I banchi del governo a Montecitorio durante l'informativa del premier Giuseppe Conte lo scorso 25 marzo (foto LaPresse)

Dopo i pieni poteri, la pandemia: come si è svilito il Parlamento

Adriano Sofri

In nome dell’emergenza hanno affossato i princìpi democratici della Repubblica italiana, già menomata dal M5s

Che la perpetua cosiddetta emergenza, e soprattutto ora la vera smisurata emergenza della pandemia, favorisca, pretenda la prevalenza dei poteri esecutivi, è piuttosto inevitabile. Se la casa brucia e si chiamano i pompieri, bisogna lasciarli lavorare, e pregare che non eccedano nello zelo – forse si può salvare una baionetta del bisnonno. Gli stati in cui i poteri sono già abbastanza pieni possono approfittare a piacere dell’occasione che l’emergenza offre loro: il potere cinese, per esempio, ha fatto arrestare l’altroieri 15 dirigenti storici del movimento per i diritti civili a Hong Kong, compreso Martin Lee, 81 anni, il “padre della democrazia” del territorio: una puntuale viltà.

 

L’Italia è un caso singolare, inaugurato in modo grottesco lo scorso agosto, quando Matteo Salvini proferì una sudata e trafelata rivendicazione di pieni poteri. I pieni poteri sono un sinonimo dell’emergenza, dello stato d’eccezione, dello stato di necessità o d’urgenza o d’assedio, e di tutte le altre denominazioni prese dalla sospensione dello stato di diritto. Era una bravata, più esattamente una buffonata, non impossibile a realizzarsi, e ci si può sbizzarrire a immaginare che uso avrebbe saputo fare un governo Salvini dell’emergenza del virus. E’ subentrato invece un paradosso, che proclamare e condurre lo stato d’emergenza sia toccato a un capo del governo senza storia politica e con un breve e rocambolesco tirocinio, uno per caso come Giuseppe Conte. La cui personale fisionomia suggerisce di calmare gli allarmi sull’abuso del contagio a fini dispotici, e mostra piuttosto una confusa, affannata e benintenzionata rincorsa degli eventi. Chi tenda a ridimensionare la minaccia della pandemia e a sopravvalutare un disegno autoritario potrà comunque invocare l’astuzia maligna della storia, che trasforma i tentoni di sue comparse minori in fatti compiuti verso il soffocamento delle libertà. Ma conviene conservare un senso delle proporzioni, e un apprezzamento realistico, se non altro post factum (morti “certificati” di domenica: 22.745).

 

Al momento, sospesi diritti fondamentali come la libertà personale, di muoversi, di trasferirsi d’abitazione, di riunirsi, una prima conclusione sembra largamente ragionevole: che l’Italia ha cessato di essere una Repubblica parlamentare. Il Parlamento, in ambedue le camere, ha reagito all’emergenza come un pugile suonato. Ha ignorato il ricorso fitto del governo a decreti del presidente, decreti legge e ordinanze, come se non gli competesse una loro valutazione, e ha persuaso la cittadinanza di mirare esclusivamente a stare alla larga dalle camere per scampare al rischio del contagio. Quando si è recuperato fissando dei termini alla presenza in Aula del governo, si è visto, com’era facilmente prevedibile, che, salvo un piccolo gioco delle parti fra opposizione e maggioranza, i parlamentari avrebbero burocraticamente ratificato le decisioni dell’esecutivo. Si è osservato anche che, nel pieno di una tempesta come la pandemia, sarebbe stato irresponsabile per chiunque mirare a una crisi di governo, e anche così il ruolo del Parlamento sarebbe stato obiettivamente svuotato (del resto, questi sono così fuori di senno che sarebbero capaci perfino di fare la frittata).

 

C’è un giudizio pressoché unanime, e circostanziato: i presidenti delle due camere si sono mostrati inerti e privi di autorevolezza verso la contumacia di fatto dei parlamentari; si è rinunziato a riparare alle difficoltà fisiche di una partecipazione plenaria costituendo per esempio una commissione bicamerale a far da interlocutrice, a pieno titolo, del governo; si è trascinata una discussione capziosa e sbalordita sull’eventualità di un uso del dibattito e del voto a distanza, strumenti sui quali fuori si impegnavano alla svelta attività come il lavoro o lo studio. Eccetera. Un simile esautoramento obiettivo del Parlamento – una sua mediocrissima figura, diciamo – promette per sé di influenzarne credito ed efficacia anche una volta che le cose siano tornate all’ordinario, ammesso che avvenga, e la sospensione dei diritti in nome del primato della salute, dell’incolumità, privata e pubblica, si sia dimostrata, come deve, temporanea.

 

Poco male, se il discredito del Parlamento non fosse già enorme prima dell’avvento del virus, e non costituisse il cuore della sfiducia e della denigrazione della democrazia. Fenomeno diffuso internazionalmente, nelle democrazie, come si sa: ma la diffusione non è un mezzo gaudio, e non impedisce di vedere come l’Italia abbia proceduto a oltranza su questa strada. Favorita da degenerazioni istituzionali, meccanismi elettorali derisori, rapporti squilibrati fra politica e magistratura, compromissioni reciproche fra partiti e strumenti di informazione e di opinione. Il Parlamento, che godette un tempo di un certo credito – avreste comprato un’auto usata, blu o no, da un senatore democristiano – ha battuto, nella selezione naturale alla rovescia che ha investito l’intera vita pubblica, gli altri concorrenti. Vi si sono via via ammessi “i peggiori”: i più fedeli, i meno preparati, i più privi di un talento e un mestiere personale, i più inclini a un comportamento da clienti. Apprezzati dai notabili per la loro disponibilità, i cooptati hanno via via, per successione naturale e anche perché i clienti sono capaci di una propria solidarietà promozionale, di gregge, scalato i posti. E da lì hanno trasformato da obiettiva in soggettiva e intenzionale la svalutazione, anzi la irrisione, dell’istituzione in cui si sono accomodati: legando la loro carriera alla sua rovina.

 

Questo fenomeno già maturo per una specie di vecchiaia e di inerzia del sistema dei partiti, cui tangentopoli e il suo effetto rovesciato nella gente nova e i subiti guadagni dietro Bossi e Berlusconi diedero il colpo di grazia, è culminato nella meravigliosa parabola dei 5 Stelle. La selezione naturale alla rovescia fu, secondo qualche storico, la causa maggiore della fine dell’impero romano, ed ebbe bisogno di qualche secolo. Noi siamo stati svelti. Il personale che i 5 Stelle hanno così copiosamente portato in Parlamento, e sulla sua scia in una miriade di altri posti pubblici, ha esaltato l’inettitudine in generale e la propria in particolare, e si è metodicamente applicato alla denigrazione del ramo su cui era sedutissimo: sbiadita la bellezza già seducente della democrazia, i nuovi parlamentari in piena fase della decadenza si sono tenuti caro un programma sopra ogni altro – l’unico, forse. Il “taglio dei parlamentari”. A un popolo demoralizzato e incattivito hanno offerto, quando non bastassero le candidature in Parlamento, il rito della sua mutilazione. Motivato, peraltro: sono essi stessi la più persuasiva delle motivazioni. “Io non crederei in un Parlamento di cui io facessi parte…”. Del resto, per tornare alle prime righe, i primi della fila, gli arditi del popolo, propongono la Cina come paese guida, e al diavolo Hong Kong.

 

Dunque la necessaria e incresciosa sospensione dei diritti costituzionali che la pandemia impone (e naturalmente si può distinguere fra le varie misure particolari) piove per così dire sul bagnato quanto al ruolo e al prestigio del Parlamento. Qualunque sviluppo ci aspetti, la democrazia italiana farà una gran fatica a recuperare un suo carattere parlamentare. I dcpm non sono la causa, sono un supplemento imprevisto, un concorso esterno in dissociazione democratica. Era diventato troppo facile accaparrarsi un posto alla Camera, e poi è diventato così difficile trovarne uno in rianimazione.