterno e persona vivente che raccoglie discepoli analfabeti e instaura un rapporto conflittuale con i libri della legge antica, la sua venuta introduce una nuova scrittura, fatto inammissibile per la cultura ebraica, ed è del tutto naturale che Vladimir Solov’ëv faccia dire ai cristiani, interrogati dall’imperatore su quale sia la cosa più cara che hanno del cristianesimo, che “quello che abbiamo di più caro è Cristo stesso”. Non avevano principio, legge o vincolo più alto da dichiarare della persona divina del maestro.

 

La lettura come presupposto della comprensione del divino fa del testo un’arca che custodisce il tesoro di tutti i tesori

Nel mondo ebraico il libro sta al principio di ogni cosa e il “potere dirimente” della lettura segna una “differenza invalicabile fra Gerusalemme e i suoi molti, turbolenti vicini”. In questo caso è la lettura del Deuteronomio, “ricapitolazione di tutta la legge di Mosé”. Scrive Calasso: “Deuteronomio, in ebraico, è debarim, ‘parole’. Sin dall’inizio, ‘essere ebreo significò essere bookish’, ha osservato Simon Schama. L’atto di leggere non faceva parte della teologia. Ne era il presupposto. Su questo si sarebbe fondata tutta la Bibbia”. La lettura come presupposto della comprensione del divino fa del testo un tabernacolo, un’arca che custodisce il tesoro di tutti i tesori. Con quest’ultimo saggio, pubblicato dalla casa editrice Adelphi che l’autore presiede, Calasso organizza una spedizione speleologica nel testo biblico: il punto di partenza è “prima di Adamo” e l’approdo è “dopo di noi”, informa il risvolto di copertina. La missione non si risolve in un corpo a corpo con la dimensione prescrittiva della scrittura, che pure è inevitabile: Torah è infatti anche etimologicamente insegnamento o dottrina. Ma lo scopo qui non è l’esegesi legalistica, non si tratta di stabilire cosa esattamente Dio comandi al popolo prediletto con il suo incessante e spesso imperscrutabile parlare. L’attenzione è rivolta alla dimensione narrativa del testo biblico. Ipersemplificando, la Bibbia è un alternarsi di regole e storie. Ciò che rende imprescindibili le une e le altre è il fatto che a dettarle è Dio, per bocca ora dei profeti, ora dei re, ora di veggenti come Samuele. Dalle storie emerge il tessuto tematico che Calasso non affronta per via filologica o teologica, pur appoggiandosi su un imponente apparato di riferimenti. Per illuminare, l’autore sceglie di ri-raccontare. Grazia, colpa, diaspora, separazione, promessa, sacrificio, idolatria, eros, sterminio, attesa, fuga, persecuzione vengono sorprese nel loro accadere attraverso la rimessa in scena delle vicende di Abramo e del sacrificio di Isacco, di Esaù che vende la primogenitura, della gloria e della torva impulsività di David, dell’epica costruzione del tempio di Salomone, in tempi segnati da una strana pace, della disperata edificazione della Torre di Babele sulla piana di Sennaar, della fuga dall’Egitto, delle guerre contro i Filistei e gli Amaleciti, il nemico perenne. Non mancano le escursioni al di fuori di questo registro, verso lidi più saggistici, la più brillante delle quali è la ricostruzione della tesi ardita del tardo Freud su Mosè: il profeta che aveva portato Israele fuori dall’Egitto era un egizio, e il monoteismo una trovata faraonica. Così si arrivava alla scandalosa conclusione che erano stati gli egiziani a inventare gli ebrei. La ricostruzione è naturalmente di tipo psicanalitico, perché “a nessuno le teorie di Freud si applicano meglio che a Freud stesso” e “prima di essere scienza, la psicanalisi è autobiografia”. Non stupisce che la vicenda di questo “spettro non redento” percorsa a ritroso da Calasso sia legata a un parricidio primordiale e alla qualifica del popolo ebraico come quello che ha “rimosso meno bene” il legame con il suo fondatore. Freud indagava sulle ragioni dell’odio perenne per gli ebrei, e non per coincidenza ha finito per imbattersi in uno psicodramma atavico intorno all’incompiuta uccisione del padre. Non mancano, in queste escursioni, i riferimenti all’India vedica e ad altri filoni tradizionali della riflessione poliedrica e dotta di Calasso. Sulla via dell’Egitto fa capolino anche Kafka, passato in esame in un precedente capitolo della colossale opera in corso.

 

Grazia, colpa, diaspora, separazione, promessa, sacrificio, idolatria, eros, sterminio, attesa vengono sorprese nel loro accadere

Ma per la sua gran parte Il libro di tutti i libri è composto di storie. L’editore avverte che “il succedersi dei nomi e dei fatti è turbinoso, spesso sconvolgente”, formula nella quale si può vedere una rassicurazione: perdersi nelle pieghe delle generazioni è normale, forse anche necessario. Ci vuole qualche dose di oblio per andare avanti. Questo sconvolgimento permette alla spedizione nel ventre del testo biblico di procedere per balzi, salite vertiginose, cadute improvvise, senza mai perdere un filo narrativo che rimane saldo nelle mani del narratore divino. Il risultato è una sorta di podcast erudito sulla Bibbia adattato alla forma libraria, per fare a questo erede spirituale di Aldo Manuzio il peggior complimento possibile. Calasso compone gli episodi con la solita dotta eleganza e abbondante ricorso alla paratassi, anche questo un tratto calassiano di cui però in questo libro quasi accidentalmente rivela il senso più profondo: “Il segreto della paratassi è che permette di non spiegare”. L’autore non si riferisce alla propria opera, ma si può prendere a prestito il criterio da questi usato per Freud e concludere che lo stile gli permette di non spiegare, costringendolo a un’operazione più ardua, quella di mostrare. Calasso non manca di far vedere ciò che non può essere sfuggito a qualunque lettore non rituale della Bibbia, cioè a chiunque apra il teso e prenda a leggere: abbondano violenze, tradimenti, inganni, omicidi, stupri, bestialità, mutilazioni, torture, intrighi, doppiezze, perversioni, meschinità. Sullo sfondo è un continuo guerreggiare. Un esempio per tutti è quello di David, re valoroso e impulsivo che vede l’attraente Betsabea e non si fa scrupoli a prenderla, anche se sa che è la moglie di Uria, un ufficiale del suo esercito acquartierato a ridosso del fronte. Quando lei fa sapere al re che è incinta, questo richiama Uria dal fronte perché si unisca il prima possibile con la moglie, in modo che non si accorga che il figlio non è suo. Ma Uria esita, traccheggia, per senso del dovere si trattiene con le truppe, e allora David, ormai fuori tempo per realizzare il suo stratagemma, manda una lettera sigillata ai comandanti, dando disposizione che Uria venga messo nelle prime file all’assalto successivo, così da essere certamente ucciso. Uria muore, e dopo il periodo di lutto Betsabea viene accolta nella casa di David. Ma la cosa non piace affatto a Iahvè. Ai momenti cruenti e segnati dalle ingiustizie si alternano i passaggi sublimi e poetici che punteggiano la scrittura. Il Cantico dei Cantici è il pinnacolo di un genere che non ha paragoni, a detta di Calasso, nelle letterature occidentali: “E’ carico di tensione erotica, anzi è fatto soltanto di quella tensione. Che è costante, senza distrazioni o deviazioni, dalla prima all’ultima parola”.

 

L’elezione è intesa come un gesto assoluto di preferenziale gratuità accordata da Dio a certi uomini in cambio di nulla

Dentro a questo susseguirsi di immagini può capitare di sentirsi un po’ come lo storico dell’antichità Michael Rostovzteff quando osserva gli affreschi della sinagoga di Dura Europos, da lui scoperta, sulle rive dell’Eufrate: “Non è possibile riconoscere un’idea dominante, di carattere simbolico, dietro la distribuzione dei dipinti. Per lo meno io non ci sono riuscito”, scrive in una circostanza riferita ne Il libro di tutti i libri. Gli affreschi biblici di Calasso sono meravigliosi, ma qual è l’idea dominante dietro la loro distribuzione? Troppo rischioso pretendere di poggiarsi su una risposta definitiva, ma un’idea che ricorre, innervando tutti i libri contenuti in questo libro, è quella dell’elezione. Elezione come gesto assoluto di preferenziale gratuità accordata da Dio a certi uomini in cambio di nulla, accadimento che si manifesta non a dispetto dei demeriti di chi viene eletto ma spesso anche in ragione di questi. Nel vocabolario contemporaneo elezione è ormai esclusivamente associato all’espressione del voto democratico, quindi è vincolata all’idea di merito: l’eletto è colui che ha saputo conquistare con le sue qualità la fiducia degli elettori, dunque ha conquistato la posizione che va a ricoprire. A questo si oppone il nominato, elevato soltanto in virtù del suo nome e perciò simbolo dell’abiezione morale. L’elezione biblica è più simile a quest’ultima figura, e Calasso lo documenta abbondantemente, aggiungendo prove su prove lungo il percorso: “Gli eletti non sono mai semplicemente coloro che accumulano meriti. Se così fosse, il mondo sarebbe una interminabile e tediosa lezione di morale. Con la sua ossessiva concentrazione su ciò che implica essere eletti, la Bibbia sprigiona una altissima tensione romanzesca. Eletto è chi fa procedere le storie – e la storia. Ma questo non garantisce che gli eletti facciano sempre il bene e neppure che siano alleati fra loro. Saul e David erano entrambi eletti, ma Saul tentò a lungo, e in vari modi, di uccidere David. E al tempo stesso ne era irresistibilmente attratto”. Far procedere le storie, la storia, può essere opprimente e terrorizzante, come sa il Saul narrato da Calasso: “Saul si nascose fra i bagagli, in questo simile ad Harpo Marx, perché era stato colpito dal terrore dell’elezione. Un terrore che la sua gente più di ogni altra avrebbe provato nella storia. Era il terrore del caso, della sorte che avrebbe potuto eleggerlo un attimo dopo. Ma Saul sapeva che l’elezione era già avvenuta, nel momento in cui Samuele lo aveva unto. Allora però erano soli. Nessuno li aveva visti. Nessuno sapeva. Il caso e il destino stavano per sovrapporsi in lui. Opprimente saldatura”. Abramo e Giobbe sono uniti nella logica sghemba dell’elezione, della inspiegabile chiamata divina, sorgente del grande mistero che segna tutta la vicenda del popolo Israele: “Abramo trovò la sua controparte in una figura tarda, isolata, scoscesa della Bibbia: Giobbe. Se Abramo era la grazia non fondata sul merito, Giobbe era la disgrazia non fondata sulla colpa”.

 

“Eletto è chi fa procedere le storie – e la storia. Ma questo non garantisce che gli eletti facciano sempre il bene e neppure che siano alleati fra loro”

Che l’elezione sia disancorata dal merito è un gigantesco scandalo su cui non può che inciampare l’intera modernità. Quando Salomone chiede a Iahvè l’inaudito dono di un “cuore che capisce”, il divino compie un ulteriore passo verso ciò che per la logica mondana è pura stoltezza: eccede nell’elargire: “Non si era mai sentito un desiderio del genere. Tutti desideravano una vita lunga, la ricchezza, la vendetta. Non c’era nulla di più monotono dei desideri degli uomini. Nessuno aveva mai osato desiderare qualcosa di così strano come capire – e anche qualcosa di così oscuro, indeterminato e impersonale come ‘un cuore che capisce’ i Settanta tradussero con kardían akoúein, la capacità di ‘ascoltare il cuore’. Né David, né Saul avrebbero mai chiesto niente di simile. Iahvè allora fece ricorso al supremo gesto divino: dare in sovrappiù. E rispose così a Salomone: ‘Anche ciò che non hai chiesto, te lo do: sia la ricchezza, sia la gloria’. Senza quel sovrappiù, da una parte e dall’altra, dalla terra e dal cielo, asimmetrico e indomabile, non era concesso stabilire rapporti costanti ed efficaci con l’invisibile”. Il libro di tutti i libri è una visione caleidoscopica in cui brillano frammenti mistici, erudizione, senso storico e meticolosa cura filologica, ma è in fondo un libro intorno al mistero imperscrutabile dell’elezione, dove Dio concede e dà in sovrappiù.

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