I colibrì in una celebre tavola del 1904 dello zoologo, filosofo e artista tedesco Ernst Haeckel (© biolib.de)

Il grande volo del colibrì

Annalena Benini

Il dolore folle, la speranza, la telefonata nel cuore della notte, l’attesa ostinata della felicità. Nascondere nascondere nascondere. Arriva il nuovo romanzo di Sandro Veronesi e ci salva la vita

E poi arriva un nuovo romanzo e ti salva la vita. L’afferra fin dalla prima pagina, la scuote forte, la tiene con sé, la fa precipitare, le offre un po’ di dolcezza e poi di nuovo dolore, una speranza, un figlio, l’inferno, e sempre, sempre, l’attesa di un bacio, di un vero bacio, fino alla fine di tutto.

 

Arriva un nuovo romanzo e riesce nel miracolo di contenere l’umanità, anzi di traboccare di umanità. E’ tutto il contrario del desiderio di Ivan Karamazov: “L’anima dell’uomo è troppo ampia, io la ridurrei un poco”. In questo nuovo romanzo l’anima si allarga, come i cerchi nell’acqua quando getti un sasso, e ogni cerchio contiene un sentimento. Non un’emozione, un sentimento. Qualcosa che è passato attraverso il cervello e attraverso la scrittura, qualcosa che ha l’ambizione di riguardare tutti. Di far tremare tutti. E perfino di salvare tutti.

 

Ho strappato le pagine di una telefonata che viene solo per pochi genitori disgraziati, predestinati, segnati. Quella più temuta di tutte

Questo nuovo romanzo è Il colibrì, di Sandro Veronesi. Lo pubblica La nave di Teseo, che qualche settimana prima dell’uscita ha mandato alle persone interessate vere bozze di carta, rilegate come le dispense all’università, larghe, con i margini bianchi su cui si poteva scrivere, sottolineare, anche piangere senza paura di rovinare le pagine di un vero libro. Alcune pagine io le ho strappate, perché le voglio tenere tra le cose importanti.

 

Ho strappato le pagine di una telefonata nel cuore della notte: dell’attesa e del terrore della telefonata che viene solo per pochi genitori disgraziati, predestinati, segnati, la telefonata più temuta di tutte (“e tuttavia Ti prego, Padre, qui, ora, su questa terra, dal più profondo del mio cuore, in ginocchio per terra, inchinato a terra, sdraiato in terra, Ti supplico che questi non siano gli squilli di quella telefonata, driiin, proprio di quella, Ti prego di prenderTi me, ora, subito, ma è chiaro che non è me che hai deciso di prendere, è chiaro che io dovrò rimanere in questa valle a soffrire, e allora Ti prego di prenderTi mia madre, ecco, il che mi spezzerebbe il cuore ma prendi lei, o mio padre, o mia sorella, o mio fratello, e Ti prego di prenderTi tutto quello che possiedo e anche la mia salute, di fare di me un orfano, driiin, un mendicante, un ammalato, ma non, Padre Onnipotente, Ti prego, Ti supplico, Ti imploro, non fare di me un…”).

 

E ho strappato altre pagine, sull’amore, la morte e anche sul destino dei rapporti tra le persone, che viene deciso all’inizio. Dovrebbe essere noto, scrive Sandro Veronesi, e invece non lo è, che per sapere in anticipo come andranno a finire le cose basta guardare come sono cominciate. E’ già tutto contenuto nell’inizio.

 

Questo deve fare un libro, lasciarti a bocca e mente aperta a dire: e se fosse proprio così? Lanciarti indietro nel tempo, con paura, a guardare tutti i rapporti, tutti gli incontri, per vedere se è vero, che c’è un momento di illuminazione che rivela tutto e poi scompare. Abbiamo saputo tutto, all’inizio, e poi non l’abbiamo saputo più.

 

Come in Shakespeare, chi legge sente una specie di felicità, di esaltazione. Sente davvero una possibilità di salvezza. La catarsi

In questo romanzo si sa già tutto, come fosse sempre un inizio. Anche se è una storia famigliare lunga, che contiene altre storie, in cui succedono tante, troppe cose, ma tante che l’anima dell’uomo le può contenere tutte, e anche continuare a vivere con il peso di queste cose dentro, questa lunga storia non viene raccontata dritta. Sandro Veronesi non affonda il coltello all’improvviso nel burro del nostro cuore di lettori. Ma salta avanti e poi di nuovo indietro, infila la lama quando pensa che siamo distratti, perché è lui il narratore ed è omnisciente, ma anche pietoso, vuole che quel dolore noi possiamo sopportarlo, vuole essere sicuro che ci andiamo fino in fondo, che ci immergiamo lì dentro con il dolore già stretto in mano, che riusciamo a guardarlo perché lo conosciamo, perché lui ce l’ha consegnato quando eravamo distratti, ma pronti. E poi forse vuole davvero un’altra cosa, profonda, magari inconsapevole ma coerente con questo traboccare di turbolenza e desiderio e pietà che tiene insieme tutto il libro: vuole salvarci. Conosce la tragedia dell’uomo impreparato alla tragedia: cioè la tragedia di tutti, direbbe Philip Roth, e vuole lenire il dolore di questa tragedia. Ma è di più: vuole darle una felicità.

 

Il colibrì inizia con Marco Carrera, professione oftalmologo (come il Dottor Zivago) che riceve la visita dello psicanalista di sua moglie (lui detesta la psicanalisi, anzi ne è ossessionato): lo psicanalista gli rivela che il suo matrimonio non esiste più, e che nascerà un figlio ma non sarà suo, e che una tempesta sta per abbattersi su di lui. Una tempesta dentro una vita già ricca di tempeste, passate e future, e noi lo scopriremo presto. Una tempesta sopra un piccolo uomo in mare, su una piccola nave, che cerca disperatamente di tenere il timone dritto, e che per tenere il timone dritto e la nave ferma perderà molte possibilità, molti destini e molte persone.

 

In questo romanzo si sa già tutto, come fosse sempre un inizio. Anche se è una storia famigliare lunga, che contiene altre storie

La nave si rovescerà lo stesso, ma lui resterà legato lì, a quel timone, con un eroismo che sembra perfino ottuso, eccessivo, con una tensione così limpida verso il centro dell’esistenza, verso le cose giuste, che tutta quella bontà mi è sembrata a volte troppa, che mi sono chiesta dove siano le ombre, dove siano gli abissi dell’umano sentire, dove sia la piccolezza davanti a tutta questa grandezza.

 

Ma gli abissi di Marco Carrera, soprannominato da sua madre il colibrì, appunto, il più rassicurante dei soprannomi, che nasconde il fatto che quel bambino non cresceva abbastanza, era piccolo come un colibrì, stanno tutti in questo verbo: nascondere. Nascondere la verità, nascondere il grande amore per Luisa, nascondere un presentimento, nascondere la paura per sua sorella Irene, nascondere la rabbia, nascondere la paura per sua figlia Adele, nascondersi l’infelicità dei suoi genitori, nascondere la passione per il poker, nascondere nascondere nascondere.

 

Non è solo Marco Carrera: tutti gli altri personaggi nascondono qualcosa, ma loro sono in fuga e lui non lo è. Resta sulla nave che è sempre più una zattera, con le vele strappate, con l’acqua che entra da tutte le parti. Resta in un luogo particolare che riguarda tutto il romanzo, l’idea di fortuna e sfortuna e riguarda un personaggio in particolare chiamato l’Innominabile: nell’occhio del ciclone. Ci resta per eroismo, per bontà, per responsabilità? In parte sì, perché ha una figlia da crescere, e poi un’altra figlia che è addirittura l’uomo del futuro, si chiama Miraijin e Marco Carrera adesso, in questo avanzamento spazio temporale, è invecchiato ed è suo nonno. E’ invecchiato ma è ancora forte ed è rimasto lì, è morto ma è rimasto vivo. Nell’occhio del ciclone a cercare di mettere ordine, con l’inventario degli arredi della casa di Bolgheri, della collezione Urania del padre, con le lettere a suo fratello che mai gli risponde, con le lettere a Luisa (“Ho fatto il conto, Luisa, e noi due ci siamo lasciati una volta in più di quante volte ci siamo messi insieme”), con questa incrollabile fiducia nel rimanere fermi, che lui aveva già nel soprannome, colibrì (settanta battiti d’ali al secondo per rimanere dov’è), e nel guardare indietro, e nel pretendere, ancora e sempre, una felicità.

 

Non è solo Marco Carrera: tutti gli altri personaggi nascondono qualcosa, ma loro sono in fuga e lui non lo è

Ho pensato, incontrando questo personaggio, allo Svedese di Philip Roth, a Pastorale americana. Qui c’è Bolgheri, e là c’è il sogno americano che va in frantumi a causa della peste portata dentro casa e ovunque dalla figlia arrabbiata, ma soprattutto c’è un uomo che non è stato programmato per avere sfortuna e invece la riceve tutta. Lo Svedese piace a tutti, come Marco Carrera a cui da sempre viene perdonato tutto per la sua intelligenza, per il suo bel carattere, per la sua generosità, per la sua bravura a tennis. Per la sua abnegazione. Per l’amore che gli porta sua figlia. Lo Svedese crede di vivere nel migliore dei mondi possibili, nella propria agognata pastorale americana, e anche Marco Carrera sente un vago senso di arroganza e superiorità, quello “di certe famiglie borghesi degli anni ’60 e ’70”, con un’idea di bellezza e di librerie componibili e di infanzia felice nonostante tutto. Nascondere nascondere nascondere. Quella felicità sale sulle spalle e diventa una prigione, perché deve resistere al furore del destino, deve compiersi lo stesso, deve vincere su tutto, deve trattenere anche gli oggetti.

 

E allora chi è questa persona, l’uomo ideale o la sua maschera? Lo Svedese, più tronfio, più placido, più impreparato ma ugualmente fiducioso, viene sbalzato fuori dal suo sogno (dal nostro sogno) e anzi gettato nell’incubo dalla rabbia cieca di una figlia, Marco Carrera tiene ancora stretto il sogno grazie alla figlia, e poi alla figlia di sua figlia, una creatura quasi divina. Un sogno che abbandona la concretezza della vita, dell’amore, del sesso, della felicità domestica, delle vincite a poker, e diventa il sogno rarefatto della salvezza del mondo. Ma un sogno che non è davvero il suo: lui lo accetta, lo subisce, lo aggiusta, come ha fatto sempre. Si adatta. Anche brutalmente. Alle scelte degli altri, alla morte degli altri, alla lontananza di Luisa, al silenzio di suo fratello, a tutte le cose storte di questo mondo. Lui però sognava un’altra felicità: “Luisa Luisa Luisa Luisa Luisa ti prego sei appena nata non morire anche tu e anche se sono scappato aspettami perdonami abbracciami baciami non è finita la lettera è solo finito il foglio, Marco”.

 

E’ così pieno di dolore questo romanzo, pieno di disastri come in una tragedia di Shakespeare. Pieno di dilemmi: ancora Shakespeare. Eppure, come in Shakespeare, chi legge sente una specie di felicità, di esaltazione. Sente davvero una possibilità di salvezza. Sente che esplorare l’abisso si può. Che se deve arrivare un treno in faccia, noi saremo lì. A pregare, a implorare, a sperare, a maledire, a scuotere tutti gli alberi, ma non ci muoveremo da lì. E’ quella cosa antichissima ed estetica che tutti abbiamo studiato senza crederci tanto, e chiamato catarsi? E poi di tanto in tanto, piangendo davanti a qualcosa che non ci appartiene, abbiamo ripetuto: catarsi. Ma anche in psicanalisi, detestata da Marco Carrera anche se il suo angelo custode è uno psicanalista, si dice spesso: catarsi. 

 

La catarsi allora arriva dalla scrittura, dall’illuminazione di questo romanzo, dalla velocità con cui afferra le nostre vite e le trascina accanto a Marco Carrera, il colibrì. Un oftalmologo, un piccolo uomo disperato, perseguitato dai ricordi e dall’immobilità, un uomo che va nelle bische notturne a giocare a poker portandosi dietro una bambina piccola, che lascia a dormire su un’amaca, e a cui Sandro Veronesi offre una grandezza. E’ la grandezza dell’esergo di Samuel Beckett. “Non posso continuare. Continuerò”. E’ la grandezza di chi cerca il senso, lo scopo dell’esistenza, lo cerca per fuggire dalla dannazione, e infine lo trova, eppure questo senso stava già all’inizio di tutto: basta guardare come sono cominciate le cose.

 

“Ma un destino è un destino, e se io sono il colibrì, tu sei il leone o la gazzella di quel detto che sinceramente mi è sempre stato sui coglioni, quello dell’alzarsi ogni mattina e mettersi a correre, chiunque tu sia”. 

 

E’ arrivato il Colibrì, traboccante di tutto, sovraccarico di vita e di morte e del movimento pazzo di un uomo solo apparentemente immobile, e ci ha purificato lo sguardo, quindi ci ha salvato la vita.

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  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.