Militari americani a Napoli, rione Pignasecca (LaPresse)

Il miglior antidoto alla retorica della liberazione è un libro di un soldato inglese

Giampiero Mughini

“Napoli '44” la fuga dalla diade fascismo/antifascismo

Uno dei libri più belli sull’Italia per com’era al momento della “liberazione” da parte degli alleati, un libro che fa da sacrosanto antidoto alla retorica che accompagnerà le celebrazioni del 25 aprile – a cominciare dalla barzelletta secondo cui a cacciare i tedeschi dalle città del nord sono stati i partigiani – lo ha pubblicato nel 1978 in lingua inglese (Naples ’44, divenuto Napoli ’44 nella successiva edizione italiana di Adelphi) uno che al tempo della Seconda guerra mondiale era stato un giovane ufficiale inglese. Norman Lewis (nato nel 1908, morto novantacinquenne il 22 luglio 2003), che da milite del 1st King’s Dragoon Guards era sbarcato a Paestum il 9 settembre 1943 al seguito della Quinta armata alleata e che prima non aveva mai messo piede in Italia un solo giorno. A Salerno, Benevento, Napoli, in quell’Italia meridionale su cui stavano rimontando i soldati inglesi, americani, canadesi, polacchi, marocchini (non una sola volta accenna a forze di combattimento italiane) Lewis ci rimase un anno. Senza mai sparare un colpo con la rivoltella che gli avevano affidato poco prima dello sbarco. Fece molto di più. Su ordine dell’Intelligence del British Army frugò negli archivi per conoscere quel che gli italiani erano stati durante il ventennio fascista, se fossero stati favorevoli o avversi al regime fascista; andò a leggersi le lettere di oscena compiacenza da tantissimi di loro indirizzate al console tedesco a Napoli; chiese in giro che ne era stato di quelle belle ragazze che adesso si promettevano quali spose di ufficiali inglesi o americani, e ne risultava che il più delle volte erano state amanti di un qualche ex gerarca fascista e che in qualche caso lo erano ancora; andò scartabellando fra le carte del tribunali, zeppe di casi di corruzione; cercò invano di mettere un freno al tratto dominante dell’economia della disperazione qual era quella del 1943-1944 nell’Italia meridionale, ovvero “il mercato nero”, il più spudorato. Su tre partite di merci che al porto di Napoli arrivavano all’esercito alleato, una era difatti rapinata in un modo o in un altro e immessa sul mercato nero.

  

Di reportage politici pubblicati nel secondo Novecento Lewis ne ha scritti molti altri che io non conosco, e di cui tutti dicono un gran bene. Graham Greene lo reputava uno dei più grandi scrittori inglesi del Novecento. Devo la lettura del suo libro all’aver cercato di mettere un po’ d’ordine nelle pile di libri. Il libro di Lewis, che avevo comprato un paio di mesi fa, era rimasto nascosto e sommerso da altri libri. Ho cominciato a leggerlo e l’ho deposto solo all’ultima delle 244 pagine dell’edizione Adelphi.

   

Se mai c’è stato al mondo uno scrittore che ha tenuto i fatti da osservare ben distinti dalle proprie opinioni, quello è stato Lewis, che aveva 35 anni quando sbarcò in Italia. Non fa altro che questo, guardare la realtà com’è e riferirla senza oscurarne alcun particolare. Uno della mia generazione, uno che i soldati americani della Seconda guerra mondiale se lì è sempre immaginati arditi e leali come fossero tutti alla maniera dei John Wayne, Robert Mitchum o Henry Fonda, resta stupefatto che Lewis scriva quello di cui è stato testimone. Che al momento dello sbarco in Italia e delle aspre battaglia contro i tedeschi che opponevano una disperata resistenza, gli ufficiali americani dessero ordine ai loro soldati di far fuori a colpi di calcio di fucile gli eventuali soldati tedeschi che si fossero arresi. Lewis va ancora oltre. Assiste a un belluino interrogatorio da parte di un ufficiale americano di un civile italiano che lui tratta a furia di colpi in testa con una sedia, colpi cui l’italiano reagisce con fierezza. E finché, evidentemente insoddisfatto dei risultati dell’interrogatorio, l’ufficiale americano non chiama uno dei suoi soldati e gli ordina di portarsi via il civile italiano e di “farlo fuori”. Al che il soldato obbedisce entusiasta. E’ la guerra bellezza, dove gli individui non si comportano come gli eroi dei film. Così com’è dovuto alla guerra un bombardamento a tappeto che ha schiantato e raso al suolo la città di Benevento, un bombardamento di cui Lewis scrive che non aveva la benché minima necessità militare. Era solo uno sfoggio di potenza, un colpire dove possibile e al più possibile.

 

Tutti e tutto Lewis li racconta così, non per trarne una morale ma per come erano davvero. Molti di quelli che si presentano agli Alleati col cappello in mano e felici che fossero arrivati, sino al giorno prima erano stati dei perfetti fascisti o meglio dei “neutrali”: Francia o Spagna purché se magna. E’ una sfilata di falsari, di prostitute, di gente che darebbe via anche la propria sorella pur di averne un vantaggio sociale o economico, di mercanti che sulle proprie bancarelle espongono senza ritegno ogni tipo di merce rubata all’esercito alleato. Lealtà, fermezza nel mantenere la parola data, coerenza nelle proprie convinzioni? Di tutto questo non c’è traccia negli spezzoni di società meridionale bazzicati dal giovane ufficiale inglese innamorato del proprio mestiere, e, badate bene, da subito innamorato dell’Italia. Né c’è alcuna traccia della diade fascismo/antifascismo come di una chiave atta a spiegare quel che la stragrande maggioranza degli italiani era e faceva, alla maniera per l’appunto della retorica sul 25 aprile. Mai in nessun altro libro avevamo toccato con mano l’inesistenza di una tale diade, quella di cui a tutt’oggi i beoti si fanno forti nello spiegare ogni particella di storia italiana passata e odierna. E a non dire dell’acutezza con cui Lewis avvista l’onnipotenza in quella società meridionale della camorra e affini, e ti sembra di leggere al proposito delle pagine tratte da un odierno libro di Roberto Saviano.

  

Alla pagina 222 della copia (settima edizione Adelphi) che ho comprato e letto, un Lewis che si accinge ad abbandonare un’Italia di cui è comunque innamorato trae le sue conclusioni. Gli lascio la parola: “Sono arrivato alla conclusione che, in cuor suo, questa gente non deve poterne proprio più di noi. Un anno fa li abbiamo liberati dal Mostro fascista, e loro sono ancora lì, a fare del loro meglio per sorriderci educatamente, affamati come sempre, più che mai fiaccati dalle malattie, circondati dalle macerie della loro meravigliosa città, dove l’ordine costituito non esiste più. E alla fine, cosa ci guadagneranno? La rinascita della democrazia. La fulgida prospettiva di poter un giorno scegliere i propri governanti in una lista di potenti, la cui corruzione nella maggior parte dei casi, è notoria e accettata con stanca rassegnazione. In confronto, i giorni di Benito Mussolini devono sembrare un paradiso perduto”.

 

Un responso tanto esatto quanto agghiacciante, specie perché scritto da uno che non ha il minimo dubbio sulla superiorità morale della democrazia.

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