La fraternité della Rivoluzione francese è stata dimenticata, e paradossalmente è stata poi interpretata come culto della differenza, fino alla celebrazione del narcisismo, dice Archer (foto Reuters)

il pensiero dominante

Serve un po' d'amore per cucire la società sfilacciata

Margaret Archer

L’individualismo ci ha lasciati soli, ma non è tempo per il funerale della solidarietà. Appunti di un’intellettuale per recuperare la fraternité tradita

Fedele alla vocazione di scavare nel provvisorio alla ricerca del definitivo, il “Pensiero dominante” pubblica qui una parte dell’intervento che la sociologa inglese Margaret Archer pronuncerà venerdì al convengo della fondazione De Gasperi dal titolo: “Pensare cristianamente la nostra società”. Esponente della tradizione del “realismo critico” e autorità di fama mondiale nel dibattito sociologico, Archer ha insegnato per la maggior parte della sua carriera alla University of Warwick, in Inghilterra, ed è stata anche docente all’Ecole Polytechnique Fédérale di Losanna. Nel 2014 Papa Francesco l’ha nominata presidente della Pontificia accademia delle scienze sociali, ruolo che ha ricoperto fino al marzo scorso.

 


 

Quando Giovanni Paolo II parlava di “amore sociale”, Benedetto XVI scriveva di “civiltà dell’amore” e Francesco richiedeva una “nuova solidarietà universale”, tutti ponevano una sfida alla teoria sociale e alla chiesa: spiegare come andare dalla dimensione micro della persona a quella macro della fraternità sociale. La reazione più frequente, tanto delle organizzazioni secolari quanto delle autorità religiose, è stata quella di esortare un ritorno alle virtù tradizionali. L’ironia è che così facendo invocavano una soluzione individualista al problema dell’individualismo. Praticare la virtù è desiderabile, ma i suoi benefici non devono essere confusi con la volgare convinzione dell’individualismo metodologico secondo cui “le persone buone costituiscono una buona società”, posizione che implica che l’ordine sociale sia una questione di semplice aggregazione. La fraternité come pietra angolare dell’integrazione sociale ha avuto storicamente meno seguito rispetto alla liberté e alla egalité in termini economici, politici e sociali. Di fatto, la fraternitéè scomparsa in fretta dall’agenda dei rivoluzionari francesi.

Ironicamente, benché all’inizio non tutti i padri fondatori della sociologia la vedessero allo stesso modo, questa è culminata nella celebrazione della “differenza”, fino al punto di accogliere il narcisismo di differenze sociali sempre più piccole e divisive. Anche l’umanesimo, con la sua patina di universalismo, era concentrato sui “diritti” legali, non sulla solidarietà. Per aggiungere un elemento di ironia, soltanto negli ultimi tre pontificati della chiesa cattolica c’è stata una robusta proposta di riconoscere la promessa della fraternité come fondante per una visione della società in cui tutti possono compiersi: con “l’amore sociale”, “la civiltà dell’amore” e una “nuova e universale solidarietà”.

Qualcuno ribatterà, naturalmente, che la costante sottolineatura di un disinteressato “buon vicinato” celi proprio questo, dal momento che è fondamentale per i valori del Vangelo. Avrebbe in parte ragione, e tuttavia questa sottolineatura era essenzialmente interpersonale e non imponeva nessuna prescrizione sociale, come ad esempio l’abolizione della schiavitù. In pratica, nel corso dei secoli non è stato riconosciuto che l’opportunità per creare beni relazionali – benefici per la società intera – era stata persa. Non è del resto sorprendente, considerato quanto la fraternité è svanita in fretta dallo slogan rivoluzionario, mentre la libertà e l’uguaglianza hanno occupato la successiva filosofia economica, politica e sociale e i loro modelli di homo economicus e homo sociologicus, entrambi ugualmente individualisti. Ma il Nuovo Testamento ci offre davvero una concezione diversa, anche quando tratta del “buon vicinato”? Il buon samaritano che ritorna a pagare l’ostello stabilisce un legame sociale duraturo con la vittima? Questo non lo sappiamo, ma quello che si dice chiaramente negli Atti è che le prime comunità cristiane hanno faticato e sono cadute nel tentativo di mettere in comune i loro beni e, perciò, di realizzare beni relazionali. Di certo, i loro successori hanno fondato ordini religiosi e una varietà di pratiche istituzionalizzate (nella medicina, nell’educazione e nella cura degli ultimi) che sono state molto influenti nella nascita delle istituzioni sociali secolarizzate, ma agivano in una strutturale durevole e gerarchica di “comando e controllo” invece di innalzare la comunità come un bene in sé.

Molte concezioni della persona impiegate comunemente nella teoria sociale sono inadeguate. Non passano nemmeno un primo vaglio, perché i loro “modelli della persona” sono incompatibili con la persona come capace di “amore sociale”, anche nella dimensione interpersonale micro . Perciò, queste concezioni non possono essere usate come “mattoni” semplicemente presentando soggetti le cui interazioni possano generare le macro-caratteristiche di una “civiltà dell’amore” nell’ordine sociale globalizzato di oggi, quell’ordine che è in uno stato di confusione.

L’uomo asociale e ultrasociale

Giovanni Paolo II aveva capito che il problema teologico e sociologico della concettualizzazione della persona era come inquadrare un soggetto che è in parte modellato dalla sua socialità, ma che ha anche in sé la capacità di trasformare la società in cui vive. Per citare le sue parole: “Gli uomini sono sia figli che genitori della cultura nella quale sono immersi”. Il problema è proprio che la teoria sociale ha oscillato fra questi due estremi. Da una parte, il pensiero illuminista ha promosso una visione “sotto-socializzata” dell’uomo, nella quale la costituzione umana non doveva nulla alla società e perciò questi era un “outsider” autosufficiente che si limitava a operare in un ambiente sociale. Dall’altra, esiste una più tarda ma pervasiva visione “ultra-socializzata” dell’uomo, la cui principale caratteristica, oltre alla biologia, è modellata dal suo contesto sociale. Questi è diventato così un “insider” talmente dipendente da non avere più la capacità di trasformare il suo ambiente sociale. Né i “legami sociali”, come relazione, né “l’intessere legami”, come processo, si sono imposti. Sono contestati concettualmente oppure semplicemente ambigui nel loro uso.

Nelle scienze sociali i legami e il “creare legami” a un tempo sostengono e si intersecano con altri concetti chiave come integrazione sociale, solidarietà, armonia, identità e stabilità, senza tuttavia coincidere con nessuno di questi. In modo analogo, la loro assenza si fa coincidere spesso con forme sociali caratterizzate da stati antitetici che comprendono disintegrazione, frammentazione o relazioni profondamente conflittuali. Alcuni studiosi hanno tentato di condensare queste opposizioni in una singola differenza binaria fra, per esempio, “inclusione” contro “esclusione”; altri hanno opposto “collettivismo” e “individualismo”, mentre altri ancora hanno accentuato un passaggio storico fra il “noi” e l’ “io”.

Il mio obiettivo non è sostenere una di queste divisioni concettuali né di suggerire che sono sovrapponibili fra loro. Un approccio di questo tipo ci porterebbe in dispute sottili che pertengono al campo della storia delle idee. Voglio prendere invece il più generale dei termini citati, la “integrazione sociale”, che deve riconoscere i suoi diversi referenti a livello micro, meso e macro, grazie a una ontologia sociale stratificata che richiede una esplorazione delle interconnessioni, delle proprietà emergenti e dei poteri di causalità generati da questi. Lo scopo è notare la progressiva diminuzione dell’integrazione sociale per spiegare il suo contributo alla confusione in cui ci troviamo oggi.

Lotta di classe e disincanto

L’“integrazione sociale” è stata una preoccupazione fondamentale per la sociologia dai suoi albori, e i padri fondatori della disciplina non erano d’accordo sul suo ruolo e sulla possibilità di recuperarla. La rivoluzione industriale inglese e la rivoluzione politica in Francia hanno mostrato che è più facile perdere la solidarietà che crearla. Questo è il tema del mio intervento. Karl Mark aveva previsto che le cose sarebbero andate peggio (conflitto di classe) prima di andare meglio (nel suo schema di una utopia comunista), ma non ha mai negato che il recupero della re-integrazione sociale doveva essere rimandato alla formazione di una buona società, una società che riconosce e realizza un equilibrio fra bisogni umani, abilità e contributi. Per Max Weber, il “disincanto” progressista del mondo implicava un indebolimento dell’integrazione sociale precedentemente sostenuta da un sistema di valori religiosi condiviso, per i quali la sostituzione con la regolamentazione burocratica ha rappresentato una costrizione invece che un legame. E’ stato Emile Durkheim, a volte chiamato “l’uomo preoccupato della Terza repubblica”, che ha mostrato le preoccupazioni più urgenti per l’immediata ricostituzione di una solidarietà sociale se le “patologie della divisione del lavoro” non avessero distrutto la trama sociale del suo tempo. La dissoluzione dei legami sociali va perciò vista come parte integrante di tutte e tre le visioni.

Ci sono due punti di importanza fondamentale nel pensiero di Durkheim sull’integrazione sociale. Primo, era convinto che la solidarietà sociale fosse una specie di cemento necessario per qualunque società per stare insieme, non importa se fosse basata sulla similitudine dei suoi membri nelle sue forme primordiali o sulle differenze che nascevano dalla reciproca dipendenza nel contesto della nuova divisione del lavoro. Secondo, nel Diciannovesimo secolo ricreare le condizioni per una robusta solidarietà imponeva politiche d’intervento sociale, perché in una tale restaurazione non c’era nulla di automatico. Nondimeno, per Talcott Parsons il ruolo problematico dell’integrazione sociale ha smesso di essere un problema di “funzionalismo normativo”. Al contrario, l’operare di un “sistema centrale di valori” doveva unificare fini, mezzi e norme delle diverse parti del sistema sociale. Così, la cultura era diventata un “ordinato sistema di simboli come oggetti dell’orientamento dell’azione, componenti interiorizzate delle personalità degli attori individuali e dei pattern istituzionalizzati dei sistemi sociali”. Perciò i tre principali sub-sistemi sociali di Parsons erano sempre considerati compatibili fra loro. L’ordine normativo era postulato come sostitutivo invece che regolativo dell’ordine sociale, cosa che ha suscitato la critica di Alvin Gouldner, secondo cui Parsons “non sembra mai chiedersi a quali siano le condizioni i valori morali possano essere condivisi; non nota mai che le differenze di potere sono portatrici di differenze sui valori morali e mettono perciò a repentaglio la stabilità delle relazioni nelle quali esistono”. A seguito della critica, Parsons è stato castigato perché considerava la cultura come condivisa (mentre è in larga parte imposta), come vincolante (mentre si possono sempre fornire interpretazioni di convenienza) e come fonte di consenso (mentre i diversi accenti su particolari componenti possono generare i conflitti più profondi), ma fino ai suoi giorni di “fuorilegge marxista” non ha mai messo in discussione l’esistenza di un sistema centrale di valori.

Due versioni della solidarietà

Ci sono due narrazioni principali sulle fonti della solidarietà abbracciate dalle scienze sociali della modernità. Possono essere sintetizzate sommariamente nelle coppie individualismo/collettivismo, idealismo/materialismo, differenziazione funzionale/egemonia di classe, complementarità/contraddizione, coordinazione/competizione, vita del mondo/sistema sociale. Entrambe queste narrazioni hanno traiettorie molto lunghe e sono passate attraverso successive riforme per equipaggiarle in modo che potessero affrontare i cambiamenti sociali avvenuti nel secolo che va dal 1870 al 1970.

Il collettivismo marxista e neo-marxista, nelle sue molte versioni, collocava il problema della mal-integrazione sociale e la sua soluzione all’interno delle divisioni di classe del capitalismo moderno, con la sua essenziale competitività che operava in termini di un gioco a somma zero e produceva vincitori e vinti, l’uso dell’ideologia per legittimare le differenze materiali e il bisogno di una mobilitazione di classe per generare cambiamenti. Con lo svanire dell’agenda rivoluzionaria, ciò che rimane significativo per il nostro problema è che la solidarietà non è mai stata concepita come sociale. Al più, il pensiero neo-marxista ha concepito due gruppi “solidali”, abbastanza organizzati e istituzionalizzati da contemperare gli impliciti interessi divergenti e veicolare le idee in forme strutturate di negoziato fra “sinistra” e “destra”, promuovendo l’assenza di un aperto conflitto che non era affatto una forma di solidarietà.

Il tema della narrazione opposta è quello dell’“individualismo istituzionalizzato”, formula introdotta da Parsons e da allora sempre riformulata. In sostanza, accettava l’inevitabilità e spesso la desiderabilità della progressiva individuazione dei soggetti sociali ma li metteva in un contesto normativo tale che le strutture istituzionalizzate assicurassero la complementarità delle loro aspettative. Questa si è dimostrata una linea di riflessione resiliente, passata dal funzionalismo, attraverso la teoria dei Sistemi e accentuata da Niklas Luhmann, e approdata al mainstream del pensiero economico (l’approccio economico di Gary Becker), dove un livello accettabile di integrazione sociale era la somma della razionalità strumentale della razionalità degli individui.

Con il lento retrocedere della lotta di classe, Ulrick Beck ha messo una pietra tombale sul dibattito dichiarando che le classi sociali erano diventate “categorie zombie”, cosa che ha permesso di dedicarsi al governo dell’individualismo cosmopolita. Non sorprende, perciò, che Beck abbia concluso che la sua analisi annullasse le premesse della “analisi socio-strutturale”, dal momento che “con l’emerge di una self-culture, l’assenza di strutture sociali si pone come la caratteristica principale della struttura sociale”. In altre parole, “l’individualizzazione sta diventando la struttura sociale della seconda modernità”. Queste versioni estreme mantengono più di ciò che promettono, per via del loro poggiarsi su un ipotetico “ritiro” delle Strutture e della Cultura come fattori regolatori che mantengono un qualche grado di ordine. Contemporaneamente, l’ascesa del potente tropo della “società liquida” di Zygmunt Bauman è diventato popolare. L’integrazione sociale è stata interpretata come un “titano fuori controllo” e l’individuo come disponibile alla sua stessa reinvenzione seriale. In sintesi, tutti i tre elementi sono in tensione con l’ontologia critica realista sulla quale si basa il mio approccio morfogenetico. La mia convinzione sociologica di fondo è che una spiegazione adeguata dell’ordine sociale avviene sempre in un Sac. L’acronimo sta per struttura, agente e cultura. Nonostante siano legati fra loro, ognuno di questi elementi ha le sue proprietà e poteri causali che contribuiscono allo sviluppo del sistema sociale in tutte le dimensioni, micro, meso e macro.

  


 

Pensare cristianamente la nostra società” è un incontro promosso dalla Fondazione De Gasperi in collaborazione con Villanova University, in programma a Roma venerdì 27 settembre alle ore 10, presso la Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani.

Interverranno alcuni fra i più importanti pensatori cristiani del nostro tempo. Oltre a Margaret Archer, ci saranno, fra gli altri, Lorenzo Ornaghi, Hanna Barbara Gerl-Falkovitz, Hans Joas, Giovanni Maddalena e Michael P. Moreland.

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