(foto LaPresse)

L'ingiustizia di un virus che espropria le vittime della loro morte personale

Adriano Sofri

L’individualità cancellata, in guerra come con l’epidemia

Io tengo alla mia vita personale, dunque anche alla mia personale morte, per il po’ che posso pensarne. Alessandro Dal Lago ha scritto sul manifesto, commentando la circostanza corrente in cui “l’essere-di-fronte-alla-morte” non è più “confinato alla nostra esistenza individuale, ma condiviso di colpo, grazie alla pandemia, con buona parte dei nostri simili”. Ancora si muore soli, dice, “ma oggi ciò avviene potenzialmente insieme al resto dell’umanità”. Dal Lago evoca una propria esperienza di operato per due tumori, sedato e intubato, e l’inaspettata “comunanza con il personale medico e i miei vicini di letto”. Scrive che oggi “per la prima volta nella storia (a parte la crisi ecologica) l’umanità deve affrontare un rischio comune, e come tale percepito”. E conclude auspicando “una reazione umana e solidale al getto di dadi della sorte e alla desolazione che sta provocando nel mondo”. Non ci avevo pensato abbastanza. Avevo piuttosto visto e sofferto nella pandemia, nella morte che miete all’ingrosso, l’espropriazione penosa dell’affetto, se non del diritto, alla propria morte personale: il mucchio. Non direi che sia la prima volta: grandi epidemie a parte, il tempo delle innumerabili fosse comuni è quello della guerra. In guerra, almeno fino alla Prima Guerra mondiale, quella che chiamammo Grande (nella seconda già l’ingrosso prediligeva le vittime civili e senza età), i giovani andavano a battersi – vi erano mandati – per unirsi sotto una bandiera comune, e a morire di una morte comune, con una rinuncia generosa o rassegnata alla propria individualità e un’abnegazione solidale con la propria generazione: quella solidarietà, spesso accettata senza affatto cedere a miti nazionalisti ed epici, pretendeva il sacrificio di una morte anonima, davvero livellatrice. Vita e morte si facevano uniformi: spaventoso destino, tanto più riservato ai giovani.

 

Feci anch’io, ripetutamente, un’esperienza medica come quella evocata da Dal Lago, e ricordo anch’io la forza di una solidarietà, una fraternità, oltre che coi curanti, con gli sconosciuti di colpo intimi che mi stavano accanto fra la vita e la morte, e cadevano di qua o di là. Ma in capo al lungo e accidentato cammino degli umani da animali sociali a persone, continuo a sentire una triste ingiustizia, e se non ingiustizia una disgrazia, nell’espropriazione della propria morte personale. Nunc et in hora mortis nostrae – quel “nostra” sembra alludere al destino comune, alla sorte che accomuna i mortali; ma chi pregava o prega così, intende la morte propria, la propria peculiare ora. Meritano una gran pena i vecchi che se ne sono andati soli, mascherati, soffocati, sbrigati con un numero piuttosto che con un nome. Alcuni parenti hanno detto di bare riempite di corpi altrui: succede perfino in tempo di pace, nel disordine e nella sciatteria dei grandi cimiteri. Penso a Foscolo, naturalmente. Ai due bellissimi endecasillabi che tengono assieme alla pietà per le ossa innumerate una premurosa illusione per le proprie. Un ricordo “che distingua le mie dall’infinite / ossa che in terra e in mar semina morte”.

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