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La triste morte in una Venezia vuota

Adriano Sofri

Due donne sono annegate a Venezia poco dopo la mezzanotte del 7 aprile. Sembra indubbio che abbiano voluto mettere fine insieme alla propria vita

Avrete letto, due donne sono annegate a Venezia poco dopo la mezzanotte del 7 aprile. Si erano imbarcate su una motonave per il Lido, uniche passeggere. Unico membro dell’equipaggio il comandante, che a una fermata intermedia si è accorto che non c’erano più. I corpi sono stati ritrovati un paio di ore dopo, dai sommozzatori. Si è accertato che erano due sorelle di origine marocchina, Sanae, 39 anni, e Bouchra, 43. Ho letto le cronache successive, e le versioni diverse. Sarebbero state in Italia da dieci anni. Sarebbero state, come rifugiate, a Marghera. Avrebbero lavorato in un ospedale come ausiliarie per una cooperativa, o, ancora per una cooperativa, nel settore turistico. I vicini di casa non avrebbero mai notato niente di loro. Niente. Uscivano e rientravano insieme. Le avrebbero trovate sull’acqua, le teste in basso, o sul fondo – che sembra meno plausibile. Soprattutto, le avrebbero trovate che ancora si tenevano la mano. Dettaglio struggente, ma anche sorprendente: difficile pensare che due mani avvinte, anche nell’amorevole determinazione di morire insieme, non si separino nell’agonia – non le avevano legate. Sembra indubbio che abbiano voluto mettere fine insieme alla propria vita. Sull’imbarcazione avevano lasciato una bottiglia in parte svuotata di liquore – “Vecchia Romagna”: sembra significare che non fossero credenti, se erano musulmane. Avevano lasciato anche le scarpe, sotto i seggiolini. E’ il dettaglio più toccante e caratteristico, succede che i suicidi vogliano andar via scalzi. Per giunta, una cronaca scrive che hanno lasciato “le sciarpe” (così in Anteprima di Giorgio Dell’Arti). Un capriccioso errore di stampa, che però turba. Turba tutto di questo triste episodio. La morte a Venezia, Venezia vuota, acqua e terra. La possibile causa privata. La possibile causa universale, Venezia del contagio. La connessione eventuale tra le due. O qualcosa d’altro.

  

Non c’entra niente: nell’agosto di cinque anni fa tre sorelle marocchine di 9, 18 e 21 anni, annegarono bagnandosi nel Secchia, a Sassuolo. Il figlio di Pierangelo Bertoli, Alberto, dedicò loro una canzone inedita di suo padre e di Marco Dieci. Si intitolava “Dal volt”, Certe volte, e cantava del fiume, che sostituiva il mare per chi non se lo poteva permettere, e a volte si prendeva qualcuno, come dice, tradotta, una strofa: “Andavamo in Secchia che era il nostro mare / a pesci a nuotare da Maggio fin quando si poteva 7 / qualcuno è rimasto in Secchia per nuotare / e non c’è stato più modo di riportarlo a riva”. Forse si può intanto dedicarla anche alle due sorelle segrete, restate in quell’acqua né fiume né mare.

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