Personale medico con tute protettive anti Covid all’aeroporto internazionale Sheremetyevo, fuori Mosca (AP/Aleksandr Avilov)

Il test di realtà per gli autocrati

Anna Zafesova

Nell’epidemia sopravvivono i più forti e in questo caso i più forti non sono quelli con i pugni più grossi e i più brutali, ma quelli più organizzati e ragionevoli

Il presidente americano Donald Trump dice che, visto che il disinfettante uccide il virus, basta escogitare il modo per iniettarlo nelle vene del malato per ottenere la guarigione. Il presidente bielorusso Alexandr Lukashenko sostiene che il coronavirus non è un pericolo e rimanda i bambini a scuola a condizione che si faccia prendere aria alle aule (a tutti gli altri consiglia un giro nei campi sul trattore per farsi passare ogni malanno reale o immaginario). Il presidente del Turkmenistan Gurbanguly Berdimuhammedov arresta chi osa menzionare il coronavirus, eliminando il problema alla radice: se una cosa non esiste non può fare male. In Russia centinaia di pazienti vengono ricoverati e muoiono con la diagnosi “polmonite extraospedaliera”, ma i medici che denunciano questo trucco burocratico – e i colleghi contagiati a decine di Covid-19 per la mancanza di mascherine, tute e ventilatori – vengono incriminati per diffusione di fake news. L’indignazione per Paola Taverna che proponeva come metodo di immunizzazione di mettere i bambini insieme con i cugini già malati è il ricordo nostalgico di un mondo perduto per sempre: ora si chiama immunità di gregge e viene predicata da consiglieri di governi di antiche democrazie, mentre altri consiglieri hanno rinviato la decisione del lockdown per paura di suscitare scontento: “Chiudere completamente una nazione o una città senza crisi e senza morti è difficile”, ha raccontato sconsolato la sua esperienza di consulente di governi il fisico esperto di modelli epidemici Alessandro Vespignani, in un’intervista a Mario Calabresi.

 

I test per il coronavirus danno ancora un notevole margine d’errore, ma in compenso la pandemia si è già rivelata un test per i politici. Ezio Mauro su Repubblica ha ripreso l’analisi pubblicata dall’Economist è ha segnalato che gli autocrati stanno avendo la meglio in questa crisi. Accentrano potere mentre noi siamo distratti. Questo è certo vero, i despoti tendono a non sprecare mai le occasioni, ma abbiamo scoperto anche di essere governati o da ignoranti che hanno del mondo idee da zia Pina, o da pavidi che hanno paura di irritare quelli che hanno idee da zia Pina. La correlazione è ormai evidente e collaudata: più un politico è ideologico, più ricorre a retoriche ed emotività come strumenti di governo, più si basa su percezioni e non su realtà, più risulta vulnerabile al virus. Anzi, purtroppo, quelli a risultare i più vulnerabili sono i suoi sudditi. Che il mito fondante sia il fanatismo religioso, il complottismo, l’isolazionismo, la superiorità del sistema sanitario locale o la gloria della superpotenza, le zone più colpite sono state quelle dove la politica più spiccava voli narrativi invece che stare con i piedi per terra. Il coronavirus è stato un grande test di ritorno alla realtà. Ha spazzato le paure immaginarie – chi oggi ha paura delle scie chimiche, dell’invasione dei migranti, delle quinte colonne dell’occidente, di Soros, Bilderberg e dei savi del Sion? – per sostituirle con una paura reale, tangibile, vera, la paura di morire. Forse è stato anche per questo che anche autocrati e populisti di grande abilità e spregiudicatezza non hanno cavalcato il virus, cercando semmai di ignorarlo: governando grazie alle fobie, vedevano una paura non inventata da loro come una minaccia che avrebbe spezzato la realtà virtuale che avevano costruito.


Anche molte democrazie dovranno rivedere il proprio rapporto con i cittadini dopo aver incrinato il patto sociale (e fiscale)


 

Ogni autoritarismo – e i populisti e i sovranisti nelle democrazie sono quasi sempre aspiranti autocrati – si basa sulla paura, e sul senso di protezione che gli spacciatori di fobie offrono a chi li sostiene. E’ l’abc del dittatore, il manualino da prima elementare. Una crisi non creata da loro li manda in crisi. Li spoglia del manto di efficiente onnipotenza che sfoggiano nella propaganda televisiva. E annulla la paura che suscitano nei sudditi. Il baratto “libertà in cambio di sicurezza” si rivela un affare peggiore perfino della primogenitura venduta per un piatto di lenticchie: quale sicurezza può promettere un governo che abbandona i suoi cittadini a morire soffocati nel corridoio di un ospedale sprovvisto di medicine, mascherine e respiratori? E quale paura più grande della morte dei propri cari può indurre a tacere le vittime?

 

La paura uccide la ragione: è questo il meccanismo base dell’autoritarismo. Ma la morte della ragione impedisce il funzionamento del sistema, “cruel but inept”, come scrive l’Economist degli autoritarismi alle prese con il coronavirus (e non solo). Un sistema basato sulla paura dei superiori produce un fenomeno che si chiama “assenza di feedback negativo”. Lo abbiamo sperimentato tutti anche in situazioni minori, a scuola, in famiglia, nelle aziende: è quella situazione in cui criticare comporta più danni che continuare a subire i danni che si vorrebbero correggere con la critica. Non solo i despoti riescono a governare una realtà soltanto a patto di manipolarla: non sono in grado, o perdono comunque rapidamente la capacità di distinguere la realtà, perché grazie all’intimidazione ottengono soltanto un quadro della realtà che vogliono accettare. Il chirurgo che sbaglia l’operazione al cuore del leader coreano perché gli tremano troppo le mani è la metafora perfetta della trappola dell’inefficienza delle dittature. Una notizia probabilmente falsa che però si ispira a un fatto storico: Stalin morì perché i suoi sodali decisero di non bussare per paura di disturbarlo (anche perché non vedevano l’ora di farlo fuori per non morire ogni giorno di paura per colpa sua).

 

Anche molte democrazie dovranno rivedere il proprio rapporto con i cittadini, dopo aver pericolosamente incrinato il patto sociale (e fiscale) lasciandoli senza cure, imponendogli di fatto di salvarsi da soli chiudendosi in casa, in una drammatica manifestazione di impotenza. E anche in occidente molti politici e amministratori non hanno ancora fatto la fine di Gheddafi soltanto perché siamo costretti a rimanere a casa. Ma dall’abisso della pandemia si può intravvedere un barlume di ottimismo. Perché nell’epidemia sopravvivono i più forti, e in questo caso i più forti non sono quelli con i pugni più grossi e le voci più alte, ma quelli più organizzati e disciplinati, meglio preparati e addestrati, i più razionali e i più bravi ad adattarsi. I più ragionevoli. I più preparati e i più rapidi a promuovere la ricerca e discuterne i risultati. I più efficienti nell’organizzare, e soprattutto riorganizzare, in base alle esigenze le cure e la prevenzione. E soprattutto i più capaci di azione comune. Il lockdown nelle democrazie si sta reggendo sul senso di responsabilità dei cittadini prima che sulla paura. Il paternalismo opprimente degli autoritarismi non si fida di nessuno: l’obbligo di pass digitali per tutti ha bloccato migliaia di persone per ore nelle code per i controlli nella metropolitana di Mosca, nella più clamorosa e potenzialmente letale manifestazione dell’inefficienza della stagione Covid.


I despoti riescono a governare una situazione a patto di manipolarla. Se la paura non è dettata da loro, non sanno controllarla 


 

Il coronavirus è una curiosa lezione di democrazia. Perché, in un esperimento sociale globale, sta insegnando a tutti una cosa semplice, elementare e essenziale: pensare alle conseguenze delle proprie azioni, per noi stessi e per gli altri. Ricordarsi che ogni piccolo gesto – lavarsi le mani, scambiarsi un abbraccio, starnutire, passarsi un bicchiere o spintonarsi sull’autobus – può avere delle ripercussioni. Che la nostra libertà finisce dove inizia quella degli altri. Che non bisogna fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te. Che la razionalità e l’autocontrollo migliorano la sopravvivenza più dell’emotività impulsiva. Che bisogna pensare e pianificare prima di agire. Che il mondo non è un gioco a somma zero dove per stare meglio bisogna per forza far star peggio gli altri. Ma soprattutto che, in un’epoca di alienazione, di diffuso sentimento di distanza e impotenza rispetto alle istituzioni e dalla presa di decisioni, tutto dipende dal singolo, anche dal più debole e privo di strumenti. E’ la nostra azione che decide l’esito della pandemia. Dopo le guerre mondiali i governi sono stati costretti ad allargare il diritto di voto a quelli che avevano mandato a morire nelle trincee. Dopo l’epidemia di coronavirus, quando i governi hanno delegato la salvezza dei cittadini ai cittadini stessi, non potranno tornare a raccontare le stesse fantasie ideologiche come se nulla fosse successo. Il paragone dell’epidemia con una guerra è stato, giustamente, criticato da molti come esagerato. Ma ha anche una componente di verità: alla fine della pandemia, saremo tutti dei sopravvissuti, e sarà merito nostro. E trattare con noi sarà molto più difficile.