Wilhelm Amberg, "Leggendo il Werther di Goethe" (1870)

La poesia e la prosa. Chi contamina cosa?

Daniele Mencarelli

La smania di classificare tutto, dentro generi e collane, è dei filibustieri della letteratura

Uno tra i dualismi più dibattuti e controversi nella storia della letteratura, un esercito di partiti e partitini, di puristi schierati su entrambi i fronti. La poesia da una parte, la prosa dall’altra, in singolar tenzone. Chi contamina cosa? Quale tra le due prevale sull’altra? E in termini di pregevolezza, quale viene prima? Al centro un animale mitologico: il poeta-romanziere, che sappia darci dentro in entrambe le discipline, in egual misura, o almeno con poco disavanzo.

 

Partiamo dai fatti salienti.

Il poeta si fida della parola, del bianco della pagina, è convinto che la sillaba sia l’ombelico del mondo, unità melodica imprescindibile, per lui il suo sguardo è tutto, è dalla visione che si dipana il verso, poi il ritmo, infine la poesia. Il suo è un corpo a corpo con la parola, ne intuisce la sacralità recondita.

Il romanziere, invece, abita nelle grandi architetture della narrazione, compie parabole su psicologie, imbriglia personaggi in una trama capace di negare anche se stessa. Obbedisce agli atti, su di essi costruisce, impila, accumula, svela.

Il poeta può diventare un grande romanziere, il romanziere, al contrario, non potrà mai avere, se madre natura non gliel’ha fornito, l’orecchio del poeta, quella particolare capacità di saldare melodia e significato. Questo è il pensiero dominante, a conforto una gran miriade di prove, di autori che hanno guadato passando dal verso all’altra sponda.

Spesso, il poeta-romanziere cade nel poetico, che, è cosa nota, ha ucciso la poesia, un’incapacità intellettiva non gli permette di staccarsi dalla prima affermazione che fa di sé tutte le mattine: “Io sono un poeta”, da ciò una serie di sciagure, perlopiù melensi.

Quando a prevalere è il romanziere, invece, avremo l’eternità fatta periodo, la descrizione della descrizione del più minuto tra i pulviscoli del nulla, e giù pagine su pagine, strati su strati per giungere ai piedi dell’ineffabile, e spesso oltre.

 

Ma se questi sono i fatti salienti, altri, ben altri sono i traguardi, le aspirazioni che portano al cambio di casacca, e di carriera. Il poeta che si appresta a non andare a capo, spera, prega, affinché nulla della tensione che sa impartire alla parola si perda nel salto dal verso al non-verso, non un grammo deve disperdersi della sua singolare, tellurica, capacità di trasmissione, dalla vita alla parola, perché questo è il suo talento, un poco sacro, tanto animale. Diciamolo, nella categoria dei poeti che si affidano alla prosa si annidano anche tanti ragionieri, mai diplomati, schiavi del “mi faccio il romanzo, che dopo tanti libri di poesia, e solitudine, magari riesco pure a vendere qualcosa, emettere una fattura che sia una”. Chissà se William Shakespeare, nei suoi passaggi da poesia, e i sonetti restano scolpiti nella storia, a prosa sia stato mosso, pure lui, da questa venale necessità… quel che conta, alla resa finale, non è ciò che lo mosse, ma la montagna inestimabile di opere lasciate al mondo. Perché la letteratura è un effetto, e si può essere in santissima buonafede ed essere dei caproni, oppure, al contrario, banditi interessati solo alla pecunia, ma con penna fatata.

 

All’orizzonte ecco stagliarsi una possibile chiave di lettura, forse banale, quindi coraggiosa: non contano i generi. Contano i libri. Solo i libri. Non le motivazioni, non i ragionamenti. Che sia in versi o in prosa, datemi un libro che mi apra come io apro lui, voglio solo questo, questo amoroso stravolgimento, l’istantanea capacità di vedere di più e meglio. Il resto sono postille, valgono qui e ora, mentre i libri, quelli veri, ora e sempre.

 

Perché questa smania di classificare tutto, dentro generi e collane, è dei filibustieri della letteratura, creature del novecento, quelli che tengono in una mano il libro e nell’altra il bilancino del mercato, sacrosanto sia chiaro, ma non la stella che dovrebbe brillare negli occhi di chi scrive, che sia l’anguilla elettrica, scintillante del verso o la pura stratificazione del periodo. Perché prima del Novecento questa divisione di mestieri, quasi non ci fosse al centro sempre la medesima materia prima, la parola, non era così importante agli occhi dei lettori, che approcciavano al libro come si potrebbe approcciare all’individuo, partendo dalla sua singolarissima sacralità. Quando il libro era il mattone con cui edificare il proprio e altrui immaginario, e il genere una declinazione del proprio gusto personale, niente di più, niente di meno.

Alla fine della fiera, per non rischiare l’ineffabile, lo sproloquio sbrodolato, si ritorna con la mente e il cuore alle parole dei maestri, che hanno saputo dire tutto nella perfezione del correlativo, l’immagine assoluta.

Attilio Bertolucci diceva che per lui prosa e poesia sono come due amanti che si lavano la schiena a vicenda.

Io porto spugna e bagnoschiuma.

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